martedì 28 dicembre 2021

DI NUOVO FERRERO... e SULLA PAURA

Originalissimo questo saggio di Guglielmo Ferrero e perfettamente in linea con lo sconvolgente del precedente saggio da me casualmente e fortunosamente ritrovato che perviene alla tesi che le rivoluzioni francesi furono due. La prima, quella del 1789 cercò di coniugare il principio di legittimità monarchico con le nuove aspirazioni di cambiamento sociale, la seconda, che culminò con la rivoluzione giacobina del 2 giugno 1793, si propose di abbattere violentemente la monarchia e di sostituire il principio monarchico con quello repubblicano. Due rivoluzioni di natura diversa, l'una creatrice, l'altra distruttrice si realizzarono contemporaneamente. Quella distruttrice offuscò e deviò le forze creative paralizzandole e annientandole: "Sta qui il segreto della Rivoluzione francese, la chiave di tutte le sue contraddizioni: la prima rivoluzione scrive Ferrero è nata dal movimento intellettuale del secolo XVIII; la seconda è figlia della Grande Paura" La paura, “anima dell’universo vivente”, è un pilastro portante della concezione di Guglielmo Ferrero della natura umana e della dimensione sociale e politica degli uomini e che oggi più che mai a proposito dell'attuale distopia ingenerata dalla farsa di una immotivata pandemia (un vero e proprio terrorismo sanitario)  Muovendo da una paura ancestrale l’uomo pre-logico perviene alla civiltà, una “scuola di coraggio” capace di dominare i terrori esistenziali e collettivi. Ma la vittoria della civiltà è precaria perché la paura storica, corposa e tangibile accompagna sottotraccia le vicende degli uomini e in certi momenti, come il 1789, si impadronisce delle folle, delle Corti e dei capipopolo e in quanto passione cieca dirige gli eventi in direzioni imprevedibili e contraddittorie. La paura, “il pazzo terrore”, assurge in Ferrero a funzione di vero motore della Rivoluzione francese: una interpretazione originale dell’Ottantanove, refrattaria a schemi precostituiti e di sorprendente attualità.
L’analisi di Ferrero è del tutto estranea a una lunga tradizione politica e accademica di studi soprattutto francesi del primo Novecento, che ha codificato un’idea della rivoluzione in quanto «rivoluzione borghese», che ancora oggi rappresenta l’immagine più o meno consapevolmente condivisa nel sapere comune. Rispetto a tale immagine, il saggio appare come un’incursione indiscreta e dissacrante nel cuore di una chiesa richiusa su se stessa, che evita accuratamente ogni contatto con il mondo esterno, e custodisce gelosamente gli inutili segreti di un magistero isterilito. Non a caso Furet, nella sua violenta polemica revisionista contro la «storiografia classica», allora impersonata dallo storico Albert Soboul, ha denunciato l’egemonia di un autentico «catechismo rivoluzionario». Secondo tale catechismo la rivoluzione è per definizione un evento di rottura radicale rispetto al passato, ma al tempo stesso di forte spinta e propulsione verso il futuro, nell’ambito di un cammino progressivo della storia. E la Rivoluzione francese, madre di tutte le altre rivoluzioni dell’Ottocento e del Novecento,è la «rivoluzione borghese»: negli stadi successivi di una società che progredisce costantemente verso forme più evolute di civiltà, la rivoluzione rappresenta il salto decisivo dall’antico regime delle monarchie assolute alle moderne democrazie parlamentari fondate sulla sovranità dei  popoli.
Questa idea sostanzialmente positiva della rivoluzione si inscrive nell’ambito di una teologia economicista della storia che vede come ineluttabile un certo sviluppo delle forze economiche e sociali, ad esempio dal più arretrato modo feudale di produzione al più evoluto modo capitalistico, a cui viene subordinata tutta la dinamica politica. In questa prospettiva la rivoluzione adempie la funzione di riassestare i rapporti di forza tra le classi, soprattutto della nobiltà in decadenza rispetto alla emergente borghesia, in armonia con le nuove realtà economiche. Si ristabilisce così quel giusto equilibrio tra società e politica che è nell’ordine delle cose e nella logica determinista dello sviluppo progressivo della «ricchezza delle nazioni». Questa concezione della storia, che si inserisce in una linea di pensiero che da Turgot e Condorcet, attraverso Sieyès e Barnave, porta direttamente a Guizot e a Marx, viene ripresa da Jean Jaurès nella sua Histoire socialiste de la Révolution francaise del primo Novecento, che fa della Rivoluzione francese il modello esemplare della «rivoluzione borghese». Da allora, la cosiddetta « storiografia classica» di Albert Mathiez, di Georges Lefebvre, di Ernest Laborusse e di Albert Soboul, diretti eredi della lezione metodologica e ideologica di Jaurès, ha perpetuato e imposto accademicamente questa immagine dogmatica della rivoluzione, che è stata solo in parte scalfita dalla «revisione » di Alfred Cobban, di R. R. Palmer e di F r a n c is Furet degli anni Cinquanta e Sessanta. In realtà, la revisione, al di là di efficaci demolizioni di singoli aspetti della tesi classica,non ha saputo proporre alcun discorso generale sulla rivoluzione e, in mancanza di una nuova valida alternativa, si è continuato a utilizzare i vecchi quadri concettuali. Tuttavia, dietro i concetti tradizionali non vi era più la sostanza di un discorso politicamente pregnante. Non c ’era più quell’idea« forte » di rivoluzione che alimentava e giustificava il « sistema» di Jaurès nell’ambito di una filosofia della storia. Si è creata, così una situazione di impotenza e di sterilità della storiografia, che è il riflesso diretto di una confusione politica e ideologica sul concetto di rivoluzione. 
 Alla Rivoluzione francese si è fin troppo guardatocome all’origine e al modello esemplare di un’esperienzastorica e politica, che il socialista Jaurès aveva vissuto coniugando insieme materialismo e idealismo, rivoluzione e riforme,socialismo e democrazia, e che, nell’Italia del dopoguerra, la sinistra costituzionalista e repubblicana formatasi nella Resistenza, viveva come impegno alla costruzione di unanuova democrazia. Perciò, comunque si interpretasse la Rivoluzione francese, alla Mathiez, esaltando e glorificando il giacobinismo del 1793 in quanto primo archetipo del bolscevismo, o alla Aulard, ponendo l’accento sul 1789 e ritrovando la lezione di  democrazia borghese parlamentare, vi era un accordo generale sull’evoluzione storica di cui tale rivoluzione  era stata l ’inizio e il propulsore: con la distruzionedell’antico regime si erano poste le basi della società contemporanea, laica e progressista, caratterizzata dalla democrazia politica e dall’inarrestabile sviluppo del capitalismo. In questa temperie culturale gli europei antifascisti e democratici erano tutti figli della Rivoluzione francese. Ma da quell’epoca tutto è cambiato. Gli anni della guerra fredda e la lacerazione dell’Occidente nei due blocchi contrapposti del comunismo e dell’anticomunismo, insieme alla crisi dello stalinismo e alla denuncia delle sue gravi responsabilità storiche, per citare soltanto due dei tanti avvenimenti che hanno  completamente mutato e sconvolto i quadri concettuali della opinione corrente, hanno bruscamente spezzato e definitivamente precluso l’unanimità di una valutazione comunque positiva della rivoluzione. La reazione degli storici della «storiografia classica» è stata di pura conservazione accademica e di repressione indiscriminata: chiunque deviasse dal credo del materialismo storico e della centralità nella storia della lotta di classe non era degno della qualifica di storico e di studioso. Così facendo, non solo hanno isterilito e sclerotizzato il loro stesso mestiere di storici, ma hanno monopolizzato il campo della ricerca, togliendo ad altri lo spazio e la possibilità, anche psicologica, di un ripensamento del problema della rivoluzione, che fosse più significativo e adeguato al mutare dei tempi. Era facile essere bollati di reazionarismo, se solo si cercava di suggerire che, non sempre e necessariamente, l’immagine della rivoluzione dovesse essere così positiva.  Non era ancora consentito di chiedersi come mai la grande madre di tutte le rivoluzioni avesse partorito il cesarismo bonapartista e le dittature del proletariato del ventesimo secolo apparentemente così lontane dai valori della democrazia del 1789.
 Abbiamo avuto così, nel 1952, il saggio Le origini della democrazia totalitaria di JacobTalmon, che a torto è stato considerato soltanto come un pamphlet di propaganda anticomunista e il saggio sulla rivoluzione di Hannah Arendt del 1963, che alla riuscita della rivoluzione americana contrappone il fallimento delle altre rivoluzioni moderne, quella francese e quella russa, involutesi entrambe in forme di dispotismo.
Non casualmente, questi studi hanno in comune il fatto di essere estranei alla cultura e accademia francese degli storici della Sorbona e di rivendicare la centralità della politica come
necessario punto di partenza nell’interpretazione della rivoluzione.
Ci voleva, in effetti, per innovare veramente e rompere le resistenze di una tradizione consolidata, un intervento esterno. Esterno alla retorica patriottica e nazionalista francese che alimenta il mito della sua rivoluzione, ed esterno alla comunità scientifica che di tale tradizione è il custode intransigente. A tutto ciò è del tutto estraneo, mentre si
inserisce bene nel contesto di un discorso neoliberale, il libro Le due rivoluzioni di Guglielmo Ferrero, che, tra l’altro, nella sua demolizione del mito napoleonico richiama direttamente
la lezione di Lo spirito di conquista e d ’usurpazione di Benjamin Constant. Il suo approccio alla storia è quello di un sociologo della politica che nella storia cerca la verifica di un sistema di categorie.  E' un sistema molto semplice basato sul concetto di legittimità del potere che Ferrero aveva già collaudato nell’ambito della storia romana, dove, esaminando « la rovina della civiltà antica», ne aveva individuato la causa nell’incapacità di conciliare due principi d’autorità tra loro antagonisti: « Il principio monarchico che aveva avuto un grande sviluppo in Oriente... e il principio repubblicano che si era sviluppato in Europa, soprattutto in Grecia e in Italia, nelle istituzioni della città antica Questo antagonismo aveva trovato una temporanea conciliazione nella figura dell’imperator, ma era sempre stata difettosa perché non era riuscita a definire il principio costituzionale donde doveva uscire l’autorità suprema di quella monarchia repubblicana, questo principio non essendo né l’eredità, come nelle monarchie, né una regolare elezione... come nelle repubbliche... Da questo nacque il gran tumulto di rivoluzioni e di guerre che... ha tutto distrutto». E , conclude Ferrero « in fondo a questa
immensa crisi storica, troviamo dunque la lotta di due princìpi opposti, che invece di conciliarsi, come si vorrebbe, finiscono per distruggersi...».
Sono già delineate la sociologia politica e la concezione della storia che ne deriva in quest’opera del 1926 dove Ferrero, con la sua tipica audacia comparativista, stabilisce un
diretto parallelo tra la decadenza dell’impero romano nel III secolo e la crisi dell’Europa del ventesimo secolo. In ambedue i casi l’idea della «decadenza» non è legata a un regresso,
ma anzi a una crisi di sviluppo, particolarmente sentita nella società contemporanea: qui, di fronte al crollo dei vecchi princìpi monarchici di autorità, la civiltà europea rivela la sua incapacità di costituire un nuovo ordine politico basatosul principio democratico, subendo le conseguenze negative dell’essere diventata una «civiltà quantitativa». In effetti, una «civiltà quantitativa» non può, per definizione, essere «una vera forma di civiltà», ma solo «una transizione tumultuosa, una parentesi più o meno lunga», nell’ambito della storia di una «civiltà che non può essere che qualitativa» .
A questa «formula politica»,  manca soltanto un’altra componente, quella della paura umana nei confronti della morte, che, come viene spiegato è la sua passione fondamentale, il «contraltare della passione di vivere», che impegna la maggior parte della sua energia in
una «lotta contro il tempo e contro la morte ». Dalla dolorosa consapevolezza di questa paura, non come paura della natura, ma come paura che l’uomo fa a se stesso in quanto da sé, nasce l’esigenza delle prime forme di civiltà e disistemi di potere ad esse corrispondenti: sono tentativi di creare una situazione di stabilità che neutralizzi la paura.
Così, osserva Ferrerò, « il Potere», fin dal suo nascere, « è la manifestazione suprema della paura che l’uomo fa a se stesso, malgrado gli sforzi per liberarsene. E questo forse il segreto
più profondo e più oscuro della storia.
In questo segreto è riassumibile tutta la storia della civiltà, che è la storia di un potere collettivo, creato per esorcizzare la paura, e organizzato nella forma di uno Stato che « è
uno solo e sempre e dappertutto lo stesso: dei capi che comandano e che giudicano, dei soldati e dei poliziotti che impongono con la forza la volontà e le sentenze dei capi, la massa che spontaneamente e forzatamente obbedisce »Ma perché questo sistema funzioni, e non accada che la paura si riproduca e si moltiplichi, nella forma della «paura del Potere... a cui i soggetti sono sottoposti», e della paurache « il Potere ha... dei soggetti a cui comanda», occorre che tale Potere abbia il requisito della «legittimità». Infatti, il potere di un governo non è riducibile al fatto di «una piccola minoranza ben organizzata che riesce a imporsi a una
maggioranza non organizzata», è anche questo in relazione a quella che è stata definita la sua «effettività » . Ma è qualche cosa di più, e consiste nel «principio di legittimità», cioè nel principio che costituisce la giustificazione del potere, e stabilisce « a chi spetta il diritto di comandare e a chi il dovere di obbedire». Esso, puntualizza Ferrero, «non è necessariamente
razionale, anzi è spesso e volentieri assurdo e irrazionale. Tale è, ad esempio, il principio dell’ereditarietà. Quale garanzia abbiamo, infatti, che colui che ne è il beneficiario avrà le qualità che si richiedono per l’esercizio del potere? Ma una volta che sia stato accettato, il principio di legittimità diventa una cosa seria, addirittura sacra. Bisogna applicarlo lealmente e
accettarne gli inconvenienti, se non si vuole gettare la società nel caos più spaventoso». È questa la ragione per cui Ferrero chiama «geni invisibili della città » i princìpi di legittimità
e li definisce come passioni « di origine mistica, di cui l’intelletto non può rendere ragione» Si tratta di «reggitori invisibili del nostro destino», che «non sono come gli esseri viventi visibili e tangibili», ma ricordano piuttosto «quelle essenze intermedie fra le divinità e gli uomini che i
romani chiamavano “ geni” »  Ed è solo in virtù della vigilanza di tali geni che il Potere riesce a imporsi come legittimo, liberando se stesso « e i suoi soggetti dalle reciproche paure», e «sostituendo sempre più nei loro rapporti il consenso alla coercizione» E la fine di un potere legittimo è sempre una catastrofe che fa di colpo ricadere gli uomini nella barbarie e nella paura. E questo il dramma dell’antico regime, il cui «genio » tradizionale, vale a dire il «principio di legittimità aristocratico monarchico», non corrisponde più allo spirito dei tempi, cioè ai nuovi costumi, abitudini e interessi, mentre comincia invece a farsi luce « l ’idea che il Potere abbia bisogno della sanzione del popolo per essere legittimo». Inizia così quel «contrasto tra il principio della legittimità aristo-monarchica che invecchiava e il principio democratico che lentamente si irrobustiva», il cui esito è la Rivoluzione francese, o meglio le due rivoluzioni in contraddizione tra di loro: la prima, quella del 1789, che nasce dal movimento dei lumi e tenta, senza riuscirci, di fondarsi come nuovo potere legittimo della sovranità del popolo; la seconda, definita da Ferrero come « la rivoluzione del 1799 e del Diciotto Brumaio», ma in realtà iniziata fin dal «colpo di forza del 2 giugno» del 1793, che, «figlia della Grande Paura», ha generato « il primo governo totalitario dell’Europa"
 Nell’opera Le due rivoluzioni si cerca di dimostrare lavocazione irrimediabilmente totalitaria della rivoluzione in quanto tale, che, proprio in quanto nasce dalla distruzione
della legittimità esistente, è destinata a produrre «un risultato esattamente opposto a quello che ci si attendeva», cioè la dittatura di una minoranza sempre più esigua il cui potere si fa progressivamente più illegittimo, diventando ogni giorno più violento e meno fondato sul consenso popolare.
 La legge non esiste più e la sua latitanza scatena quel movimento di panico e terrore collettivo che ha coinvolto tutti i francesi indistintamente, dai contadini alla nobiltà, e che è stata chiamata la «Grande Paura». Con la scomparsa della legalità monarchica e con la grande paura il destino della rivoluzione è irrimediabilmente segnato: il suo governo cercherà di costituirsi come una autentica democrazia, che vuole creare un potere legale basato sulla indiscutibile volontà sovrana del popolo, il cui ampio consenso è garantito dal leale e solidale
confronto di una maggioranza al potere e di una minoranza all’opposizione. E questo, per Ferrero, il corretto funzionamento di una «democrazia legittima», dove «Potere e opposizione
sono... gli organi solidali dell’unica volontà collettiva, ma si scontra invece con la resistenza e riluttanza del popolo stesso all’esercizio effettivo della sua sovranità, e con l’impossibilità politica di una sua attuazione, dato che, come sostiene Ferrero, «se si fosse applicato lealmente il meccanismo della maggioranza e della minoranza, il principio aristocratico
e monarchico avrebbe trionfato». E' così che  i rivoluzionari, travolti e dominati dalla paura e dall’insicurezza, si avviano fin d’ora a creare invece un «governo rivoluzionario», illegittimo
per definizione, il cui «potere viene attribuito ed esercitato secondo regole nuove, poco precise, imposte da una minoranza, il più delle volte con la forza, a una maggioranza che non vuole affatto saperne». E un governo che, osserva Ferrero, diventa «rivoluzionario per la forza delle cose», in una situazione storica in cui la «rottura della legalità precedente» e la costituzione di un «potere illegittimo», insieme allo «stato di paura generale» che ne consegue e che coinvolge sia chi deve obbedire che chi deve comandare, rendono inevitabili l’impiego e l’abuso della forza. Allora «il potere non riconosce più alcun limite alla sua forza e diventa assoluto». È questa la realtà di tutte le rivoluzioni, che finiscono sempre coll’essere coinvolte in quello che Ferrero chiama un «cerchio infernale», della «paura che provoca
gli abusi della forza», e degli «abusi della forza che esasperano la paura». E evidente il richiamo a «cerchi infernali» del nostro presente che pone una sorta  di assioma sulla rivoluzione che sempre e comunque comporta lo stesso esito fallimentare

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