Sembra paradossale che da una concezione così comunitaria dell’architettura, come il grattacielo, possa provenire l’esempio più classico dell’individualismo americano , il campione della casa unifamiliare, del focolare domestico, dello spazio sviluppato, dilatato sulla orizzontale e non certo sul verticale : il giovane Frank Lloyd Wright che aveva lavorato per 6 anni nello studio di Sullivan, ovvero il più fanatico propugnatore del nuovo tipo costruttivo: il grattacielo, sviluppo in altezza, verticalità, Sullivan che era anche quello che non aveva mai abdicato a quelle idea di forma che deve seguire la funzione e non aveva accettato nessun compromesso di mimesi o di decoratività posticcia. Eppure sembra il giovane Frank Lloyd visitando l’Esposizione pre-colombiana di Chicago del 1893, quella che segnò il famoso tradimento di Burnham e l’abbandono della purezza espressiva funzionale da parte di tutti i protagonisti della Scuola di Chicago, ad esclusione di Sullivan, il ventiquattrenne allievo si sia fatto fortemente influenzare da un piccolo tempio giapponese ricostruito su di un isolotto. Cosa poteva esserci di così attraente per un giovane allievo del più battagliero propugnatore della verticalità, dello sfruttamento intensivo dello spazio, nella architettura giapponese, fatta di spazi aperti, di ampie terrazze, di una armonia con il paesaggio naturale? Proprio quello che costituirà la filosofia delle “Prairies Houses” e che rappresentò l’essenza stessa della sua poetica, un qualcosa che lui stesso definirà “architettura organica”:l’alternarsi di ampi spazi aperti, gli aggetti delle terrazzate, una concezione spaziale che promana dall’interno, dal nucleo della casa per accogliere come in un abbraccio tutto l’ambiente circostante . Lasciato lo studio di Sullivan, Wright ne aprì verso il finire dell’ottocento, uno proprio e vi radunò un certo numero di architetti, (ben diciotto) dei quali molti erano come lui provenienti dallo studio di Sullivan e Adler Da questo gruppo di collaboratori, che lo aiutarono nelle sue tantissime commesse, nacque la cosiddetta “Prairie School” che stilò un vero e proprio manuale di progettazione che prevedeva tra l’altro : (1 una disposizione orizzontale di linee e masse (2 una interrelazione continua dell’edificio con l’ambiente (3 sincerità costruttiva e funzionalità (4 uso di materiali naturali sì da enfatizzare il naturale eliminando ogni decorazione superflua (5 la cosidetta “scatola rotta” ovvero tutti i locali interni compenetrati uno con l’altro (6 un uso diffuso delle più avanzate tecnologie sia a livello strutturale che di supporto per i servizi tecnici. Il movimento della Prairie House fu insieme moderno, per l’estetica e l’uso della tecnologia, e tradizionale, per la fede nella sicurezza, nella privacy e nella famiglia. Alle disposizioni di carattere tecnico corrispondevano istanze più psicologiche : Le semplificazioni della pianta, si sosteneva, debbono avere riscontro in una diversa concezione della famiglia, più semplice, più raccolta, più intima. la Prairie House si configurava come luogo di rifugio dalle incertezze del mondo: così l’ingresso era spesso nascosto, labirintico, la facciata arretrata, i giardini schermati da alberi e piantumazioni, il camino diveniva il fulcro attorno al quale dovevano come avvolgersi gli ambienti del piano principale e rivestiva per lo più un significato simbolico:: attaccare la casa al terreno, il simbolo dello “stare insieme. Al piano terreno nessuna partizione ma un grande spazio unico; la parete non era più il lato di una scatola ma la delimitazione di uno spazio contro le avversità che diveniva il mezzo di “aprire lo spazio”, stimolando un collegamento esterno-interno. Le gronde in forte aggetto, le decorazioni e spesso anche la disposizione dei mattoni davano infine alla casa una forte orizzontalità, mentre i soffitti erano ribassati per dare un maggiore senso di raccolta e di intimità, e come detto, fondamentale era il diverso tipo di rapporto che si doveva stabilire con la natura, si da suggerire anche una continuità tra spazi interni e spazi esterni. Nel 1909 Wright, spirito profondamente inquieto, mai realmente soddisfatto di sé stesso e delle sue pur già eccezionali razionalizzazioni che a 40 anni lo ponevano tra i più rilevanti architetti statunitensi e indubbiamente già portatore di un nuovo linguaggio, quale abbiamo evidenziato col movimento della “Praire House” fece un viaggio in Europa di un anno lavorando a Firenze, a Fiesole alla stesura di un libro che uscirà in tedesco a Berlino,“Ausgeführte Bautendove” ove aveva fatto il punto di quella che considerava l’architettura organica. Un libro indubbiamente interessante anche perché corredato di eccezionali disegni esplicativi dello stesso Wright, ma alquanto fuori le righe, e provocatorio: in esso difatti vi si apprezzavano determinati movimenti della tradizione europea come il Gotico, ma l’autore si scagliava contro tutto il Classicismo, accusandolo di assolutismo espressivo ed anche origine di tutte le prevaricazioni accademiche dell’arte con un correlato nella stessa socialità e politica, contrapponendovi il canonico spirito americano, pionieristico e democratico. Fatto ritorno in america Wright si trasferì nel Wisconsin e qui cominciò ad avanzare le prime idee del complesso di Taliesin West, in Arizona che un quarto di secolo dopo diverrà la sua residenza ed anche una vera e propria scuola. Abbiamo visto quanto rilevante fu nella sua formazione artistica, il contatto con l’architettura giapponese, egli aveva già visitato il Giappone nel 1905 e ne aveva tratto elementi che avevano precisato la sua poetica, gli spazi aperti, gli aggetti delle terrazze, l’uso dei materiali naturali, il costante colloquio della costruzione con la natura ed un preciso riscontro di tale influenza si avrà nel 1914 nella realizzazione dei Midways gardens di Chicago nel 1914, ma nel 1916 mentre in Europa era in corso la terribile guerra e l’anno seguente coinvolgerà gli stessi Stati Uniti, si era trasferito stabilmente a Tokio aprendovi uno studio che ebbe uno straordinario successo: convocato dall’Imperatore in persona, costrui’ edifici straordinari con avanzati principi antisismici tant'è che l’Imperial Hotel da lui costruito rimase perfettamente in piedi nel terremoto che rase al suolo Tokio nel 1923. Diciamo che oramai alle soglie della vecchiaia, passati i sessanta anni, ma per nulla diminuita la sua straordinaria verve artistica, Wright era uno degli architetti più famosi del mondo, conosciuto da tutti anche dai più celebrati maestri europei, che volevano vedere e studiare le sue opere e che volevano conoscerlo, come ad esempio Gropius : ma Wright era si un genio, ma era pur sempre uno spocchioso americano, ubriaco di americanismo, anche nelle sue accezioni più fastidiose e non ne volle neppure sapere di stringere la mano ad uno dei protagonisti del razionalismo, l’antitesi stessa di tutte le sue concezioni artistiche che oramai si erano andate sempre più precisando come “architettura organica” e che troveranno costantemente nuove esternazioni, sia in pratica con opere eccezionali, sia in vere e proprie impostazioni teoriche e ideologiche sulla supposta superiorità dello spirito americano . Uno spirito che in quegli stessi anni doveva avere un forte contraccolpo con la crisi economica del 1929, ma sul quale Wright sarebbe comunque riuscito a dir sempre la sua, facendo leva sul suo, diciamo così “patriottismo” e tutto sommato ingenuo orientamento del mondo. Prendiamo ad esempio il termine Usonia, che Wright utilizzerà per contraddistinguere le sue costruzioni degli anni trenta, sul proseguo ed evoluzione del concetto di architettura organica (le Housonian Houses).Il termine è un acronimo di “United States of North America” coniato ai primi del secolo da uno scrittore americano, certo James Duff Law, che intendeva trovare un aggettivo che informasse compiutamente lo spirito americano, (usonian ); Wright si appropriò di tale termine per poter descrivere quella che nei suoi progetti doveva definirsi come un’architettura specificatamente statunitense, basata sul modello di vita nord-americano e inserita nel paesaggio naturale degli Stati Uniti, attività nella quale fu impegnato appunto nel periodo della Grande Depressione, preferenziando materiali ancora più semplici, soluzioni fortemente economiche e commissioni e parcelle molto contenute. Wright aveva scritto in quell’anno il saggio The Desappearing City nel quale esprimeva le sue idee in fatto di urbanistica. Egli riteneva utile decentrare le funzioni delle città sovraffollate in nuovi centri di campagna e stilò un grande progetto urbanistico “Broadacre City”, che in qualche modo rappresentava la controfaccia americana del famoso“Plan Voisin” e del concetto dell’”immeuble ville” di Le Corbusier, ovviamente immettendovi tutt’altri parametri, decisamente opposti, tipo quello della bassissima densità abitativa e un fortissimo contatto con la natura. Non è però per Brodoacre che Wright è passato alla storia, laddove l’ingenuità di fondo e un velo di utopia è sempre presente, ma per la più celebre delle sue Ville, la incomparabile Villa Kauffman o come si è imposta nell’immaginario collettivo di tutto il mondo la “Falling Water” o “Casa sulla cascata” commissionatagli nel 1935 da un commerciante di Pittsburg Edgard.J.Kauffmannn, i lavori iniziarono nel ‘36 e vennero ultimati nel ‘39. Conformemente alle concezioni delle “Housonian houses” Wright aveva integrato la costruzione all’ambiente circostante in particolare una piccola cascata su di un ruscello chiamato Bear Run che correva tra i monti boscosi dell’ovest della Pennsylvania realizzando una serie di terrazze a sbalzo e sovrapposte, che si richiamavano alla stratificazione delle rocce del sito e che aggettavano audacemente sopra la cascata creando un eccezionale effetto scenico. La pietra nativa veniva fusa con le strutture in c.a. che si amalgamavano come in un unico impasto, così che la costruzione non poteva essere immaginata in nessun altro luogo se non in quello. Internamente, nel grande soggiorno a lato del camino poggiante su un macigno e fulcro della composizione, si dipartiva tutto lo straordinario ambiente, mentre tutti i tre piani della casa arretravano sul corpo roccioso creando una sovrapposizione di volumi si da dar luogo ad una studiata ’asimmetricità di tutto il complesso, creando un “organico disordine” che esaltava la natura del luogo. E’ ben noto il fatto che lo stesso Wright per convincere l’impresario dei lavori a smontare i casseri, dato che era opinione generale che i forti aggetti delle terrazze non tenessero, si posizionò proprio sotto la più grande delle terrazze. Sul momento ebbe ragione il Maestro, le terrazze tennero perfettamente, ma di li a poco cominciarono a manifestarsi i primi problemi, la struttura si fessurò con inevitabili infiltrazioni d’acqua all’interno dell’edificio, tanto che Mr. Kaufmann chiamava Fallingwater “l’edificio dai sette secchi”. Gli ulteriori rinforzi nella struttura richiesti dagli ingegneri dell’impresario erano ben motivati, ed erano anche alimentati dal fatto che la tecnica del c.a. non godeva all’epoca ancora di certe accortezze metodologiche. Mancava, infatti, alle terrazze una leggera contropendenza, com’è in uso nel costruire corrente di oggi, che servisse a compensare la loro deformazione e non si erano accertati ancora gli effetti del “fluage”: una modificazione nel tempo del calcestruzzo che, genera deformazioni di tipo viscoso che vanno incrementandosi nel corso degli anni. Wright sarebbe ancora stato in primissimo piano nel dopoguerra con l’eccezionale spirale del museo Guggenheym di New Jork, struttura e forma inusitate nel panorama a scacchiera di Manhattan, che in una qualche maniera riassumeva sublimandolo il famoso detto del suo maestro Lous Sullivan “la forma segue la funzione” Mondialmente riconosciuto come uno dei capolavori dell’architettura contemporanea, con quella su forma che seguiva appunto la struttura ridefinendo non solo lo spazio esterno ma anche quello interno, piegandolo alle esigenza della rappresentazione museale, forma e funzione si piegavano ad accogliere anche profondi riferimenti simbolici: la sua forma a spirale somiglia molto ad uno Ziggurat rovesciato che nei soliti riferimenti di integrazione di Wright poteva essere vista come una Torre di Babele all’incontrario, ovvero come quella era stata il simbolo della divisione dei popoli secondo la ben nota vicenda biblica, così il Guggenheim in virtù della sua funzione di cultura, li univa. Forse sempre a Sullivan resta ispirato quel progetto di grattacielo lungo un miglio, un estremo omaggio all’antico maestro che aveva fatto del concetto di grattacielo l’essenza stessa della sua ricerca poetica , così come sempre sulla carta è rimasta quella sua ideazione di palazzina sul Canal Grande a Venezia la cui possibile realizzazione doveva far sognare ad occhi aperti il più entusiasta dei suoi ammiratori da noi qui in Italia, Bruno Zevi un personaggio che l’autore del presente articolo ha conosciuto molto bene (e’ stato il suo professore alla facoltà di architettura e relatore alla sua tesi di laurea) e di cui forse può valere la pena, in un successivo articolo di raccontare la storia, proprio in virtù della relazione e dell’incrollabile ammirazione verso il più grande degli architetti del nostro tempo, un architetto, che non si sono avute remore ad equiparare a Michelangelo.
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