lunedì 31 agosto 2020

IL CAPPELLO DEGLI ALPINI

 


Un cappello  è sempre legato alla “presenza” specie di un corpo militare:  in un periodo di esaltazione massima dello spirito militare come l’era napoleonica, i cappelli dei militari erano di foggia variegatissima e tutti di forte impatto scenografico; ce ne erano per tutti i gusti  e certamente uno più bello dell’altro . La  restaurazione aveva un po’ ridimensionato tale tendenza e si era rimasti alla feluca di foggia assai semplice  che d’altronde lo stesso Napoleone portava abitualmente, però alcuni corpi speciali continuavano a portare cappelli di forte rappresentanza, tipo  il colbacco da ussaro, che veniva adottato da altri reparti tipo ad esempio i Granatieri o anche i carabinieri che alla normale feluca sovrapponevano dei pomposi pennacchi. Nel 1836 il capitano delle Guardie (che poi divennero i Granatieri) Alessandro La Marmora propose l’istituzione del corpo dei bersaglieri, una specialità della fanteria con caratteristiche di maggiore rapidità e proprio per sottolineare questa velocità ne propose un cappello tipo shakò, cioè  con visiera, schiacciato e con un pennacchio fatto di tante piume di diversa lunghezza che enfatizzassero con il loro movimento (le famose piume al vento) appunto l’impeto, la velocità, l’ardore. E’ probabilmente il primo e più caratteristico copricapo militare dell’Esercito Savoiardo poi passato all’Esercito del Regno d’Italia. Perlopiù i berretti degli altri corpi si erano andati semplicizzando, i Generali magari mantenevano la feluca più o meno impennacchiata, ma i reparti di linea, la fanteria, l’artiglieria, il genio andavano sempre più adottando il chepì, un berretto assai semplice con visiera  sul quale gli ufficiali vi apponevano le strisce del grado, cosa che d’altronde, dopo un primo periodo, soprattutto  durante la Repubblica Romana, in cui ciascuno si sbizzarriva in copricapi piuttosto fantasiosi, con penne, lacci e di solito a tronco di cono, anche i garibaldini, cominciarono a preferire, conservando il colore rosso vivo. E' grosso modo questa la situazione delle uniformi con la creazione del Regno d’Italia, molto influenzata dalla foggia francese, con giubbe molto lunghe, fascia azzurra, che era il colore distintivo dei Savoia, non a tracolla, ma abitualmente avvolta in vita sotto la cintura. Le cose cominciarono a cambiare  dopo la guerra del 1866 e l’adozione della foggia di ispirazione prussiana, giubbe molto più corte, kepì più rialzato , colore più scuro della giubba, per gli ufficiali, a doppia abbottonatura e pantaloni invece di colore celestino con le bande dei colori dei vari corpi di appartenenza.
E’ in questo nuovo contesto che nel 1872 il capitano Giuseppe Perrucchetti  propose la costituzione di un nuovo corpo militare con peculiarità assai specifiche, quello della difesa dei valichi alpini, fidando sulla appassionata benevolenza di un politico come Quintino Sella allora Capo del Governo che era un appassionato montanaro, tra i fondatori del Club Alpino (il Cai) e del Ministro della Guerra il Gen. Cesare Ricotti Magnani anche lui appassionato montanaro: fu proprio quest’ultimo che avendo particolarmente apprezzato un articolo del capitano Perrucchetti sulla Rivista Militare in merito alla costituzione di reparti addetti alla difesa alpina, trovò l’escamotage per la costituzione del nuovo corpo, predisponendo  la costituzione di 15 compagnie di soldati a  reclutamento regionale presso i 10 corpi d’armata in cui  era suddiviso il territorio nazionale, con compiti mascherati da  militari distrettuali, per ovviare alle opposizioni che sarebbero certamente arrivate se fosse stato proposto chiaramente l’istituzione di un nuovo Corpo militare, in un periodo di forti ristrettezze economiche e dove appunto per bocca dello steso Capo del Governo le tali economie dove essere “fino all’osso”  La caratteristica principale del nuovo Corpo che in prima istanza si doveva contentare di sole 15 compagnie, era appunto il tipo di reclutamento, non nazionale, ma regionale, anzi addirittura locale, perché, e su questo punto il Perrucchetti era stato chiaro, la cosa più importante per un impiego tempestivo a livello di difesa montana doveva essere la velocissima mobilitazione dei complementi, quasi con il fucile da portare a casa, come faceva l’esercito svizzero. Nascevano così gli alpini nell’ottobre del 1872 con un Regio Decreto di Vittorio Emanuele II in data 15 ottobre 1872 , abbiamo detto, quasi di soppiatto: 15 sperimentali compagnie  che però pochissimi anni dopo nel 1878, con il nuovo Re Umberto I  venivano portate a 36 inquadrate in 10 battaglioni che assumevano la denominazione dei luoghi di reclutamento. In quanto all’uniforme era del tutto identica a quella della fanteria, con l’adozione del colore verde come sorta di distintivo, qualcuno dice per il verde delle montagne, ma le montagne specie ai confini sono per lo più ammantate di neve e quindi a rigore il colore avrebbe dovuto essere il bianco, però, e forse qualche dotto studioso era andato a ritrovare che ai tempi di Augusto esisteva una  “Legio” , detta dal nome della famiglia dell’Imperatore  Augusto: Julia, con peculiarità di difesa montana che adottava il verde come colore distintivo. E verde sia, per le bande dei pantaloni, per le filettature della giubba ed infine anche per le mostre nel 1883 in correlazione con il nuovo simbolo dello stesso Esercito italiano: le stellette. Gli ufficiali continuavano a portare il kepì con le strisce argentee del grado e i Generali la Greca su fondo rosso, ma i soldati, ecco i soldati non ne vollero quasi subito sapere del banale kepì; volevano distinguersi anche e soprattutto nel copricapo da quella che proprio allora cominciavano a chiamare “la buffa” ovvero la fanteria.
Cento penne ha il bersagliere” diceva una delle prime canzoni degli alpini “ma l’alpin ne ha una sola, penna d’aquila, penna nera….” bhe magari proprio all’inizio la penna non fu d’aquila, ma di corvo e comunque la sua origine di adottarla come corredo necessario e imprescindibile del cappello, dato che si voleva enfatizzare  la costituzione del nuovo corpo militare, il primo del nuovo Regno d’Italia con un richiamo a qualcosa del Risorgimento, fu scelto il copricapo del protagonista dell’Opera Ernani di Verdi, che aveva giustappunto una bella penna sul lato, così come enfatizzato dal famoso quadro “Il bacio” di Hayez, anche se il cappello ivi ritratto somiglia più a quello che fu scelto una quarantina di anni dopo piuttosto che quello detto “alla calabrese” in feltro nero a tronco di cono  con la tese rialzate,che fu adottato come copricapo delle nuove truppe, per motivi anche essi legati al Risorgimento, dato  che nel 1848 era stato addirittura proibito in un’ordinanza della Polizia di Milano per il suo carattere sovversivo, cui i patrioti solevano mettere, proprio dal lato sinistro della tesa rialzata,  piume, pennacchi, penne appunto, per aumentare lo sbeffeggiamento delle autorità. Come  fregio fu dapprima disposta una stella a cinque punte , ma ben presto una quanto mai fastosa aquila ad ali a metà tra spiegate e abbassate, con croce sabauda e cornetta e fucili incrociati.
Dieci anni dopo la loro costituzione nel 1882, furono istituiti i primi sei reggimenti alpini, di cui uno dei comandanti fu il futuro Generale e Capo del Governo, all’epoca Colonnello Luigi Pelloux. Oramai gli alpini erano entrati nell’oleografia militare dell’epoca, ne parla De Amicis nel libro “Cuore” e fece scalpore una marcia attraverso i monti dell’allora Capitano Davide Menini con la sua compagnia per rendere puntuali omaggi alla Regina Margherita nel 1881.
Proprio questo ufficiale Davide Menini, divenuto Tenente Colonnello doveva caratterizzare il battesimo del fuoco del Corpo, non tra le montagne o le valli alla cui difesa gli alpini  erano stati predisposti, ma tra le ende, gli acrocori  i tondeggianti colli e gli sterminati valloni etiopici, giù in terra d’Africa. Era difatti stato nominato Comandante  del primo battaglione  alpino d’africa, un organico di circa 1000 uomini  con 20 ufficiali. Gia’ in precedenza  degli alpini erano stati inviati in Africa, ad esempio il famoso Galliano, distintosi in più occasioni e divenuto leggendario nella difesa del forte di Makallè, era un ufficiale proveniente dagli alpini, ma  era la prima volta in quell’inverno del 1895, che un intero battaglione tutto di alpini veniva impiegato  in operazioni belliche. Anche in Africa gli alpini non avevano rinunciato alla loro penna e l’avevano applicata sul casco coloniale, che era ricoperto di panno colore bianco, ingiallito, come d’altronde le uniformi coloniali, in bagni di foglie di tè. Battesimo del fuoco quanto mai tragico in quanto il battaglione che era stato inquadrato nella Brigata di Riserva del Gen. Ellena, tentò di tamponare la avanzata abissina nell’infausta battaglia di Adua, presidiando il Colle Rajo  e opponendo una strenua resistenza che costò la vita a oltre 400 alpini, ivi compreso il
suo comandante e a numerosi ufficiali tra cui uno dei comandanti di compagnia, il capitano Pietro Cella, che fu la prima medaglia d’oro al valor militare, ovviamente alla memoria, della storia del Corpo. Perché gli alpini abbiano nuovamente a che fare con battaglie  si dovrà attendere una quindicina di anni e nuovamente in Africa, non in Etiopia, ma in Libia e Cirenaica, ma in questi 15 anni molte cose erano cambiate: anzitutto le uniformi, non più turchine o blu per gli ufficiali con gradi a fiore sulle maniche, ma grigioverdi  e anche il cappello si era modificato, non più alla calabrese, ma sul tipo di quello usato tra i montanari, con le falde assai più larghe, grigioverde anche questo, di panno e floscio con la penna che i veci portavano in genere molto lunga a “bilanci’arm” come si diceva in gergo. A rigore anche gli ufficiali potevano utilizzare lo stesso cappello con penna nera d’aquila fino al grado di Capitano, bianca d’oca da Maggiore in su, ma per la verità preferivano il berretto a tuba, che era un chepì assai più rialzato, sempre con i gradi a fettucce, lasagne e greca  tutt’attorno, aboliti i gradi sulle maniche “ a fiore” si portavano ora sulle controspalline a stellette, una due e tre  fino a capitano, mentre gli ufficiali superiori portavano la controspallina bordata, sempre con le stellette e i Generali interamente bianco argenteo dove solo il Re arrivava a tre stelle in quanto Generale d’esercito, mentre anche il Capo di Stato Maggiore e  i comandanti di Corpi d’Armata e poi d’Armata arrivavano solo a due che contrassegnava il grado di Tenente Generale, dove il ruolo di Superiore Comando era dato da una corona dorata e  bordata di rosso situata tra le due stelle. Una evoluzione che era cominciata proprio dagli alpini nel 1906 con il cosidetto “plotone grigio”; la risonanza dei terribili massacri della guerra Russo Giapponese avevano difatti sollevato la questione  della mimetizzazione e del colore troppo vistose delle nostre uniformi. Non era un problema solo nostro, i francesi iniziarono la grande guerra con i famosi “pantalons rouges” che erano una pacchia per le mitragliatrici tedesche, e anche le altre nazioni europee non erano da meno in quanto a rutilare di colori.
Fu un borghese certo Luigi Brioschi,  presidente della sezione milanese del Cai, che perorò con fervore la causa dell’adozione di un colore più mimetico per le truppe , riuscendo a portare dalla sua parecchi ufficiali tra cui il Tenente Colonnello Donato Etna che era il comandante  del battaglione alpino Morbegno, che a sua volta riuscì a farsi  autorizzare a eseguire una sperimentazione di un plotone vestito con la nuova uniforme mimetizzata che venne “provata” al poligono di tiro in relazione a quella ordinaria. La divisa non era ancora il grigio verde che verrà però adottato di li’ a poco, ma aveva una tinta più color creta, con giacca chiusa bottoni coperti e colletto rivoltato, pantaloni sbuffati  con calzettoni o le celebri e famigerate fasce mollettiere che costituiranno la disperazione di tutte le leve a venire fino alla seconda guerra mondiale. L’esperimento suffragò le tesi di Brioschi che nel suo fervore era andato anche a scomodare Dante Alighieri perché nel suo inferno aveva fatto assumere a dei dannati che dovevano perdersi nel panorama, lo stesso colore delle rocce; ad una distanza  stabilita difatti il manichino con indosso  la vecchia uniforme veniva centrato 8 volte da tiratori scelti del plotone, mentre  quello con la nuova uniforme una volta sola. Le sagome erano state disposte in vari modi, a terra, in ginocchio e in piedi, inoltre dopo  500 metri, mentre la vecchia uniforme soprattutto in piedi era ancora perfettamente individuabile, quella grigia  si confondeva col terreno  e in piedi era stata colpita solo tre volte  contro le 24  di quella turchina. Ovvio e naturale che di lì a poco, l’esempio di quel  cosidetto “plotone grigio” fu seguito per tutto l’Esercito, influenzando tutti gli eserciti del mondo che presero spunto dal modello italiano.  In Libia dunque  l’esercito si presentava  nella nuova tenuta, certo qualche ufficiale adottava ancora la vecchia uniforme , molto più marziale e oggettivamente assai più bella , ma oramai erano  una minoranza e anche i Generali indossavano il grigio-verde, che alla fine era stato giudicato il colore mimetico più adatto al tipo di terreno italiano. Coll’inizio della guerra con la Turchia, gli alpini  vennero inviati un pò alla spicciolata, ma l’anno seguente  si fecero le cose più in grande, non più compagnie 0  battaglioni, ma un intero reggimento:  l’8° posto agli ordini di un Colonnello che diverrà una leggenda Antonio Cantore, e questa volta non ci sono disfatte, anzi l’8° rgt° alpini si era distinto in numerose occasioni e il suo irruento comandante anche se costantemente tenuto a bada dal Gen.Tommaso Salsa comandante della Divisione che era uno dei migliori ufficiali dell’Esercito, già Ispettore delle Truppe alpine,  si guadagnerà la promozione a Maggior Generale alla fine della campagna. Un’altra medaglia d’oro per un un alpino, e questa volta non alla memoria, il tenente Giovanni Esposito, che ritroveremo in Grecia nel 1941 Comandante della Divisione Pusteria e un fatto passato alla leggenda e ratificato in un monumento che ancora oggi è presente in Milano e in copia anche a Merano, quello di un mastodontico alpino Antonio Valsecchi che durante un assalto alle difese avanzate di Derna in  un Ridottino denominato Lombardia, esaurite le munizioni sollevò un grande masso scagliandolo contro gli assalitori, presto imitato dai suoi commilitoni che riuscirono a respingere e mettere in fuga il nemico. Gli alpini nella prima guerra mondiale sono oramai troppo inseriti nell’immaginario collettivo di quella guerra, per aggiungere qualcosa. Solo alcune precisazioni: anzitutto quella del Gen. Cantore  che dopo appena pochi mesi di ritorno dalla Libia, si trovò Cte di Brigata in Trentino e subito diede  un diverso impulso alle direttive rigorosamente difensive affidate alla 1^ Armata dal Gen.Cadorna: conquista di Loppio, Mori e soprattutto della importante cittadina di Ala; tanto era bastato per il famoso “promoveatur ut moveatur” ovvero  nomina a  Cte di Divisione e trasferimento in Cadore all’8^ Armata , ma anche qui, il lupo perde il pelo, ma non il vizio: la sua fissa era  la cima del Castelletto e dilagare per la Val Travenzes, così non passava giorno che non facesse  ispezioni, controlli di postazioni e soprattutto non cessasse di guardare lontano col suo cannocchiale, oltre i Monti, l’Antelao, le Tofane, le vallate, alla ricerca di un varco dove far avanzare gli uomini della sua Divisione. Un po’ troppo, forse soprattutto per i suoi sottoposti, costretti a tenere il passo di quella specie di invasato. Il cecchino che si dice lo abbia centrato in
piena fronte  quel giorno del 20 luglio alla Forcella Negra dellaTofana di Rozes, non è mai stato identificato e fin dall’inizio  le perplessità su quella strana pallottola di cui ancora è conservato il berretto con il foro sulla visiera, ha sollevato non pochi dubbi. Cantore era un ufficiale espertissimo e se si esponeva così platealmente oltre le trincee è perché sapeva bene che i cecchini in quel punto erano fuori tiro, tant’è che prima del colpo fatale, ci fu un colpo che arrivo’ oramai innocuo a 20 metri dalla posizione del Generale, ma  se i cecchini in quel punto erano fuori tiro non altrettanto si poteva dire dei numerosi costoloni  a ridosso della trincea , posti a pochi metri  e saldamente in mano italiana: da lì sarebbe stato uno scherzo per chicchessia centrare in piena testa il Generale, e neppure servendosi di un fucile, ma di una semplice Beretta o Glisenti, le pistole in dotazione  agli ufficiali italiani. Ci fu anche un indagine pochi giorni dopo il fatto con tanto di venuta di un ufficiale dei carabinieri, ma  fu conclusa in tutta fretta, appena dopo il funerale del Generale a Cortina, dove specie gli ufficiali superiori erano in preda ad una curiosa euforia e come disse un testimone oculare, l’unica nota di tristezza  della cerimonia era il cavallo bianco del Generale tutto bardato, ma senza cavaliere. La voce che Cantore potesse essere stato ucciso da “fuoco amico” e con piena intenzione specie da qualche immediato sottoposto che era stato particolarmente vessato dalla severità del Generale  (pare che pochi giorni prima incrociando un ufficiale  gli avesse fatto una tale ramanzina da costringerlo alle lacrime!) fu subito molto diffusa e la inchiesta si era conclusa troppo rapidamente per non dare adito a dicerie di sorta, dicerie che sostanzialmente non giovavano a nessuno e che quindi furono  presto bandite con la concessione della medaglia d’oro al valor militare alla memoria, e l’annovero della figura del Generale nell’Olimpo degli Eroi. A tingere di giallo il  mistero, contribuì anche il fatto della immediata scomparsa del berretto del Generale, quello con il foro della pallottola sulla visiera, da cui si sarebbe potuto stabilire il calibro, un pò quello che doveva succedere per John Fitzgerald Kennedy, di cui scomparve addirittura il cervello da cui si sarebbero potuto fare delle congetture sulla provenienza dei colpi mortali. In verità il berretto lo aveva prelevato prima dell’inumazione della salma, un nipote che lo aveva conservato per decenni, ignaro delle ipotesi sulle uccisioni del nonno, e quando finalmente nel secondo dopoguerra lo consegnò alle Autorità per effettuare le indagini si stabili’ che era impossibile valutare, dato il tempo passato, se il foro  sulla visiera che era di cuoio e quindi si era deformato, potesse essere provocato da un arma austriaca o italiana. Una cosa è certa di Cantore si è detto che era severissimo e brutale, esigentissimo, ma soprattutto vero i suoi immediati sottoposti, ufficiali superiori e difficilmente inferiori al grado di capitano; con i soldati anzi era di una certa bonarietà tant’è che loro, i semplici alpini, lo elessero ad una sorta di novello San Pietro , custode di un particolare paradiso quello delle “penne mozze” ovvero di tutti gli alpini caduti in battaglia.  E questo non è a parere di chi scrive un cosa che gli alpini, i semplici alpini , concedano tanto facilmente, è molto molto di più di una, cento medaglie d’oro , è cosa che va oltre tutte le citazioni, i bolltettini  di guerra, è un qualcosa che va anche oltre ogni retorica .



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