In termini pratici, ai primi di giugno di quel 1796, Bonaparte ormai padrone del Milanese, aveva continuato a fare quello che il Direttorio gli avallava oramai con fervente entusiasmo e anche la popolazione di tutta la Francia gli tributava quel plauso che oramai rasentava l’adorazione. Era lui il Generale che più di ogni altro incarnava la Rivoluzione e l’Italia stava mostrandosi una sorta di luogo di elezione delle idee dell’89: nessuno però andava a sottilizzare come otteneva tali risultati, ovvero imponendo sempre nuove tasse e gabelle ai territori degli Stati che proditoriamente invadeva e spogliandoli delle ricchezze artistiche, spaventandone a bella posta i governanti e minacciando con particolare enfasi le ribellioni che qua e là si verificavano, soprattutto nel Milanese dove l’unica fortezza ancora in mano all’Austria era rimasta Mantova. Le aspirazioni a continuare le direttive del piano del Direttorio ovvero di invasione “sur le derriere” della Germania erano oramai decisamente rientrate e così anche quelle di invadere l’Italia Centrale, soprattutto perché oramai bastava semplicemente minacciare i pavidi Stati Italiani per ottenere tutto quello che desiderava, così era successo con il Ducato di Parma , così con la Repubblica di Venezia ed ora anche con il Re di Napoli che un suo contingente di appoggio all’Austria era stato battuto a Borghetto sul Mincio e persino con il Papa e lo Stato Pontificio che si erano piegati alla sua volontà quasi senza neppure vederla una giubba di un soldato francese. Sotto il profilo squisitamente militare, come abbiamo cercato di dettagliare, il generale Bonaparte aveva eseguito un piano preconfezionato a Parigi un anno prima della sua esecuzione, di cui eccettuato il rintuzzato attacco austriaco di Cairo Montenotte, successo dovuto più al suo sottoposto Massena, che a lui, non c’erano state successivamente che scontri contro retroguardie, anche qui dove erano emerse doti di comando e azione dei sottoposti, sempre di Massena che sempre più si mostrava meritevole di quell’epiteto di “invincibile” ma anche di Berthier, che era il Capo di Stato Maggiore dell’Armata, degli altri due Augereau e Serurier comandanti in seconda ovvero quello che di li’ a poco sarebbe stato etichettato come “comandante di Corpo d’Armata” e anche una serie di generali a livello di Divisionari : Cervoni, Dallemagne, Ordener. Ma più che altro quello che davvero aveva infuso le ali ai piedi della fortuna del Bonaparte era stata la defezione, per motivi del tutto estranei alla strategia militare, dell’Esercito Piemontese, culminata con l’improvviso armistizio di Cherasco. E’ qui e non sul Ponte di Lodi che può addursi l’inizio di quella particolare considerazione che non fa più riferimento a fatti reali, concreti, ma piuttosto considera gli eventi come una sorta di recita da abbellire, colorare e su diciamolo, anche da inventare di sana pianta, fino pervenire ad una composizione per così dire ineccepibile e anche non scevra di alcune suggestioni che in un’epoca di nascente romanticismo quale quel “fin de siecle” in cui ci si trovava nella piana d’Italia, non potevano che polarizzare l’attenzione e accendere gli entusiasmi di larghi strati delle popolazioni, anche di quella stessa Italia le cui porte si erano come magicamente dischiuse a fronte di uno scalcinato esercito comandato da un Generale poco più che un ragazzo: e’ la ragion di stato di un Regno come quello dei Savoia, famoso per il suo opportunismo, per il suo cambiare bandiera, per le sue appunto molteplici “ragion di stato” che era da perlomeno tre anni che tramava per sganciarsi da una alleanza con l’Austria, che provoca il collasso della potenza offensiva del contingente austriaco e quindi induce ad una strategia peraltro perfettamente eseguita, di ritirata strategica, impegnando nelle battaglie di contenimento sia a Ceva che a Mondovi che a Lodi ed infine anche a Borghetto sul Mincio, solo forze di retroguardia: tutte pieces però che la oramai collaudata macchina propagandista del Direttorio è in grado di trasformare in sfolgoranti vittorie, a beneficio di se’ stesso certamente, del suo potere, della sua oculatezza e anche a grande incremento delle sue finanze stante i cospicui beni che continuamente riceve dalle provincie occupate, grazie a quel nuovo modo di intendere la guerra da parte del giovane generale. Ma ecco il punto : proprio sicuri che quel Generale di 27 anni sia solo una sorta di bella statuina capace di impersonare la parte che per ora si è convenuto di fargli interpretare? Napoleone Bonaparte non si discostava granchè dal clichet del Generale della Rivoluzione, lo abbiamo visto impegnato nella stesura del piano per la Armata d’Italia, piano che poi per una serie di circostanze di cui ne abbiamo esaminato quella più trainante, ovvero avere sposato l’ingombrantissima amante di uno dei più influenti membri del Direttorio: Barras quello che più di ogni altro aveva determinato la caduta di Robespierre due anni addietro, si era ritrovato ad esserne il realizzatore, non era né migliore, ne’ peggiore di altri suoi coetanei, ma decisamente non godeva del prestigio di Generali un po’ più anziani, magari provenienti dalle strade più disparate come Massena Augereau, Serurier, Moreau, Kellerman padre, che però sarebbero stati meno manovrabili dal Direttorio: un’altra cosa da prendere nella debita considerazione è che c’era inoltre un impianto teorico alla base della formazione comune di tutti i quadri militari dell’esercito della Rivoluzione, un “ saggio generale di tattica” attenzione, di tattica non strategia e neppure logistica fatto da un ufficiale trentenne, di media nobilta’ il conte di Guibert (1743-1790) poco più di una ventina d'anni prima nel 1773. In questo libello veniva affrontato un nuovo modo di far la guerra che da una parte si rifaceva alle antiche compagnie di ventura dei primi secoli del millennio, che facevano la guerra giustappunto vivendo di essa e cioè di razzie, di saccheggi, dall’altra rigettava tutta la concezione di rigorosa organizzazione degli eserciti, che era stata coeva alla formazione dei grandi Regni e Imperi, e che probabilmente aveva avuto la realizzazione più congrua con il grande condottiero Principe Eugenio di Savoia (XVII secolo e inizio del XVIII) e del suo amico Duca di Malborough, ed era ancora rappresentata da Federico il Grande, che pure aveva avuto modo di conoscere il “saggio” di Guibert e ne era rimasto molto colpito. Il punto è che tutto il senso del “saggio” di Guibert era volto a demolire la stessa concezione dell’arte militare così come era stata interpretata negli ultimi due secoli ed in particolare proprio in quella prima parte del secolo XVIII, ovvero troppi soldati, troppi cannoni, carriaggi, salmerie, enormi parchi di artiglierie, e quindi una massa elefantiaca, lentissima, quasi totalmente incapace di manovrare; per Guibert bisognava preferenziare l’agilità di truppe scelte, mobili, agili, svincolate da appendici di ogni genere, ovvero bisognava affidare l’azione alla velocità: “se la massa è il corpo di un esercito…” diceva “ …la velocità ne è l’anima” Facendo quindi ritorno al giovane generale Bonaparte impegnato in quel del territorio italiano a scorazzare in lungo e largo alla ricerca di sempre nuovi proventi da estorcere ai vari deboli e pavidi Stati, che ovviamente anche lui aveva la sua copia del “Saggio” di Guibert sempre con sé, possiamo senz’altro affermare che tutta la seconda parte della campagna , quella che si diparte dallo scontro di Borghetto sul Mincio fino a Rivolì è totalmente improntata alla teoria della velocità di Guibert. In quella piena estate del luglio 1796 l’esercito francese era composto da coscritti dai 20 ai 25 anni, mentre l’esercito professionista che si apprestava a ridiscendere le Alpi per riconquistare l’italia aveva un organico di 15/20 anni più vecchio. Il primo sembrava una emanazione delle teorie di Guibert : vivace , mobilissimo, del tutto estraneo alla vita di caserma, quasi non conosceva l’esistenza dei magazzini,delle salmerie, ma si muoveva agilmente per il territorio prendendo quel che gli occorreva dove capitava, il netto contrario dell’esercito che l’Impero Austriaco aveva approntato per riconquistare il terreno perduto, affidandolo ad un Comandante della vecchia scuola, il settantaduenne Feldmaresciallo Dagobert Sigmund Von Wurmster. Questi si era messo in marcia con un contingente di 50.000 uomini diviso in tre tronconi: sulla destra il generale Quasdanovitch doveva aggirare l’estremità settentrionale del Lago di Garda puntando su Salò e Brescia, il Corpo centrale era al comando dello steso Wurmster e puntava a impadronirsi di tutto il corso sinistro dell’Adige fino a portarsi sulle posizioni di Montebaldo, il terzo agli ordine del Generale Davidovich doveva scendere lungo la destra dell’Adige e sboccare su Verona che per l’intanto era stata occupata da Massena. L’esercito francese era schierato in pianura da Peschiera a Mantova lungo il Mincio fino a Legnago sull’Adige. Tradizionalmente i due eserciti, che numericamente si equivalevano avrebbero manovrato a lungo l’un contro l’altro, ingaggiando sporadici combattimenti, ma anche pragmaticamente questo non conveniva ai francesi e ciò Napoleone, indipendentemente dal suo fervore per le teorie del Guibert, lo avevo capito fin troppo bene: difatti quel vivere di razzie e saccheggi senza né magazzini né carriaggi ne salmerie, lo esponeva ora che il nemico vero era tornato a farsi vedere, ai contraccolpi delle rivolte delle popolazioni che potevano essere pericolosissime, alle spalle di un esercito impegnato in guerra: ed ecco che qui viene fuori quel certo barlume di genialità del personaggio che si era ritrovato al centro di tutto quello sconvolgimento e che in parte, solo in parte giustificherebbe la fama di eccezionalità che gli si stava cucendo addosso : il 31 luglio difatti tolse l’assedio a Mantova gettando i cannoni nel lago e si slanciò contro il lato destro del contingente austriaco sorprendendolo e battendolo a Lonato per ricacciarlo verso Riva del Garda. Un’azione davvero fulminea, che riuscì a bissare sempre verso Lonato volgendosi verso il contingente centrale comandato dallo stesso Wurmster, mentre il gen. Augereau otteneva un ulteriore successo a Castiglione. Diciamo che mai e poi ai la teoria Guibert aveva avuto una conferma così plateale, Napoleone suffragato magnificamente di suoi Generali in seconda Massena Augereau e Serurier era riuscito a sfruttare la mobilità di manovra delle sue truppe, riuscendo a concentrarle nel punto più favorevole e sferrare improvvisi e rapidi attacchi che avevano scompigliato i contingenti nemici. E' vero che la valle del Po rappresentava un campo sperimentale ideale per tutta la dottrina Guibertiana, ma bisogna per la prima volta anche ammettere che il Generale comandante dell'armata d'Italia, stava cominciando a dimostrare i suoi numeri e come fatto cenno, anche ad essere entrato a pieno titolo nella parte che la Fortuna e gli eventi precedenti più un interessato Organo di potere, lo avevano eletto a protagonista. Riorganizzate le
sue forze Wurmster provò nuovamente nel settembre a riconquistare la
Valle del Po cercando di saldare la sua
discesa lungo la valle del Brenta fino al caposaldo della Fortezza di Mantova
che restava sempre l’unico punto fermo della presenza austiaca e questo mentre
il suo Generale in seconda Davidovich tornava a scendere dalla valle dell’Adige,
ma ancora una volta la tattica Guibertiana imperniata sulla velocità ebbe la meglio
degli elefantiaci contingenti austriaci cui ogni allungamento delle linee di
marcia e di comunicazioni dovevano
essere accompagnti da spostamento di
depositi, carriaggi e salmerie. Manovrando agilmente tra le le due ali nemiche, Bonaparte operò prima
contro Davidovich fcendolo riarretrare verso il Tirolo e quindi si rivolve
verso Wurmster sorprendendolo e
battendolo a Bassano. Giusto alla metà di settembre quindi anche questo secondo tentativo di riprendere i territori perduti era
miseramente fallito e a Wurmster non restava che asserragliarsi a Mantova
Di converso Bonaparte scongiurato il secondo
attacco di riconquista austriaca cominciò a modificare il suo comportamento e
anche pensiero: se fino ad allora era stato un solerte esecutore delle
disposizioni del Direttorio, ora in quei primi di ottobre cominciò a fare un po’ di testa sua,
comportandosi come un sovrano in terra di occupazione, difatti non contento di
spaventare tutte le popolazioni italiane fino addirittura a comprendere il
Papato, denunciò l’armistizio col Duca
di Modena deponendolo e ponendo i popoli di Modena e Reggio sotto la protezione
dell’esercito francese. Fatto questo cominciò ad accarezzare l’idea di favorire
le aspirazioni indipendentistiche che si erano avuti in vari Stati e proclamare
una Repubblica federativa composta dai Ducati di Modena di Reggio con
l’aggiunta degli Stati di Ferrara e di Bologna, dandole il nome di Cispadana.
Si è discusso a lungo tra gli
storici se fu proprio Napoleone l’ispiratore della idea di una Italia unita,
così come se la Rivoluzione abbia o no
inventato le guerre di propaganda per la
libertà o piuttosto non abbia invece
continuato le guerre di espansione
dell’Ancien Regime. Il punto è sempre l’istanza utilitaristica che guidava sia
il Direttorio che Bonaparte che vedeva ogni giorno accrescersi la sua influenza
e anche il suo potere e ora che era decisamente tramontata la originaria idea
di utilizzare l’Italia come corridoio per colpire alle spalle il fronte
germanico, ovviamente era alla ricerca di espedienti che gli assicurassero un
contesto più favorevole di popolazioni in rivolta, e cosa poteva esservi di
meglio che ergersi a paladino della libertà dei popoli, e fomentare le
aspirazioni di indipendenza ed anche di una proto unità nazionale dei territori
italiani? D’altronde c’è da rilevare
come nello spazio di pochi giorni
l’intera mentalità di tutta la popolazione italiana, si era staccata dall’Ancien Regime
e aveva abbracciato quella della Rivoluzione, portata però dalle baionette dei soldati
di un generale di 27 anni, che era riuscito a mettere in riga tutti gli antichi
sovrani e persino il Sovrano meno terreno: il Papato. Bonaparte insomma propose al Direttorio di aiutare il partito
pro Rivoluzione nell’Italia centrale non certo per favorire le fumose e
indistinte aspirazioni di qualche gruppo di exagitati imbevuti di romanticismo
, ma solo per ottenere un po’ di tranquillità nei territori conquistati e
costruirsi una base di appoggio, specie sul finire di ottobre quando fu oramai assodato che l’Austria
preparava un’altra spedizione di riconquista dell’Italia affidandone il comando
al generale Joseph Alvinczy von Berberek che il 1 novembre partendo da Gorizia
avanzò contro Massena che aveva il suo quartier Generale a Bassano, mentre il
Gen Davidovitch scendeva da Bolzano lungo la Valle dell’Adige per attaccare i
Francesi a Trento. I due eserciti contavano quindi di riunirsi e marciare su
Mantova dove era asserragliato Wurmster : sulle prime le operazioni furono
favorevoli agli Imperiali, tanto da indurre Napoleone ad inviare una disperata
lettera di aiuto al Direttorio, ma poi per uno di quegli strani casi della
sorte, che come abbiamo più volte visto, aveva preso a benvolere il giovane
generale, questi radunando tutte le sue
forze in un supremo sforzo a “la và o
la spacca” attaccò frontalmente Alvinczy; in verità aveva fatto un po’ un
ragionamento alla teoria di Guibert, questa volta però di segno contrario : si
era difatti reso conto che per marciare lungo la pianura veneta Alvinczy aveva
molto allungato le sue vie di comunicazione e soprattutto perso contatto coi
suoi depositi e rifornimenti, il che non disponendo di un esercito mobile e
agile come quello francese,lo poneva senz’altro in condizione di vulnerabilità
qualora si fosse individuato un punto, diciamo così di rottura, secondo un
concetto di sfinimento strategico e logistico del pesante esercito austriaco; questo punto gli parve di individuare nel
ponte sul fiume Alpone a ridosso del Villaggio di Arcole e qui difatti concentro’ tutti i suoi sforzi, sapendo
bene che doveva battere Alvinczy prima che si congiungesse con Davidovitch; addirittura nel fervore dell’azione, preso un
tricolore, si slanciò in prima persona nell’attacco partecipando di persona all’attacco che per
poco non finì davvero tragicamente, dato che nella foga dell'azione il comandante in capo, cadde malamente in un fosso a
ridosso del Ponte di Arcole e sarebbe
stato certamente fatto prigioniero, se
non si fosse lanciato in suo aiuto l’aiutante di campo Gen. Berthier.
La verità
e’ che la battaglia di Arcole, dopo tre giorni di accaniti combattimenti, che avevano visto sia Bonaparte che i suoi due generali in sottordine Massena e
Augereau bloccati, il primo a nord della cittadina, il secondo frontalmente sul Ponte, ancora una volta fu decisa da un magistrale
intervento di Massena, che riuscì ad ingannare gli austriaci piazzando una sola
Brigata delle sue truppe fuori l’abitato di Arcole, nascondendone il resto
nella vegetazione e quindi attirandoli fuori la cittadina e sbaragliarli. Visto
il successo di tale azione anche Napoleone fece qualcosa di simile, difatti
radunato un piccolo contingente della sua Guardia del Corpo, lo spinse a
guadare il fiume in un punto nascosto per poi lanciarsi con tanto di squilli di trombe sul retro delle
posizioni austriache di Arcole, facendo loro credere di trovarsi attaccati alle
spalle da un grande reparto. Quindi gli austriaci subito si ritirarono verso nord convinti di un imminente attacco in forze francese. Grazie a questo stratagemma i reparti che bloccavano Augereau sbandarono dando l'occasione al generale francese di riunirsi con Masséna nell'ormai libera Arcole, da dove, assieme ai soldati provenienti da Legnago, dilagarono nelle zone circostanti. Alvinczy, di fronte a quella che gli sembrò una grave minaccia alle sue retrovie, ordinò la ritirata su Vicenza. Con un prezzo di 4500 perdite in tre giorni di furiosi combattimenti, Napoleone aveva definitivamente stroncato il tentativo di Alvinczy di riunirsi con Davidovich e liberare l’Italia centrale. Con 7.000 uomini in meno, morti, feriti o presi prigionieri ad Arcole, Alvinczy riuscì a malapena a ritornare a Trento abbandonando del tutto il progetto di liberare Mantova.
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