C’è sempre un po’ di personale quando si parla di qualcosa o anche se ne scrive: ecco prendiamo le mie impressioni sul mio professore di Storia dell’architettura Bruno Zevi classe 1918, un personaggio che doveva influenzare in maniera indelebile la mia formazione architettonica, anzitutto con la passione verso Frank Lloyd Wright che lui aveva conosciuto di persona, anzi più che conosciuto, dato che si era battuto perchè lo Stato Italiano e il Comune di Venezia, in quei primi anni cinquanta dessero avvio alla costruzione di un progetto che il grande Maestro aveva elaborato per una palazzina sul Canal Grande e conservava tra le sue reliquie più care alcune foto che lo ritraevano appunto con Wright a spasso per Venezia.“ah!così hai deciso di iscriverti ad architettura!?” mi aveva fatto, appena fatto ritorno da Parigi Enzo Molajoni,un caro amico di mio padre e di Franco Dodi “bene! vai a trovare un mio vecchio amico, dei tempi del liceo, che un altro comune amico Ruggero Zangrandi, purtroppo scomparso, cita nel suo libro “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” : Bruno Zevi che nel movimento che all’epoca noi studenti avevamo fondato “il Novismo”si occupava già da allora di arte e soprattutto di architettura “sai “ aveva aggiunto “c’era anche Vittorio il figlio di Mussolini, e debbo essere sincero, era anche uno in gamba; più di una volta ci capitò di incontrarlo il “puzzone” di suo padre, che faceva finta di interessarsi delle iniziative del nostro movimento.” Quanto Molajoni era discreto, riservato, tanto l’amico, che ero andato come da suo consiglio a trovare, era esuberante, estroso, roboante, con il cravattone a farfalla, la pipa sempre in bocca; era uno dei più famosi architetti d’italia non tanto come progettista, che la sua unica opera accreditata era una palazzina in via degli Scialoja, non particolarmente apprezzata dalla critica, quanto per la sua infaticabile opera di divulgatore dell’architettura, che aveva giustappunto in Wright una sorta di nume tutelare. Nel 1946 aveva scritto un saggio “verso un’architettura organica “ che era stata una bandiera per la nuova generazione di architetti che veniva da dopo la guerra , aveva fondato e dirigeva una rivista “l’architettura” che si rifaceva a “Casabella” la gloriosa testata del gruppo del M.I.AR (Movimento architetti razionalisìti) e “Gruppo sette” , e oltre a professore titolare della cattedra di Storia dell’Architettura II alla facoltà di Valle Giulia aveva svolto e svolgeva un infaticabile e entusiastica opera di storico e di divulgatore dell’architettura con la pubblicazione di una miriadi di libri, ivi compreso una cronaca in numerosi volumi, editi dalla Laterza di tutte le opere del dopoguerra , di cui una delle prime che si titolava “da Wright sul Canal Grande alla Cappella di Ronchamp” e che teneva sempre sulla sua scrivania "AH !" mi fece quando andai a trovarlo su presentazione di Enzo Molajoni " cominci architettura, quando gli altri si laureano !?” mi aveva fatto a bruciapelo col suo solito linguaggio colorito e quanto mai diretto “bhe sa professore….mi ero iscritto all’Ecolè des Beaux Arts di Parigi, ero appunto a Parigi dove lavoravo in una importante impresa di costruzioni, la C.G.E. conscrutions et entreprise generales” ….” ”ma non mi hai detto che hai fatto quattro anni di scienze politiche ? E come diamine ti avevano assunto in una impresa di costruzioni? ”Bhe! sa… mio zio era il Direttore Generale, veniva dalla Tunisia dove suo padre era stato il più grande costruttore del Paese e in Francia, dove era venuto fuggendo da Burghiba, aveva fatto carriera “.... ”lui!!!! non te”! schifoso raccomandato! Sei venuto su presentazione di quel rammollito di Enzo, perché speri che ti riservi un occhio di riguardo, ma stanne pur certo, io ti boccio!” Così l’atto di inizio con Bruno Zevi, però bisogna anche considerare che uno che a 23 anni decide di cambiare facoltà, non è che lo fa per schiribizzo, io a Parigi mi ero letteralmente ubriacato di architettura: lo status di nipote del potentissimo direttore generale mi poneva nella situazione di essere, eh si diciamolo, piuttosto privilegiato, i severissimi direttori tecnici erano con me degli agnellini e la segretaria Madame Labat mi si avvicinava compuntamente “monsieur Nardulli, si vous voulez, si vous pouvez…”così alle poche incombenze del lavoro si accompagnavano visite al Louvre, al Salon des Refuses, alle strutture di Soufflot nel Pantheon al quartiere di Sainte Genevieve, fino a salire su all’ultimo piano dell’edificio di Auguste Perret in rue de Franklin, primo edificio in struttura integrale in cemento armato , quindi al pavillon Suisse de la citè universitare de Paris, di Le Corbusier, dove mi ero anche assicurato un soggiorno, una escursione con mio zio e famiglia fino alla Cappella di Ronchamp, sempre di Le Corbusier, il tutto corredato di un numero spropositato di libri che oramai leggevo perfettamente in francese: il sistema di Hennebique, le ipotesi sul cemento armato di Saint Venant e Rondelet, i disegni di Viollet Le Duc, senza tralasciare le altre manifestazioni artistiche dell’Art Noveau e della pittura impressionista, Fauve, Pointillisme, Cezanne fino a comprendere opere e movimenti anche non francesi come il “Die Brucke” e il “Der Blaue Reiter” di Kandisky. In altre parole ero si “vecchio” ma insomma piuttosto “informato” e non perdevo occasione per farlo piuttosto “presente” in ispecie con persone sul provocatorio e arrogantello, come Zevi, sicchè nel giro di poco, la sua opinione su di me, si era alquanto modificata, fino al punto di considerarmi un specie di suo assistente . Bruno Zevi non era solo dirompente verso di me, lo era verso tutti, in particolare verso il cosidetto “comitato politico” che in quegli anni imperversava a Valle Giulia, per i quali rappresentava la canonica “bestia nera” : non c’era giorno che non li andava di proposito a prendere di petto “voi contestate tutto, ma dovreste mettervi a segare le colonne di questo edificio” e quelli di rimando cogliendo occasione di un suo intervento nella trasmissione di architettura “Habitat” che aveva l’eccezionale sigla della canzone “Partisan” di Leonard Cohen, dove parlando della sistemazione ideale di Roma, si era messo a spostare monumenti, chiese, in un grande plastico dove camminava con sicumera “Ah Zevi te sentivi ner tuo ieri eh!? … a spostà pezzi de città, questo qui non va, quest’altro dè là, me parevi all’Ambra Jovinelli!” La particolare fissa di Zevi, però rimaneva Wright; d’accordo era di una conoscenza mostruosa su tutto, Terragni, il Gruppo Sette, la scuola di Glaskov, Le Corbusier, il neo plasticismo di Oud e Theo van Doesburg, le ultime tendenze, ma Wright era, diciamo così, il suo mito imperituro. Le sue lezioni infarcite di insulti, parolacce , improperi erano di un fascino e di una suggestione incomparabili, ho seguito una volta un suo escorso di tutta la storia dell’architettura dal settecento ad oggi, fatta esclusivamente attraverso le gambe delle sedie. Grandioso!!! e oramai io gli tenevo quasi testa, e a volte lo pizzicavo proprio su Wright per farlo incazzare “mha!? Il grattacielo lungo un miglio,!!!!” facevo con nonchalance ” mi pare proprio una cazzata!… e Brodoacre city un quadretto idilliaco senza costrutto” Lo spazio interno, devi partire da quello se vuoi capire qualcosa di Wrigt!” diceva sempre “prendi la Casa sulla cascata…” uh!!! che palle co’ sta casa sulla cascata! nessuno nega che sia un capolavoro, ma insomma anche Mies Van der Rohe ci acchiappava con lo spazio e Alvar Aalto, ne vogliamo parlare? La biblioteca di Vyipuri, gli edifici dell’M.I.T, e certe sue ville? Anche lì lo spazio interno gioca una parte di assoluta rilevanza”. Battibecchi sempre battibecchi con Zevi, con me, col Comitato politico, con gli altri professori, assistenti, studenti, ma la cosa doveva assumere proporzioni davvero sopra le righe, quando nel 1973 uscì il suo libro “il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico, un libro che per Zevi costitui’ un’altra piece della sua tendenza al mitologema, quasi come quello di Wright. Vi erano difatti contenute in esso alcune tesi che determinavano non solo idee ma anche posizioni di prammatica che condizionavano qualsiasi discorso sul fare architettonico. Zevi affrontava il problema del linguaggio moderno dell’architettura, osservando che un solo linguaggio era fino a quel momento stato codificato: quello classico, mentre le varie accezioni del moderno fare architettonico, ecco tipico esempio quello di Wright, andavano considerate delle eccezioni, un qualcosa che lui definiva “anticlassico”, appunto un “codice anticlassico” e di questo codice anticlassico aveva individuato sette punti che aveva definito “invarianti” invarianti che con il solito suo carattere alquanto magniloquente e roboante aveva denominato “le sette invarianti dell’architettura “lui diceva che tramite esse si arrivava ad una risemantizzazione del linguaggio dell’architettura, così ad esempio porte, finestre, qualsivoglia aperture nelle facciate delle murature non deve necessariamente essere della forma precostituita dall’ordine classico, ma può e deve prestarsi a qualsivoglia graficizzazione, che deve essere però sempre e necessariamente “a-simmetrica” Con la simmetria Zevi sembrava avere una ruggine personale difatti la trovava la regola più comune e banale, una sorta di assicurazione quando si vogliono cose stabili, immutabili, quando si ha paura della novità, della relatività della crescita. Si evoca il passato greco- romano mitizzandolo, per nascondere l’instabilità del presente. E’ stato sempre cosi: la simmetria è la facciata di un potere fittizio che vuol apparire incrollabile. Gli edifici rappresentativi del fascismo, del nazismo e dell’Urss stalinista sono tutti simmetrici. La divisione in due in base ad un asse, generalmente verticale, di un edificio lo rende infatti assolutamente semplice da comprendere, esso immobilizza il movimento, non ha più altro da dire. Questa della simmetria era quasi una ossessione per Zevi : una mattina si era presentata al suo cospetto una bellissima studentessa, che aveva fatto sobbalzare il cuore e qualcos’altro, a noi assistenti: portava i capelli raccolti e un loden che poi quando si era sciolti i primi sulle spalle e sfilato l’informe cappotto, era stata una specie di “conticuere omnes, intentique ora tenebant…” = tutti tacquero e intenti tenevano lo sguardo : non c’erano né alti scranni, né regine Didone o meglio la regina era lei e di certo, se dolore stava rinnovando, era quello della presentazione e relativo effetto su maschi iper arrapati di un suo corpo d’eccezione dove un golfino a collo alto e aderentissimo faceva risaltare un seno che dire perfetto era quasi fargli torto. Con fare disinvolto e percependo quell’atmosfera di sospesa tensione di desiderio, muoveva sui banchi i disegni, piante prospetti e sezioni di un suo progetto dato che chiedeva a Zevi di farle da relatore per la tesi di laurea “ Signorina!!!” fece ad un certo il professore soppesando come al solito il suo atteggiamento con ampie boccate di pipa e il sistemarsi il cravattone a farfalla “lei vuole che io faccia da relatore alla sua tesi!?””si professore ! sarebbe un onore “ fece quella di rimando , laddove quel golfino con relative forme che racchiudeva, sembrava come animarsi con la sua voce ...“lei sa " ribatte ' con quella certa aria compiaciuta, quasi pregustando quello che stava per dire " che io ho pubblicato un libro dove ho codificato sette invarianti assolutamente necessarie per fare architettura moderna?” si certo professore “ rispose prontamente “il linguaggio moderno dell’architettura!” “appunto signorina e quindi deve necessariamente sapere che una delle più importanti invarianti di questo codice anticlassico è l’asimmetria , avendo io equiparato la simmetria all’omosessualità!’” la ragazza annui’ senza profferire parola, lasciando il tempo al professore per volgersi gigionamente verso tutta l’aula universitaria gremita di persone e da buon istrione, come spesso lo apostrofavano quelli del comitato politico “a Zè, ma che te senti all’Ambra Jovinelli!?” lanciare la sua folgorante boutade “quindi signorina, siccome lei mi ha detto che ha letto il mio libro e d’altronde vuole che io le faccia da relatore alle tesi, vedendo il suo progetto rigidamente simmetrico, devo dedurre che lei è….lesbica!” A parte quindi le vicende un po’ boccaccesche delle interrelazioni tra professore e studenti, quali abbiamo visto quella della stupenda ragazza, supposta lesbica, gli incidenti si moltiplicavano perche’ Zevi aveva avuto l’idea di istituire un programma del suo corso di architettura contemporanea, invitando i più famosi architetti dell’epoca (Carlo Aymonino, Renzo Piano, Aldo Rossi, Paolo Portoghesi, etc.) ad analizzare le loro opere proprio in relazione all’adesione al suo cosiddetto codice anticlassico, ovvero alle sette invarianti. Ho assistito a litigi epocali, quasi ad arrivare alle mani, e comunque a me personalmente questa storia del codice anticlassico e delle sue invarianti non mi aveva mai troppo convinto e non mi peritavo certo di non farlo presente al Maestro. Per una somma di circostanze in quello stesso periodo , mi era capitato di avere discussioni con un altro grande critico di architettura Manfredo Tafuri che era il cognato di un mio intimo amico Sandro Rapisarda e questi a proposito di ordine classico e non classico aveva scritto un libro di ben altro spessore “Teorie e storia dell’architettura” e il discutere con lui, anche se era decisamente il contrario di quello con Zevi: asciutto, essenziale senza la minima esternazione, lo trovavo di grandissima profondità.
Ammetto che non mi sono mai piaciuti gli schemi, le etichette e poi erano troppe le eccezioni che potevano sollevarsi per ognuna di quelle famose sette invarianti, “lei ardirebbe di chiamare accademico Il Bramante del Tempietto in San Pietro in Montorio? E il fatto che Michelangelo era omosessuale giustificherebbe l’impianto simmetrico della Cappella Sistina o anche della Cupola di San Pietro?…. e come la mette con Bernini e Borromini e anche con Pietro da Cortona, Santa Maria della Pace è perfettamente simmetrica, però realizza quell’interrelazione con lo spazio urbano circostante in maniera mirabile!? Anni dopo quando io era oramai laureato da più di una ventina d’anni, e lui non insegnava da un pezzo ad architettura dalla quale si era ritirato come al solito con grande polemica sostenendo che era oramai impossibile insegnare architettura e però feceva sempre scalpore colorendo alla sua solita maniera la partecipazione a vari talk show televisivi, tipo il Maurizio Costanzo al teatro Parioli in Roma, dove una volta aveva messo un bicchiere davanti a lui e non aveva profferito parola, asserendo che il silenzio deve avere l’acqua in bocca (o qualcosa di simile) mi capitò di rincontrarlo, proprio nella Hall del Teatro Parioli e non potei fare a meno di fargli osservare “professore lei ha sempre asserito che la simmetria va identificata con l’omosessualità, si ricorda quella povera ragazza come ci rimase quando lei affermò davanti a tutti “signorina , lei è una lesbica!”…” ebbene professore, come ci rimarrebbe lei se le dicessi oggi, che un grande studioso di psicoanalisi, uno che ha addirittura dispiegato nuove e inusitate prospettive alla scienza e anche alla metodologia terapeutica, stabilendo correlazione con la fisica subatomica e la più avanzata teoria degli insiemi, ha affermato che la simmetria è la modalità dell’inconscio?…. L’inconscio professore, quello di Freud, ma anche quello di Lacan, quello del lapsus, dell’atto mancato, del sogno e del “luogo dell’altro” tutti concetti che hanno grande, grandissima affinità con le tesi di una architettura diversa, non accademica, quale lei ha sempre propugnato”
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