lunedì 31 agosto 2020

LE CANZONI DEGLI ALPINI

 

Già dal titolo si capisce che l’argomento del  presente articolo è un seguito, direi un necessario correlato,  di quello sul cappello degli alpini:  “…e mi farò soldato nel mio reggimento”   la canzoncina allude al diverso tipo di arruolamento del nuovo tipo di militari, regionale e non nazionale, così come caldeggiato dalla relazione del Capitano Perrucchetti:  nessun coscritto difatti avrebbe potuto dire e tanto meno cantare  una cosa simile, dopo il 1872 se non fosse stato  inquadrato appunto nel Corpo militare degli alpini che potevano parlare del loro Distretto, del loro Reggimento fin da bambini, sapendo che proprio  lì’ ci avrebbero fatto la naja; la canzone è “sul ponte di Bassano” una delle più famose e anche tra le prime canzoni degli alpini, certamente precedente a quella Grande Guerra, che segnerà come una apoteosi nella ideazione e composizione di un numero impressionante di canti e canzoni, infinitamente superiore a quello di qualsiasi altro Corpo militare italiano  e forse di tutto il mondo. Canzoni  che sono entrate  a pieno titolo nel patrimonio di tradizioni musicali del Paese. Certo ha sempre giocato la tradizione montanara, cui ovviamente gli alpini hanno fatto riferimento fin dall’inizio, canzoni ecco come “il ponte di Bassano” che dà quell’indicazione del “mi farò soldato” si da non retrocedere la data della composizione a prima del decennio settanta dell’ottocento, canzoni  che si cantavano nelle valli, per i boschi, soprattutto nelle escursione tra i monti e che erano legate alle diverse località cui quasi sempre le musiche fanno cenno,  non solo Bassano e il suo celeberrimo Ponte…“quando saremo fora, fora per la Valsugana….”  “la Montanara, che si sente tra boschi e valli  d’or…” “quel mazzolin di fiori” che, ovviamente è  ben precisato, “vien dalla montagna “. E’ una impronta che  si sente anche nei canti prettamente militari, che in effetti per lo più parlano pochissimo di guerra, assalti e roba del genere, ma vi fanno  semmai un  sotteso e mai troppo entusiastico riferimento.  Il curioso, come è stato detto,  è che quasi tutto  tale  patrimonio si sia composto quasi integralmente durante la Grande Guerra del ‘15-18; quattro anni a stretto contatto con la morte, tra sacrifici e privazioni, debbono aver stimolato la vena poetica, ideativa e canterina  dell’anonimo compositore alpino, che anche questo è da rimarcare, difficilmente  si possono trovare gli autori specifici di questa o quella canzone per bellissima che sia; sembra quasi che l’atmosfera  della guerra, tra l’altro molto poco  compresa, specie tra le classi popolari, montanari, contadini, anche contrabbandieri, abbia cementato quel certo spirito di appartenenza  ad un sostrato comune facendo emergere del tutto naturalmente  e spontaneamente inusitati talenti musicali. Prima della  grande guerra gli alpini non risulta che avessero questo poi sterminato parco musicale: per lo più cantavano le canzoni delle loro Valli e dei loro Monti e magari qualche musichetta ripresa dall’apparato militare  nazionale, quale ad esempio l’allegra marcetta della Bella Gigogin, che risaliva a prima dei moti Risorgimentali, difficile che intonassero  musiche un tantino più ufficiali, tipo “addio mia bella addio” “l’inno di Garibaldi””la bandiera di tre colori”. Durante la prima guerra d’Africa  la canzone più in auge  era  pure una sorta di marcetta che faceva riferimento ad un “africanella Cassera” per ribadire un po’ spocchiosamete “italia resta in Africa” cosa che, causa la battaglia di Adua, cui anche gli alpini presero parte,  andò alquanto diversamente. Sembra però che il canto della Grande Guerra “e Cadorna manda a dire…” avesse un precedente,  proprio in tale periodo, dove  invece di Cadorna ad avere “bisogno degli alpini” fosse il Generale Baldissera, il che magari può far argomentare se tale canzone risalisse proprio ai primi tempi della vicenda africana e cioè sul finire degli anni ottanta dell’ottocento, dopo le spedizioni “Di San Marzano e Orero” quando appunto Baldissera fu il massimo grado militare in Eritrea, oppure dopo Adua,  sette anni dopo, quando appunto lo stesso Generale vi fece ritorno, per cercare di  porre rimedio al disastro che aveva combinato Baratieri. In Libia  la canzone più diffusa era senza dubbio la famosissima “Tripoli bel suol d’amore”  che la cantante Gea della Garisenda intonava con tanto di tricolore, vestita da marinaretto e spesso e volentieri anche  calcando il cappello di bersagliere, ma mai  quello degli alpini. Certo  c’erano anche canzoni tipiche della Naja, come “macchinista del diretto” che i soldati già prima della Libia cantavano, così come probabilmente altri canti del genere che hanno fanno parte dell’armamentario di quello che fu il militare di leva, dai trentasei mesi di quei primi del secolo “trentasei mesi di pastasciutta, mamma che brutta a fare il soldà” “manda i soldi caro papà, che qua mal si sta”,  ai 12 di  prima dell’abolizione, canti, dove si parla sempre di disagi, di soprusi dei  superiori e relative vendette, magari solo cantate “si scende in piazza d’armi con tutti gli ufficiali, sergenti e caporali che se li …., diciamo …“fila”…. più?.. ma ancor più,  si va sulla falsa riga dei Canti Goliardici, dove imperituro e ricorrente è il tema erotico/sessuale  in un’accezione  scollacciata, sul triviale, diremmo oggi, esclusivamente maschilista. Non si contano  i vari “figlia ti voglio dare per sposa, un Generale, un Colonnello, un capitano, financo un semplice caporale”   e tutti a conclusione scontata : niente!per ognuno c’è sempre il suo correlato a palese defaillance sessuale, l’unico che avrà l’entusiasta beneplacito della fanciull sarà il congedante  e sul perché, superfluo sottolineare che è sempre  dominante la più marchiana coloritura sessuale: con “congedante” fa rima difatti un certo capo di abbigliamento femminile, che questi senza troppi complimenti provvederà a strappare. Con la Grande Guerra gli alpini, come abbiamo osservato, diventano gli assoluti protagonisti della canzone militare;  è scontato che  vanno usufruendo sempre più di un patrimonio  di tradizioni regionali a carattere montano di sempre maggiore entità, canzoni che parlano di Monti, di Valli, di belle morose, ecco! Sempre di morose “Il 29 giugno” quando che si taglia il grano, già ma è anche il giorno in cui nasce una bella bambina con una rosa in mano” “la Paganella” “Dove te vet Mariettina” “all’Ospedale di Genova” “la Smortina” “ai pret le biele stele””o ce biel Chieschiel a Udin” canzoni che costituiscono la tradizione, al pari  di altre specifiche militari di alpini, a cominciar dall’inno stesso  del Corpo “trentatré” al celeberrimo “sul cappello che noi portiamo”  quindi “mi sum alpin, me piace el vin”, e quelle dove la guerra comincia timidamente a fare capolino come “Oh Dio del cielo se fossi una rondinella …” dove  allo struggimento della “morosa” lontana c’è prima l’invito a raggiungerla “prendi la secchia e vattene alla fontana, là c’è il tuo amore che alla fontana aspetta” ma subito dopo  un ben ordine ben più crudo: “prendi il fucile, innesta la baionetta e vattene alla frontiera, la c’è il nemico che alla trincea ti aspetta”  Probabilmente la prima canzone specifica che parla non solo di militare, ma di guerra è “Monte Nero” che racconta musicalmente appunto una delle prime imprese militari dei  battaglioni Fenestrelle, Pinerolo, Susa ed Exilles del 3° reggimento alpini, battaglioni che sotto gli occhi di un Colonnello che piangeva “a veder tanto macello” conquistarono appunto la cima del monte all’alba del 16 giugno 1915. Le cose cominciano a farsi dannatamente reali, il Colonnello in questione è un personaggio reale, Donato Etna, che già aveva avuto un momento di celebrità per essere stato il comandante del battaglione Morbegno, quello in cui fu fatto l’esperimento del plotone grigio, che doveva introdurre il grigio verde in tutto l’Esercito. Donato Etna coi suoi baffoni paciosi che diverrà Generale d’Armata e che tutti sapevano essere un figlio illegittimo del Re Vittorio Emanuele II. Comunque sia, di poi è tutto un susseguirsi di canti e canzoni, sembra quasi che la dura vita di trincea, gli allarmi, gli assalti stimolino la verve musicale, come detto di tutta una miriadi di compositori “Bombardano Cortina” “Era una notte che pioveva” “Dove sei stato mio bell’alpin, ghe ti ga cambià colori” con l’alpino che si mette ad elencare tutti i motivi che gli hanno appunto fatto cambiare colori, il Pasubio, l’Ortigara, il Grappa; ancora la struggente “Ti ricordi la sera dei baci” dove una ragazza che ha perso il fidanzato ventenne in  guerra si rivolge alle sue coetanee con un quanto mai melanconico invito “ragazzette che fate all’amore, non piangete, non state a soffrir, non v’è al mondo più grande dolore che vedere un alpino morir” Un’altra delle più belle è il famosissimo “Testamento del Capitano” che non è però un canto spontaneo e del tutto improvvisato: ha difatti un antecedente nel Canto Funebre del Marchese di Saluzzo, un condottiero cinquecentesco di cui Costantino Nigra ne aveva riportato una versione in piemontese arcaico, che appunto ne narrava la suggestiva morte, dove prima di spirare aveva voluto radunare tutti i suoi uomini e giustappunto fare un originale testamento., con parti del suo corpo Si !!! Il testamento del Capitano è probabilmente la più bella canzone degli alpini ed ognuno, magari ci ha costruito una storia personale : mio nonno Mario Nardulli che militava nel 1916 nel battaglione Monte Suello ai diretti ordini del Capitano Corrado Venini che, gravemente ferito in battaglia, doveva morire dopo ore di agonia tra il Monte Maggio e il Colle della Borcola, nei primi giorni della Straf Expedition austriaca, diceva sempre che per lui il quel Capitano era proprio  il Capitano Venini! Stessa vicenda, stessa storia e non è affatto improbabile, magari con un piccolo aiutino della fantasia, che tale Capitano, che ebbe la medaglia d’oro alla memoria e che era un appassionato di musica e si dilettava di composizione di canzoni (aveva composto l’inno degli alpini sciatori) abbia in effetti aumentato un po’ di suggestione della scena, facendo riferimento a quell’antico episodio “ e io comando che il mio corpo in cinque pezzi avete a’ taglià!” Un’altra canzone della Grande Guerra  che non può e non deve essere tralasciata è “Di qua di là del Piave” …qualcuno però forse in una versione  un po’ precedente  la chiama più genericamente “di qua di là del Ponte”. La vicenda è ultra famosa e informa quell’immaginario tipicamente alpino, del poppante che butta il latte e beve il vino, questo in virtù del fatto di essere figlio “del vecio alpin” e della bella mora che stazionava appunto “di qua, di la’ del Piave o di un qualsiasi ponte” laddove, la storiella  che fa svolgere il tutto, dismette alquanto l’armamentario guerriero e battagliero, per assumere quello di un vicenda anche un tantino boccaccesca (dipende anche dalle varie versioni), dove sulla prime la fanciulla quando il vecio le fa a bruciapelo “ ohi bella! vuoi venire questa sera a far l’amore con me?” fa un po’ di storie “mi si che vegneria per una volta sola, però ti prego lasciami stare che son figlia da maritar”…e quello proprio  senza un minimo di tatto…. (eh la guerra! Che fine avevano fatto le buone maniere?) : “se sei da maritare dovevi dirlo prima, ma molto prima, sei sempre stata coi veci, alpin, non sei figlia da maritar!” Punto e basta! Andiamo comunque a precisarla un tantino questa  bella mora  del Ponte, futura madre  del bambino che “buttava il latte, beveva il vino!”: tramite lei si contraddice una delle due versioni  del titolo della canzone  e proprio quella più conosciuta ovvero “di qua di là del Piave” perchè la ragazza lo si ribadisce chiaramente, anzi lo si canta proprio in una strofa, è a ridosso del Ponte di Bassano, e quindi sul Brenta, non sul Piave : “sul ponte di Bassano ci sta una bella mora, tutte le sere che la va fora, cogli alpini la fa l’amor”

IL CAPPELLO DEGLI ALPINI

 


Un cappello  è sempre legato alla “presenza” specie di un corpo militare:  in un periodo di esaltazione massima dello spirito militare come l’era napoleonica, i cappelli dei militari erano di foggia variegatissima e tutti di forte impatto scenografico; ce ne erano per tutti i gusti  e certamente uno più bello dell’altro . La  restaurazione aveva un po’ ridimensionato tale tendenza e si era rimasti alla feluca di foggia assai semplice  che d’altronde lo stesso Napoleone portava abitualmente, però alcuni corpi speciali continuavano a portare cappelli di forte rappresentanza, tipo  il colbacco da ussaro, che veniva adottato da altri reparti tipo ad esempio i Granatieri o anche i carabinieri che alla normale feluca sovrapponevano dei pomposi pennacchi. Nel 1836 il capitano delle Guardie (che poi divennero i Granatieri) Alessandro La Marmora propose l’istituzione del corpo dei bersaglieri, una specialità della fanteria con caratteristiche di maggiore rapidità e proprio per sottolineare questa velocità ne propose un cappello tipo shakò, cioè  con visiera, schiacciato e con un pennacchio fatto di tante piume di diversa lunghezza che enfatizzassero con il loro movimento (le famose piume al vento) appunto l’impeto, la velocità, l’ardore. E’ probabilmente il primo e più caratteristico copricapo militare dell’Esercito Savoiardo poi passato all’Esercito del Regno d’Italia. Perlopiù i berretti degli altri corpi si erano andati semplicizzando, i Generali magari mantenevano la feluca più o meno impennacchiata, ma i reparti di linea, la fanteria, l’artiglieria, il genio andavano sempre più adottando il chepì, un berretto assai semplice con visiera  sul quale gli ufficiali vi apponevano le strisce del grado, cosa che d’altronde, dopo un primo periodo, soprattutto  durante la Repubblica Romana, in cui ciascuno si sbizzarriva in copricapi piuttosto fantasiosi, con penne, lacci e di solito a tronco di cono, anche i garibaldini, cominciarono a preferire, conservando il colore rosso vivo. E' grosso modo questa la situazione delle uniformi con la creazione del Regno d’Italia, molto influenzata dalla foggia francese, con giubbe molto lunghe, fascia azzurra, che era il colore distintivo dei Savoia, non a tracolla, ma abitualmente avvolta in vita sotto la cintura. Le cose cominciarono a cambiare  dopo la guerra del 1866 e l’adozione della foggia di ispirazione prussiana, giubbe molto più corte, kepì più rialzato , colore più scuro della giubba, per gli ufficiali, a doppia abbottonatura e pantaloni invece di colore celestino con le bande dei colori dei vari corpi di appartenenza.
E’ in questo nuovo contesto che nel 1872 il capitano Giuseppe Perrucchetti  propose la costituzione di un nuovo corpo militare con peculiarità assai specifiche, quello della difesa dei valichi alpini, fidando sulla appassionata benevolenza di un politico come Quintino Sella allora Capo del Governo che era un appassionato montanaro, tra i fondatori del Club Alpino (il Cai) e del Ministro della Guerra il Gen. Cesare Ricotti Magnani anche lui appassionato montanaro: fu proprio quest’ultimo che avendo particolarmente apprezzato un articolo del capitano Perrucchetti sulla Rivista Militare in merito alla costituzione di reparti addetti alla difesa alpina, trovò l’escamotage per la costituzione del nuovo corpo, predisponendo  la costituzione di 15 compagnie di soldati a  reclutamento regionale presso i 10 corpi d’armata in cui  era suddiviso il territorio nazionale, con compiti mascherati da  militari distrettuali, per ovviare alle opposizioni che sarebbero certamente arrivate se fosse stato proposto chiaramente l’istituzione di un nuovo Corpo militare, in un periodo di forti ristrettezze economiche e dove appunto per bocca dello steso Capo del Governo le tali economie dove essere “fino all’osso”  La caratteristica principale del nuovo Corpo che in prima istanza si doveva contentare di sole 15 compagnie, era appunto il tipo di reclutamento, non nazionale, ma regionale, anzi addirittura locale, perché, e su questo punto il Perrucchetti era stato chiaro, la cosa più importante per un impiego tempestivo a livello di difesa montana doveva essere la velocissima mobilitazione dei complementi, quasi con il fucile da portare a casa, come faceva l’esercito svizzero. Nascevano così gli alpini nell’ottobre del 1872 con un Regio Decreto di Vittorio Emanuele II in data 15 ottobre 1872 , abbiamo detto, quasi di soppiatto: 15 sperimentali compagnie  che però pochissimi anni dopo nel 1878, con il nuovo Re Umberto I  venivano portate a 36 inquadrate in 10 battaglioni che assumevano la denominazione dei luoghi di reclutamento. In quanto all’uniforme era del tutto identica a quella della fanteria, con l’adozione del colore verde come sorta di distintivo, qualcuno dice per il verde delle montagne, ma le montagne specie ai confini sono per lo più ammantate di neve e quindi a rigore il colore avrebbe dovuto essere il bianco, però, e forse qualche dotto studioso era andato a ritrovare che ai tempi di Augusto esisteva una  “Legio” , detta dal nome della famiglia dell’Imperatore  Augusto: Julia, con peculiarità di difesa montana che adottava il verde come colore distintivo. E verde sia, per le bande dei pantaloni, per le filettature della giubba ed infine anche per le mostre nel 1883 in correlazione con il nuovo simbolo dello stesso Esercito italiano: le stellette. Gli ufficiali continuavano a portare il kepì con le strisce argentee del grado e i Generali la Greca su fondo rosso, ma i soldati, ecco i soldati non ne vollero quasi subito sapere del banale kepì; volevano distinguersi anche e soprattutto nel copricapo da quella che proprio allora cominciavano a chiamare “la buffa” ovvero la fanteria.
Cento penne ha il bersagliere” diceva una delle prime canzoni degli alpini “ma l’alpin ne ha una sola, penna d’aquila, penna nera….” bhe magari proprio all’inizio la penna non fu d’aquila, ma di corvo e comunque la sua origine di adottarla come corredo necessario e imprescindibile del cappello, dato che si voleva enfatizzare  la costituzione del nuovo corpo militare, il primo del nuovo Regno d’Italia con un richiamo a qualcosa del Risorgimento, fu scelto il copricapo del protagonista dell’Opera Ernani di Verdi, che aveva giustappunto una bella penna sul lato, così come enfatizzato dal famoso quadro “Il bacio” di Hayez, anche se il cappello ivi ritratto somiglia più a quello che fu scelto una quarantina di anni dopo piuttosto che quello detto “alla calabrese” in feltro nero a tronco di cono  con la tese rialzate,che fu adottato come copricapo delle nuove truppe, per motivi anche essi legati al Risorgimento, dato  che nel 1848 era stato addirittura proibito in un’ordinanza della Polizia di Milano per il suo carattere sovversivo, cui i patrioti solevano mettere, proprio dal lato sinistro della tesa rialzata,  piume, pennacchi, penne appunto, per aumentare lo sbeffeggiamento delle autorità. Come  fregio fu dapprima disposta una stella a cinque punte , ma ben presto una quanto mai fastosa aquila ad ali a metà tra spiegate e abbassate, con croce sabauda e cornetta e fucili incrociati.
Dieci anni dopo la loro costituzione nel 1882, furono istituiti i primi sei reggimenti alpini, di cui uno dei comandanti fu il futuro Generale e Capo del Governo, all’epoca Colonnello Luigi Pelloux. Oramai gli alpini erano entrati nell’oleografia militare dell’epoca, ne parla De Amicis nel libro “Cuore” e fece scalpore una marcia attraverso i monti dell’allora Capitano Davide Menini con la sua compagnia per rendere puntuali omaggi alla Regina Margherita nel 1881.
Proprio questo ufficiale Davide Menini, divenuto Tenente Colonnello doveva caratterizzare il battesimo del fuoco del Corpo, non tra le montagne o le valli alla cui difesa gli alpini  erano stati predisposti, ma tra le ende, gli acrocori  i tondeggianti colli e gli sterminati valloni etiopici, giù in terra d’Africa. Era difatti stato nominato Comandante  del primo battaglione  alpino d’africa, un organico di circa 1000 uomini  con 20 ufficiali. Gia’ in precedenza  degli alpini erano stati inviati in Africa, ad esempio il famoso Galliano, distintosi in più occasioni e divenuto leggendario nella difesa del forte di Makallè, era un ufficiale proveniente dagli alpini, ma  era la prima volta in quell’inverno del 1895, che un intero battaglione tutto di alpini veniva impiegato  in operazioni belliche. Anche in Africa gli alpini non avevano rinunciato alla loro penna e l’avevano applicata sul casco coloniale, che era ricoperto di panno colore bianco, ingiallito, come d’altronde le uniformi coloniali, in bagni di foglie di tè. Battesimo del fuoco quanto mai tragico in quanto il battaglione che era stato inquadrato nella Brigata di Riserva del Gen. Ellena, tentò di tamponare la avanzata abissina nell’infausta battaglia di Adua, presidiando il Colle Rajo  e opponendo una strenua resistenza che costò la vita a oltre 400 alpini, ivi compreso il
suo comandante e a numerosi ufficiali tra cui uno dei comandanti di compagnia, il capitano Pietro Cella, che fu la prima medaglia d’oro al valor militare, ovviamente alla memoria, della storia del Corpo. Perché gli alpini abbiano nuovamente a che fare con battaglie  si dovrà attendere una quindicina di anni e nuovamente in Africa, non in Etiopia, ma in Libia e Cirenaica, ma in questi 15 anni molte cose erano cambiate: anzitutto le uniformi, non più turchine o blu per gli ufficiali con gradi a fiore sulle maniche, ma grigioverdi  e anche il cappello si era modificato, non più alla calabrese, ma sul tipo di quello usato tra i montanari, con le falde assai più larghe, grigioverde anche questo, di panno e floscio con la penna che i veci portavano in genere molto lunga a “bilanci’arm” come si diceva in gergo. A rigore anche gli ufficiali potevano utilizzare lo stesso cappello con penna nera d’aquila fino al grado di Capitano, bianca d’oca da Maggiore in su, ma per la verità preferivano il berretto a tuba, che era un chepì assai più rialzato, sempre con i gradi a fettucce, lasagne e greca  tutt’attorno, aboliti i gradi sulle maniche “ a fiore” si portavano ora sulle controspalline a stellette, una due e tre  fino a capitano, mentre gli ufficiali superiori portavano la controspallina bordata, sempre con le stellette e i Generali interamente bianco argenteo dove solo il Re arrivava a tre stelle in quanto Generale d’esercito, mentre anche il Capo di Stato Maggiore e  i comandanti di Corpi d’Armata e poi d’Armata arrivavano solo a due che contrassegnava il grado di Tenente Generale, dove il ruolo di Superiore Comando era dato da una corona dorata e  bordata di rosso situata tra le due stelle. Una evoluzione che era cominciata proprio dagli alpini nel 1906 con il cosidetto “plotone grigio”; la risonanza dei terribili massacri della guerra Russo Giapponese avevano difatti sollevato la questione  della mimetizzazione e del colore troppo vistose delle nostre uniformi. Non era un problema solo nostro, i francesi iniziarono la grande guerra con i famosi “pantalons rouges” che erano una pacchia per le mitragliatrici tedesche, e anche le altre nazioni europee non erano da meno in quanto a rutilare di colori.
Fu un borghese certo Luigi Brioschi,  presidente della sezione milanese del Cai, che perorò con fervore la causa dell’adozione di un colore più mimetico per le truppe , riuscendo a portare dalla sua parecchi ufficiali tra cui il Tenente Colonnello Donato Etna che era il comandante  del battaglione alpino Morbegno, che a sua volta riuscì a farsi  autorizzare a eseguire una sperimentazione di un plotone vestito con la nuova uniforme mimetizzata che venne “provata” al poligono di tiro in relazione a quella ordinaria. La divisa non era ancora il grigio verde che verrà però adottato di li’ a poco, ma aveva una tinta più color creta, con giacca chiusa bottoni coperti e colletto rivoltato, pantaloni sbuffati  con calzettoni o le celebri e famigerate fasce mollettiere che costituiranno la disperazione di tutte le leve a venire fino alla seconda guerra mondiale. L’esperimento suffragò le tesi di Brioschi che nel suo fervore era andato anche a scomodare Dante Alighieri perché nel suo inferno aveva fatto assumere a dei dannati che dovevano perdersi nel panorama, lo stesso colore delle rocce; ad una distanza  stabilita difatti il manichino con indosso  la vecchia uniforme veniva centrato 8 volte da tiratori scelti del plotone, mentre  quello con la nuova uniforme una volta sola. Le sagome erano state disposte in vari modi, a terra, in ginocchio e in piedi, inoltre dopo  500 metri, mentre la vecchia uniforme soprattutto in piedi era ancora perfettamente individuabile, quella grigia  si confondeva col terreno  e in piedi era stata colpita solo tre volte  contro le 24  di quella turchina. Ovvio e naturale che di lì a poco, l’esempio di quel  cosidetto “plotone grigio” fu seguito per tutto l’Esercito, influenzando tutti gli eserciti del mondo che presero spunto dal modello italiano.  In Libia dunque  l’esercito si presentava  nella nuova tenuta, certo qualche ufficiale adottava ancora la vecchia uniforme , molto più marziale e oggettivamente assai più bella , ma oramai erano  una minoranza e anche i Generali indossavano il grigio-verde, che alla fine era stato giudicato il colore mimetico più adatto al tipo di terreno italiano. Coll’inizio della guerra con la Turchia, gli alpini  vennero inviati un pò alla spicciolata, ma l’anno seguente  si fecero le cose più in grande, non più compagnie 0  battaglioni, ma un intero reggimento:  l’8° posto agli ordini di un Colonnello che diverrà una leggenda Antonio Cantore, e questa volta non ci sono disfatte, anzi l’8° rgt° alpini si era distinto in numerose occasioni e il suo irruento comandante anche se costantemente tenuto a bada dal Gen.Tommaso Salsa comandante della Divisione che era uno dei migliori ufficiali dell’Esercito, già Ispettore delle Truppe alpine,  si guadagnerà la promozione a Maggior Generale alla fine della campagna. Un’altra medaglia d’oro per un un alpino, e questa volta non alla memoria, il tenente Giovanni Esposito, che ritroveremo in Grecia nel 1941 Comandante della Divisione Pusteria e un fatto passato alla leggenda e ratificato in un monumento che ancora oggi è presente in Milano e in copia anche a Merano, quello di un mastodontico alpino Antonio Valsecchi che durante un assalto alle difese avanzate di Derna in  un Ridottino denominato Lombardia, esaurite le munizioni sollevò un grande masso scagliandolo contro gli assalitori, presto imitato dai suoi commilitoni che riuscirono a respingere e mettere in fuga il nemico. Gli alpini nella prima guerra mondiale sono oramai troppo inseriti nell’immaginario collettivo di quella guerra, per aggiungere qualcosa. Solo alcune precisazioni: anzitutto quella del Gen. Cantore  che dopo appena pochi mesi di ritorno dalla Libia, si trovò Cte di Brigata in Trentino e subito diede  un diverso impulso alle direttive rigorosamente difensive affidate alla 1^ Armata dal Gen.Cadorna: conquista di Loppio, Mori e soprattutto della importante cittadina di Ala; tanto era bastato per il famoso “promoveatur ut moveatur” ovvero  nomina a  Cte di Divisione e trasferimento in Cadore all’8^ Armata , ma anche qui, il lupo perde il pelo, ma non il vizio: la sua fissa era  la cima del Castelletto e dilagare per la Val Travenzes, così non passava giorno che non facesse  ispezioni, controlli di postazioni e soprattutto non cessasse di guardare lontano col suo cannocchiale, oltre i Monti, l’Antelao, le Tofane, le vallate, alla ricerca di un varco dove far avanzare gli uomini della sua Divisione. Un po’ troppo, forse soprattutto per i suoi sottoposti, costretti a tenere il passo di quella specie di invasato. Il cecchino che si dice lo abbia centrato in
piena fronte  quel giorno del 20 luglio alla Forcella Negra dellaTofana di Rozes, non è mai stato identificato e fin dall’inizio  le perplessità su quella strana pallottola di cui ancora è conservato il berretto con il foro sulla visiera, ha sollevato non pochi dubbi. Cantore era un ufficiale espertissimo e se si esponeva così platealmente oltre le trincee è perché sapeva bene che i cecchini in quel punto erano fuori tiro, tant’è che prima del colpo fatale, ci fu un colpo che arrivo’ oramai innocuo a 20 metri dalla posizione del Generale, ma  se i cecchini in quel punto erano fuori tiro non altrettanto si poteva dire dei numerosi costoloni  a ridosso della trincea , posti a pochi metri  e saldamente in mano italiana: da lì sarebbe stato uno scherzo per chicchessia centrare in piena testa il Generale, e neppure servendosi di un fucile, ma di una semplice Beretta o Glisenti, le pistole in dotazione  agli ufficiali italiani. Ci fu anche un indagine pochi giorni dopo il fatto con tanto di venuta di un ufficiale dei carabinieri, ma  fu conclusa in tutta fretta, appena dopo il funerale del Generale a Cortina, dove specie gli ufficiali superiori erano in preda ad una curiosa euforia e come disse un testimone oculare, l’unica nota di tristezza  della cerimonia era il cavallo bianco del Generale tutto bardato, ma senza cavaliere. La voce che Cantore potesse essere stato ucciso da “fuoco amico” e con piena intenzione specie da qualche immediato sottoposto che era stato particolarmente vessato dalla severità del Generale  (pare che pochi giorni prima incrociando un ufficiale  gli avesse fatto una tale ramanzina da costringerlo alle lacrime!) fu subito molto diffusa e la inchiesta si era conclusa troppo rapidamente per non dare adito a dicerie di sorta, dicerie che sostanzialmente non giovavano a nessuno e che quindi furono  presto bandite con la concessione della medaglia d’oro al valor militare alla memoria, e l’annovero della figura del Generale nell’Olimpo degli Eroi. A tingere di giallo il  mistero, contribuì anche il fatto della immediata scomparsa del berretto del Generale, quello con il foro della pallottola sulla visiera, da cui si sarebbe potuto stabilire il calibro, un pò quello che doveva succedere per John Fitzgerald Kennedy, di cui scomparve addirittura il cervello da cui si sarebbero potuto fare delle congetture sulla provenienza dei colpi mortali. In verità il berretto lo aveva prelevato prima dell’inumazione della salma, un nipote che lo aveva conservato per decenni, ignaro delle ipotesi sulle uccisioni del nonno, e quando finalmente nel secondo dopoguerra lo consegnò alle Autorità per effettuare le indagini si stabili’ che era impossibile valutare, dato il tempo passato, se il foro  sulla visiera che era di cuoio e quindi si era deformato, potesse essere provocato da un arma austriaca o italiana. Una cosa è certa di Cantore si è detto che era severissimo e brutale, esigentissimo, ma soprattutto vero i suoi immediati sottoposti, ufficiali superiori e difficilmente inferiori al grado di capitano; con i soldati anzi era di una certa bonarietà tant’è che loro, i semplici alpini, lo elessero ad una sorta di novello San Pietro , custode di un particolare paradiso quello delle “penne mozze” ovvero di tutti gli alpini caduti in battaglia.  E questo non è a parere di chi scrive un cosa che gli alpini, i semplici alpini , concedano tanto facilmente, è molto molto di più di una, cento medaglie d’oro , è cosa che va oltre tutte le citazioni, i bolltettini  di guerra, è un qualcosa che va anche oltre ogni retorica .



domenica 30 agosto 2020

RECITARE UNA PARTE (Seconda Parte)


E' difatti  proprio da questa battaglia svoltasi sul Ponte di Lodi, non di rilevante importanza militare, ma di enorme  importanza psicologica, in quanto punto di origine del mito Napoleone così come si è andato costruendo nell'immaginario collettivo della storia, che si diparte tutto il nostro  ragionamento di "recitare una parte"  che come detto fa seguito ed è in correlazione  con quello dello storico Guglielmo Ferrero.   
Di fondamentale importanza il fatto che proprio l'interessato ovvero il non ancora ventisettenne generale Napoleone Bonaparte, contribuì non poco alla formazione di questo vero e proprio mito, asserendo nelle sue memorie  che in  lui la visione della futura grandezza gli derivò appunto da quella battaglia " Fu solo nella serata di Lodi "raccontò nelle sue memorie "che cominciai a ritenermi un uomo superiore e che nutrii l'ambizione di realizzare grandi cose...." il fatto degno di nota è che la stessa cosa scaturì non in una, ma in tutte le menti del Direttorio ivi compreso nelle menti dei Generali che all'unisono con lui compreso, avevano fissate le disposizioni del piano di cui, non dimentichiamolo mai, fino allora, lui che si era ritrovato per una somma di fortuite circostanze ad assumerne l'onere/onore di realizzarlo, vi si era attenuto in maniera  esemplare.  Difatti il Direttorio, preso atto con  gradita sorpresa  che le notizie del fronte italiano avevano un favorevolissimo impatto in tutta la Francia, pensò bene di enfatizzare quella scelta, che a parte i sottesi favori, le regalie, ed anche i  compromessi,  risultava esclusivamente propria, pensò bene di enfatizzare la figura del giovane fino ad un paio di mesi prima completamente sconosciuto Generale,  quasi costituendo un eco a quelle impressioni del tutto soggettive del protagonista. Poco importanza aveva il fatto che in verità la battaglia di Lodi era stata in realtà uno scontro  vinto contro una retroguardia nemica, lasciata di presidio a Lodi,  su disposizione di  Beaulieu,  di fermare l’avanzata francese giusto il tempo  da consentire al grosso dell’esercito austriaco  di ritirarsi oltre l’Adda, questo dopo che  Napoleone aveva violato la sovranità  del Ducato di Parma per attraversare il Po a Piacenza impossibilitato a farlo nel tratto di confine con la Lombardia,  dato che in ossequio alla sua esemplare  ritirata strategica Beaulieu  aveva distrutto tutti i ponti di tale tratto e requisito tutte le barche.  L’agiografia storica e non solo quella napoleonica  si è sempre compiaciuta di mostrare la differenza tra i due Generali  Beaulieu e Bonaparte,  il primo  quasi un vecchio trombone ancorato a regole e condotte di guerra sorpassate  mentre il secondo portatore delle idee nuove dei tempi che di tali regole si facevano beffe, con differenti strategie:   prendendo a motivo   proprio questa occasione in cui il Bonaparte aveva ovviato alla distruzione dei ponti e  alla requisizione di tutte le barche  del tratto di confine con la Lombardia che Beaulieu aveva effettuato,  invadendo  il neutrale Ducato di Parma per attraversare il fiume a Piacenza  e trovarsi di fronte quindi a fronte dell’esercito nemico. Ma anche questa è più leggenda che storia, o perlomeno una gonfiatura:  difatti   Beaulieu dopo l’armistizio di Cherasco e la defezione del Piemonte, non aveva nessuna intenzione di accettare una battaglia campale con l’Armata  Francese, anche perché questa proprio in virtù della “messa in scena” che stava cominciando ad ordirsi del generale invincibile,  questi aveva  ricevuti notevoli rinforzi di uomini e materiali ed era in netta superiorità numerica: la verità è che Bealieu stava effettuando una perfetta ritirata strategica e per farla, ponendo il grosso del suo esercito al sicuro oltre l’Adda, aveva anche usato lo stesso stratagemma utilizzato dal suo più giovane antagonista: invadere uno Stato neutrale, nella fattispecie la Repubblica di Venezia. Quindi neppure quella di un nuovo modo di fare  le guerra secondo lo spirito della Rivoluzione,  che se ne irrideva di tutte le regole della guerra del XVIII secolo,  era una verità, tant’è che proprio un Generale di quella vecchia scuola l’aveva utilizzata senza problemi. La verità è che Napoleone fece mostra di una sorta di abbaglio, che tendera’ spesso a ripetere  e che già di per sé inficia quella nomea di grande stratega e generale invincibile che contemporanei e posteri gli hanno attribuita : non valutare con esattezza l’entità delle forze nemiche:  qui a Lodi si tratto’ di una sopravvalutazione,  ovvero scambiò una retroguardia per l’intero esercito nemico, a Marengo quattro anni dopo, si ebbe il netto contrario:  scambio’ l’intero esercito austriaco per una retroguardia. Ora, se nel primo caso lo sbaglio fu facilmente riparato ed anzi si potè, anche da parte del Direttorio,  gonfiare la cosa e farla passare per una grande vittoria, a Marengo se non ci fosse stata la disubbidienza di un suo  sottoposto il Generale Desaix che contrariamente agli ordini che gli erano stati impartiti, fece marcia indietro con le sue  due Divisioni, e le scaglio’ contro l’esercito nemico che già si era impadronito del campo di battaglia, sarebbe stata certamente la disfatta e non quella straordinaria vittoria, di gran lunga la preferita da Napoleone, caratterizzata da quella mitica frase non sua , ma proprio di quel generale Desaix che aveva disubbidito ai suoi ordini :   “una battaglia è perduta? c’è il tempo di vincerne un’altra!” frase che non si è neppure sicuri della sua effettiva pronuncia da parte del giovane Generale (era coetaneo di Bonaparte)   prima di perdere la vita colpito in pieno petto da una palla nemica appena slanciatosi alla testa delle sue Divisioni contro gli austriaci, frase   che  ovviamente fu fatta passare per vera, destinata a rimanere per sempre nell’immaginario dell’epopea napoleonica, anche se a ben vedere avrebbe dovuto rappresentarne la relatività. Torniamo quindi al cospetto di quella quasi magica entità che cominciava a seguire il Generale Bonaparte, la Fortuna e di certo una sua ancora più fortuita circostanza che metteva in correlazione le vicende belliche  del generale con le aspettative che il popolo francese si aspettava da lui e il  Direttorio che si premurava di confezionargliele  adeguatamente. Che questa ulteriore manifestazione della Fortuna non fosse, militarmente parlando, niente di così straordinario lo deduciamo dalla semplice cronologia degli episodi salienti della battaglia di Lodi : le avanguardie francesi arrivarono diffatti in vista di Lodi nelle prime ore della mattina del 10 maggio, quando ormai l'intero esercito austriaco era in salvo oltre l'Adda, mentre alla difesa della cittadina era, come abbiamo fatto cenno, rimasta  una retroguardia di 10.000 uomini agli ordini del generale Karl Philipp Sebottendorf. Questo aveva piazzato tre battaglioni e sei cannoni in posizioni che dominavano il ponte di Lodi e la strada d'accesso e altre due sezioni di tre pezzi l'una erano appostate in ogni lato della strada. Napoleone attaccò frontalmente  sul ponte con i Granatieri, mentre con un contingente di cavalleria cercava  di guadagnare un guado per aggirare gli austriaci: l’assalto  dei granatieri fu però fermato  proprio a meta’ del ponte, sicché il Generale Massena si vide costretto ad intervenire e con il concorso di altri generali Berthier, Dallemagne e Cervoni  riuscì a guadagnare la sponda opposta. Un contrattacco di Sebottendorf fece quasi riprendere agli austriaci il ponte, ma sempre il solito  Masséna cui si aggiunse l’apporto di un altro dei Generali in seconda di Bonaparte, Augereau, riuscì a stroncare  l'azione irrompendo nelle linee nemiche, favoriti i due comandanti in seconda dell’Armata nel pieno successo,  dal provvidenziale arrivo dei cavalieri del Gen. Ordener che nel frattempo avevano trovato un guado. Sebottendorf si disimpegnò subito e si ritirò verso il grosso delle forze di Beaulieu, lasciandosi dietro 153 morti, 1.700 prigionieri e 16 cannoni. I francesi ebbero in totale 350 perdite,  pertanto possiamo concludere  che  la  vittoria di  Lodi fu ben lungi dall'essere un grande successo così come fu subito rappresentata ed anche così come  è stata tramandata, difatti fu  conseguita su di una semplice retroguardia dell’esercito principale, il cui Generale subordinato Sebottendorf riuscì a disimpegnarsi con quasi tutte  le sue truppe per confluire nella perfetta ritirata strategica del comandante in capo Beaulieu, che a conti fatti non fu affatto quel pigmeo rispetto al gigante  cui la storia ha voluto tramandarlo. Da una parte Napoleone non fu esattamente quell’interprete straordinario di novello genio militare, cui proprio da quei tempi è stato cominciato ad additarsi; dall’altra Beaulieu, come abbiamo appena visto, fu tutto tranne che un incauto e sfortunato generale che ebbe a cimentarsi contro il “genio” per antonomasia , venendo battuto a ripetizione, ma un oculato stratega, magari non di fase offensiva, ma di certo un vero maestro di ritirate strategiche. Abbiamo visto che a creare, specie la prima di “leggenda” fu proprio il Direttorio per motivi di opportunità e convenienza: conveniva difatti ad un Organo di Governo, asceso così rocambolescamente al potere, senza alcuna leggittimizzazione legale e popolare, sfruttare le occasioni della Fortuna, quale si presentassero, per oscure e contraddittorie che fossero, ecco! proprio del tipo di un generale venuto dal niente, praticamente senza una carriera a sostegno, con un incarico avuto piu’ che altro per camarille “di letto” e che potesse essere investito di una gloria tutta da gonfiarsi, appunto fargli “recitare quella parte” che abbiamo ripreso dalle tesi di un vecchio e dimenticato storico e che oggi in una fase della storia del mondo, che questo “recitare una parte” sembra diventata una caratteristica non solo episodica o accessoria di “esser-ci”, dovrà essere argomento di approfondimento e dovrà essere sviscerata fino all’esaurimento. In effetti conveniva al Direttorio, conveniva a quel po’ di Rivoluzione che ancora accompagnava il Popolo francese, conveniva alla guerra in corso contro le coalizioni europee, conveniva anche alle finanze dello Stato, sempre in cerca di soldi, che un Esercito sul campo provvedesse a emettere tributi, fissare indennita’ di guerra, fare razzie e incetta di opere artistiche dei territori che via via occupava, il tutto da inviare sollecitamente alla madre patria: un qualcosa quindi, questa supposta grandezza che alla fin fine, come abbiamo visto dalle memorie dello stesso Napoleone della notte successiva allo scontro di Lodi, stava cominciando a far breccia, innanzi tutto su se stesso sulla sua particolare personalità che per la prima volta si sentiva come investito di un potere straordinario e che di lì a poco, possiamo stare tranquilli, tutti, ma proprio tutti, amici e nemici, popolino e grandi uomini, contemporanei e posteri, gli riconosceranno tutti, all’unisono. C’era uno dei punti elencati che dobbiamo esaminare con maggior dettaglio, strettamente correlato alla questione del recitare una parte e del gonfiarne i connotati : la questione del chiedere denaro come indennità ai vari Stati cui l’esercito si trovava a passare e operare razzie, un po’ a mo’ di vecchio esercito di ventura, in stretta associazione col suo impatto di minaccia e terrore verso le popolazioni: in questo Napoleone si cimenta alla vigilia della battaglia di Lodi invadendo la neutralità del Ducato di Parma, ma non solo limitandosi ad occuparne i territori e requisendo tutte le imbarcazioni per il passaggio del fiume, ma altresì fissando una indennità e operando ruberie. Ecco precisamente fa subito dopo, lo stesso, indentrandosi nel Milanese e anzi rincarando la dose, andandoci giu’ con mano molto più pesante: chiede al Ducato di Milano 20.000 franchi una cima enorme per il cui pagamento indubbiamente il Ducato non si sarebbe potuto esimere senza imporre una tassazione a tappeto di tutti gli abitanti, e non solo ma alquanto contrariato che il Direttorio gli ha imposto di cedere metà del comando della sua Armata al Gen. Kellerman, figlio del famosissimo generale della cannonata di Valmy del ’92, si lascia andare a lanciare proclami con minacce di saccheggi, plotoni di esecuzioni se non verra’ esaudito : In merito allo sdoppiamento dell’Armata come al solito ubbidisce anche se controbatte con una amara lettera ove più che alla divisione dell’Armata, si cruccia del fatto che non si pensi più a quella “manoeuvre sur le derriere” che era stata fissata dal famoso piano dei Generali del Direttorio di invasione della Germania nel 1795 (tra cui lui stesso) , ma unicamente a ricacciare in Tirolo gli Austriaci, cosa appunto che il Direttorio lasciava intendere di voler incaricare Kellerman e di converso, per lui, stabilire una sorta di raid per l’Italia centrale fino all’occupazione di Livorno che solo molto genericamente avrebbe dovuto fiaccare la resistenza dell’intero Paese ed anche di forze inglesi che lo presidiavano: la verità e’ che il Direttorio abbagliato dai proventi che gli arrivavano dalle incursioni del suo Generale, nei vari Stati italiani, non aveva altre raccomandazioni se non quelle di insistere in questa pratica di non solo “finanziare la guerra con la guerra” , ma fare assai di più : finanziare l’intera Francia di moneta sonante e altresì foraggiarla di opere d’arte, di magnificenze, di tesori. Così anche di quella suddivisione del comando d’armata, dopo la equilibrata ma ferma risposta di Bonaparte, che come si vede comincia a essere uno che sa il fatto suo, non se ne fa più nulla (ha troppo paura il Direttorio di perdere la sua gallina dalle uova d’oro) e anzi Kellerman è inviato in Italia con 10.000 uomini di rinforzo ma in sottordine a Bonaparte. Diciamo che dopo Lodi e con la presa di Milano, la Fortuna gioca sempre alla grande, però, e’ doveroso notare che il suo massimo beneficiario ci mette ogni volta qualcosa in più di suo : si d’accordo era stato un abile spauracchio per i vari per lo più imbelli Stati Italiani, ivi compresa la Repubblica di Venezia che il Direttorio si raccomandava di considerare potenza non amica e pertanto invadere con tutta tranquillità i suoi territori e richiedere le solite indennità e fare le solite requisizioni di tesori e opere d’arte, ma ora si slancia con foga contro la linea del Mincio verso Borghetto dove costringe Beaulieu alla sua solita ritirata strategica oramai nella valle dell’Adige tranquillamente verso il Tirolo, ma disimpegnando suoi 20 battaglioni alla difesa della estrema fortezza di Mantova che a questo punto, in quella seconda parte di maggio 1796 era l’ultima fortificazione austriaca di tutta la Lombardia. Neppure Borghetto era stata una grande vittoria, però come al solito aveva lasciato Napoleone padrone del campo e questo tradotto nel linguaggio per il Direttorio, significava altre cospique entrate, mentre da parte dello stesso Direttorio significava profferire ulteriori allori, sempre per quella parte da gonfiare e da fare recitare al più che volenteroso comandante in capo. Insomma parliamoci chiaro: il Direttorio diventa davvero quel punto di coagulo di tutte le operazioni che in qualche modo finiscono nelle sue casse e in qualche modo all’intera cittadinanza e quindi si fa anche cassa di risonanza in merito alle imprese di quel, fino a ieri sconosciuto Generale. Un destino fatto di alcune secondarie battaglie, parecchie scaramucce, una grande dose di fortuna, che si è compiaciuta di fissare la sua mano su di un paio di località e vere e proprie sequenze, magari prefissate di eventi, come la defezione Savoiarda all’Austria e l’armistizio di Cherasco, l’abbandono quasi senza colpo ferire di Ceva e poi del Ponte di Lodi presidiato solo da una retroguardia, mentre il grosso dell’Esercito era oramai al sicuro, Generali avversari, sia quello savoiardo Colli, che quello austriaco Beaulieiu, per nulla dominati dalla genialità del giovane comandante francese, ma che anzi erano stati più che altro degli abili tessitori di ritirate strategiche ed infine neppure messi in scacco dai tempi nuovi della Rivoluzione, con la leggenda che imponevano metodi e strategie diverse di guerra, senza rispetto di regole, osservanza di patti, rispetto di neutralità di Paesi non ostili, perché se questa fu una delle peculiarità di Bonaparte di certo il comandante austriaco non fu da meno, tant’è che, per ritirarsi oltre il Mincio non si curò minimamente di infrangere la neutralità della Repubblica di Venezia. Semmai, ecco si può dire che Napoleone lo fece molto di più, ma non ci illudiamo, in questo costantemente istigato dal Direttorio, che raccomandava di non considerare più alcun Paese neutrale, ma tutti alla stregua di possibili alleati del nemico e pertanto utilizzare la forza delle armi per indurre i pavidi, ma ricchi e floridi Paesi italiani a pagare tributi e a consentire il sistematico spoglio dei loro tesori e opere d’arte. La verità è che non è Napoleone, né nessuno dei suoi Generali e soldati, il responsabile dell’avventura italiana e delle sue immense conseguenze, dice ancora Ferrero, nel sistematico ragguaglio che la sua opera “Avventura” ha con il presente scritto: il responsabile è il Direttorio, il Direttorio, come abbiamo già osservato, organo direttivo e di governo illegittimo, il quale non potendo trovare alcun principio di diritto nel suo operare, ecco che all’improvviso lo aveva trovato in alcune secondarie imprese militari su di un fronte secondario, in merito ad una sua sorta di scommessa su di un generale sconosciuto che grazie anche a indubbi colpi di fortuna aveva colpito l’immaginazione delle folle. Bhe! superfluo dire che se quel Generale era frastornato, tutto il Direttorio quasi non credeva a quanto si stava compiendo sotto ai suoi occhi: la creazione di un Mito, in linea coi tempi di infatuazione romantica, dell’uomo solo e sconosciuto che in forza del suo talento, del suo genio, della sua grandezza degna di essere accostata ai più grandi condottieri, che trionfa su tutto e su tutti e non solo; ma a parte questa fama che difatti da Parigi comincerà a caldeggiare, a gonfiare ogni oltre limite, si profila questa straordinaria occasione di trarre, grazie al ricco e sguarnito serbatoio italiano, profitti immensi in una guerra che stava facendo ben più di quella medioevale delle compagnie di ventura, che come abbiamo osservato si finanziava da sola: questa è una guerra che per la prima volta nella storia, finanzia e arricchisce la Nazione che l’ha ingenerata. Possiamo a contrapasso di tal ragionamento, dire che la figura del giovane generale Bonaparte stava emergendo dalle brume della storia con caratteristiche invero uniche e inusitate: anche ai tempi di Roma c’era l’Homo Novus, Caio Mario, Agrippa, Seiano, Vespasiano, ma era sempre inserito in un contesto preordinato senza possibilità di essere troppo innalzato sulle masse se non con il meccanismo dell’adozione o di quello estremo della deificazione; per tutta la storia dell’umanità fino alla Rivoluzione Industriale, nessuno, se non eccezionalmente Capitani di Ventura, Banchieri, Magistrati che riuscivano ad ascendere alla guida di una Signoria, ma mai comunque a livello di Regno o di Impero, erano riusciti ad emergere in modo così netto: è con la Rivoluzione Industriale che ora per la prima volta si diparte questa nuova possibilità essendovi tutta un’altra serie di parametri in gioco : anzitutto quello fondamentale che non è più l’uomo il riferimento principale dell’essere al mondo, bensì la macchina: equiparato ad una macchina anche l’essere umano può essere oggetto di costruzione, di assemblaggio, di sostituzione, di demolizione, e questo attribuendogli anche una serie di qualità accessorie, tipo una bella coloritura, la lucidatura di condotti, materiali più pregiati etc. L’uomo viene espropriato della sua essenza ma assume il senso del suo apparire, ed ecco che, per favorire questo apparire, possono essere messi in campo tutta una serie di espedienti, la pubblicizzazione, l’esaltazione, la gonfiatura, spesso e volentieri del tutto arbitrarie delle sue gesta, o meglio quelle che si vuole che siano passate per gesta, quindi fargli “recitare una parte” e fare in modo che questo recitare una parte sia del tutto indistinguibile dal farla per davvero. Ferrero parla di strano destino che Napoleone Bonaparte sia stato nel contempo il più celebre e il piu’ sconosciuto degli uomini: un uomo che il mondo non doveva mai conoscere tale quale è stato, un uomo di cui si sarebbe visto un doppione creato dall’immaginazione credula delle folle: Io non credo che possiamo parlare di “strano destino” : è il destino dell’uomo moderno venuto fuori dalla Rivoluzione Industriale, venuto dalla sua identificazione con la macchina, il meccanismo, l’ingranaggio, che ha fatto si che oramai la sua identità non sia recuperabile se non nella molteplicità dei suoi apparire, nella proliferazione di sempre nuove “parti” che una società sempre più atomizzata e spersonalizzata non ha fatto altro che assegnargli in questi ultimi due secoli e mezzo. Siamo, da una parte con “l’uomo ad una dimensione” di Marcuse, ravvediamo l’insetto di Kafka, da lontano la Balena bianca di Melville, quindi l’eterno Dottor Faust alle prese con il Mefistofele di Goethe, che si fa la malattia commista però all’arte nel Doctor Faust di Thomas Mann, ma si ritorce in se stesso rispetto al potere costituito nel libro del figlio di Thomas, Klaus Mann: Mephisto . E’ l’uomo che non ha mai più ritrovato se’ stesso, perdendolo nella frammentarietà delle sue rappresentazioni e delle sue identificazioni, tutti quei “recitare una parte” hanno seppellito l’unica vera parte di se stesso, sicchè alla fine proprio come i personaggi di Pirandello, si ritrova anch’egli in cerca di autore.


venerdì 28 agosto 2020

RECITARE UNA PARTE (Prima parte)

Napoleon - Abel Gance

La storia è stata sempre falsificata e falsificabile. Questa domanda mi è stata solleticata dal ritrovamento di un vecchio libro di uno storico italiano Guglielmo Ferrero, non troppo conosciuto in quanto essendo antifascista e esule in vari Paesi, non è stato in Italia oggetto di capillare diffusione e attenzione;  diciamo “peccato” perché siamo in presenza di uno storico vero e molto originale, oggetto di grandi riscontri,  ma giustappunto non in territorio nazionale, ma nei numerosi Paesi in cui è stato esule ed ospite (Svizzera, Francia, Gran Bretagna , Stati Uniti) ;  il libro in questione  è del 1936 pubblicato in Svizzera,  si chiama "Avventura" e  tratta del prepotente ingresso nella storia, del giovane generale Napoleone Bonaparte con la campagna d’Italia del 1796/97, dove è avanzata la tesi che tale folgorante  ascesa non sia stata affatto dovuta a quel genio militare universalmente attribuito al personaggio e neppure a quella sorta di “hoc erat in votis”che trascende i dettami della storia, ma a tutta una serie di circostanze tra il fortuito e il fortunoso, ma anche un tantino al programmato, che fa si di individuare  un contesto preordinato e ben incanalato nei dettami di una precisa strategia sociale.  Le verità storiche  come quelle scientifiche  sono sempre relative e la campagna d’Italia del 1796/97 è stata universalmente considerata dagli storici come innesto della più straordinaria avventura del personaggio che l’aveva condotta, quel personaggio che 10 anni dopo, all'indomani della battaglia di Jena,  farà  scomodare  un  filosofo come Hegel  per  veder passare “lo spirito della storia “ :  e’ da due secoli e passa, appunto  che si racconta che la Campagna d’Italia fu il parto del solo cervello geniale di Bonaparte,  e che solo lui avrebbe potuto avviare un simile sconvolgimento, ma analizzando spassionatamente i fatti l’autore perviene alla constatazione che non è affatto così:  in effetti, specie nella prima parte della campagna non si ravvede alcuna variazione rispetto al piano studiato dal Direttorio per i compiti dell’Armata: va notato difatti,  che all'incirca  dalla meta’ dell’anno precedente all'assunzione del comando dell’armata di Bonaparte il Direttorio in collaborazione con il Comitato Topografico Militare e una serie di giovani Generali, di cui faceva parte anche lui il ventiseienne  Generale di Divisione Napoleone Bonaparte, aveva elaborato un piano d’azione sia tattico che strategico  per la non troppo considerata Armata d’Italia. Sotto il profilo tattico il primo obiettivo doveva essere la città e fortezza di Ceva che doveva essere attaccata  da due lati delle forze d’Armata , la prima lungo il Tanaro, la seconda  da Savona, per poi proseguire nella direttiva di separare le forze austriache da quelle piemontesi e procedere verso la Lombardia . Le linee strategiche per l’Armata del Piano del Direttorio, però non riposavano in Italia, ma prevedevano l’invasione della Germania  attraverso l’Italia,  e Napoleone come si e’ detto, faceva parte del gruppo di Generali che aveva ideato tale piano in un periodo in cui non aveva ancora alcuna idea che sarebbe stato proprio lui quello che sarebbe stato incaricato di  dargli  fattualità.  Questo punto è di capitale importanza nel ragionamento che stiamo seguendo :  dove è che finisce la la storia e dove è che comincia il mito???? perché in effetti  siamo in presenza della nascita di un  mito, anzi a tutti gli effetti il più inossidabile mito dell’era moderna, un’era nata appunto nata come Rivoluzione delle macchine che aveva avuto in precedenza  qualche prodromo di personalizzazione ( Federico II di Prussia, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, qualche musicista, tipo Mozart e  Beethoven o magari filosofi o studiosi d’eccezione tipo Liebniz, Newton, Kant) , ma che troverà in questo piccolo insignificante uomo, che in altri periodi, se non avesse incappato in una serie di sconvolgimenti sociali del calibro della Rivoluzione Francese, sarebbe rimasto un oscuro ufficialetto gratificato al massimo del grado di Maggiore. E’ notorio come praticamente tutti,  anche coloro che non lo avevano particolarmente amato (il manzoniano “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”) finissero per esaltarlo, appuntandosi anche su particolari non troppo dissimili dal conformarsi delle nuvole ad una apparente madonna in cielo, per uno stuolo di fanatici e suggestionabilissimi religiosi : nel 1840 quando in una giornata invernale nuvolosa e uggiosa fu traslata la salma dell’Imperatore da sant’Elena per essere tumulata nella Chiesa des Invalides, ecco che all'improvviso uno splendente sole sbucò dalle
nubi per illuminare il feretro e le ali di folla che l’accompagnavano lungo les Champs Elysees, e simultaneamente si levò dalle folla un grido che squarciò il silenzio …“LE SOLEIL D’AUSTERLITZ !!!!!” e come d’incanto ritornare la magia dell’Impero, dei bollettini delle battaglie, i gagliardetti, le insegne, le fiammanti uniformi della Vecchia Guardia. Per spiegare tutto questo, cogliendolo proprio dal suo inizio, l’autore del libro “Avventura” Ferrero, parla appunto di un non meglio precisato “spirito di avventura” una sorta di smania che fa da correlato nel genere umano specie da quando il suo baricentro si è spostato dall'interno di sé stesso  ad un qualcosa di esterno:  la macchina il prodotto della cosiddetta rivoluzione industriale ;  e’ un smania che sostituisce la ripetitività, la routine, cui lo spostamento di indice referenziale appunto dall'interno all'esterno di sé, in una protesi di tutte le sue capacità , della sua stessa essenza,  spinge l’umanità, da una parte con impazienza, ma dall'altra con riluttanza, a uscire dal momento presente, per andare a cercare qualcos'altro in un altro tempo,  in un altro spazio, appartenente non più alla realtà, ma all'immaginazione; non è un tempo presente, ma non è neppure un tempo passato, ne’ tanto meno un tempo futuro in una semplice modalità desiderante: è un altro tempo, non semplice, ma composto e molto più complesso, un tempo che può trovare applicazione in un mondo matematico di perlomeno cent’anni antecedente alla Rivoluzione Industriale, che due grandi studiosi avocarono a loro ideazione  Leibniz e Newton : il calcolo infinitesimale!  Di cosa si occupa il calcolo infinitesimale di tanto importante e di  tanto inerente ai tempi che verranno fino ad essere ancor oggi uno dei calcoli più largamente impiegati per addivenire a risultati della massima utilità non solo teorica, ma anche pratica? di  andare a definire quel particolare “punto/momento/emozione” in cui uno stato si trasforma in flusso, un cambiamento che compatibilmente al suo far parte di tutto l’insieme dei numeri complessi, ne comporta anche l’impiego del sottoinsieme dei numeri immaginari, ovvero proiezioni di numeri negativi. Lo spazio/tempo e flusso, farsi cioè quel “sarà stato “ che rappresenta una modalità trascorsa e nel contempo “ri-assunta”, per dar luogo ad un avvenire, che fa leva sugli immaginari, tutti gli immaginari possibili, dove la realtà si piega alla fantasia e anche alla manipolazione, abbisognando non solo del calcolo infinitesimale e di tutto l’insieme dei numeri complessi, ma altresì della capacità di persuasione della nuova grande arma della Rivoluzione Industriale : la stampa, i mezzi di informazione, tutto quello che più tardi verrà denominato “Mass media”
La tesi del libro di Ferrero che assume un che di inquietante nella correlazione con quanto sta accadendo oggi, non nomina il calcolo infinitesimale, né le derivate complesse che impiegano anche numeri immaginari, ovvero proiezioni di negativi -1, -2, -3, -n, con i quali si intende quella mancanza, debito, carenza , etc, che proprio grazie alla proiezione assolve ad una funzione di compensazione più che verosimile, così come non nomina la fondamentale differenza tra Leibniz e Newton proprio su tale calcolo infinitesimale, laddove per il primo i fenomeni e la stessa essenza umana erano ascrivibili ad una una sorta di “forza viva” (vis viva ) che ha più a che fare con la reazione e in qualche modo il tentativo di padroneggiare il cambiamento epocale dell’introduzione della macchina, da parte dell’uomo e ingenererà quella reazione alla massificazione rappresentata dall'Illuminismo, mentre il secondo, che era più fisico e meno filosofo, tendeva a stabilire relazioni di grandezza e velocità tra uno o più punti, che lui chiamava flussioni, e dal cui calcolo, di tali “flussioni” che poi vennero chiamate “derivate” si può prendere l’antefatto della piena riuscita di quel cambiamento di soggetto referenziale di essenza del mondo, che la Rivoluzione Industriale realizzerà tra uomo e macchina. Si tratta a ben vedere per entrambi di maneggiare un infinito potenziale, ma per ognuno dei due ecco che si prestava a individuare un potenziale infinito interno o un potenziale infinito esterno, ognuno con una sua particolare inclinazione e che in correlazione coi grossi cambiamenti che la Rivoluzione Industriale stava ingenerando, produrrà immediatamente degli effetti di significazione : da una parte quella di Leibniz, che è come si è fatto cenno, può ascriversi tutto il movimento filosofico dell’Illuminismo (il secolo dei lumi) dall'altra quella di Newton che rappresenta invece quel meccanicismo che riuscirà compiutamente a trasferire l’indice di riferimento generale di essere al mondo dall'uomo alla macchina, ovvero dall'interno di sé, all'esterno di se’ Ora come è noto, la storia scientifica ha deciso a favore del secondo , superando con relativa facilità la stimolante idea dell’Illuminismo, eppure intorno all'inizio del XX secolo cioè più di trecento anni dopo, la teoria della relatività di Einstein afferma che in ogni oggetto materiale c'è una energia intrinseca che dipende dalla sua massa e dal quadrato della velocità della luce, la celeberrima formula E = mc2. sembrerebbe quindi che Leibniz abbia intuito e prefigurato la teoria della relatività , con la sua "vis viva" alla quale aveva dato un indice mv2, ovvero massa per il quadrato della velocità identificandola appunto come energia vitale comune a tutti i corpi materiali e spirituali ; e non è solo Einstein che Leibniz con questa sua intuizione di forza univoca di spirito e materia, appunto questa vis viva, ha anticipato, ma tutte le formulazione della Fisica Quantistica, da Maxwell a Bohr a Heisenberg , Scrhodinger , Bell, Dirac , Feynman etc. introducendo quindi nella fisica teoretica un qualcosa che mai e poi mai sarebbe stato concepibile con Newton, ovvero che la psiche umana, non solo la coscienza ma anche un inconscio, si proprio quello scoperto per indizi di significazione da Freud, abbiano una parte fondamentale nella comprensione delle problematiche relative all'osservazione dei fenomeni quantistici stabilendo una interazione tra chi osserva e ciò che viene osservato. Qual è la tesi del presente scritto, dedotta dal saggio citato ? Che gli storici, o meglio i cronachisti francesi di quel biennio 1796/97 abbiano di proposito utilizzato il calcolo infinitesimale di Leibniz, con tanto di derivate costituite da numeri immaginari (nel senso di proiezioni di numeri negativi ) integrando quella leibniziana “Vis viva” con il generico “spirito di avventura” che l’autore del saggio poneva a generico e irrazionale motore del movimento e cambiamento dei concreti eventi e fatti reali. Quasi casualmente o perlomeno sul concorso di varie circostanze fortuite, questo tipo di calcolo tra il reale e l’immaginario, si sarebbe andato appuntando su di un singolo personaggio, neppure troppo dissimile da altri: un giovane generale, quando la giovane età era più una norma che un’eccezione tra i quadri militari venuti  a formarsi con la rivoluzione, con al suo attivo un’efficace operazione di polizia (la repressione di una insurrezione realista alla Chiesa di san Rocco), e la fama di essere abbastanza esperto di movimenti di artiglieria (4 anni prima nella presa di
Tolone e del forte dell’Eguilette), ma soprattutto la riconoscenza di uno dei più influenti membri del Direttorio Paul Barras del quale sposandone la ingombrante amante Josephine De Beauharnais gli aveva tolto una enorme preoccupazione e ne aveva avuto, da questi proprio il giorno del matrimonio 2 marzo 1796, un eccezionale regalo di nozze: il comando dell’Armée d’Italie. Ora francamente non ce li vedo i compilatori delle cronache nelle vesti di “piccoli Leibniz”, ma il punto è che determinate scoperte finiscono per entrare nelle menti delle persone, così del tutto impercettibilmente, e anche i più astrusi ragionamenti matematici finiscono per entrare a far parte delle sensibilità delle genti; così quella generica sostituzione di paradigma referenziale tra l’uomo e la macchina che aveva già prodotto la reazione intellettuale dell’illuminismo e quella della violenza sanguinaria della rivoluzione francese, andava sempre più abbisognando di una razionalizzazione che chiedeva urgentemente un salto di fantasia, non più per un intero collettivo ma per un singolo che potesse rappresentare l’esigenza di novità forzando i dettami di una realtà che abbisognava che si conformasse a parametri di eccezionalità, di quasi totale contrasto tra reale e immaginario. Proprio come una macchina, i cui pezzi si possono cambiare, sostituire, riassemblare , anche l’uomo, questo Homo Novus non più rappresentante della sua essenza ma con di volta in volta espropriato a favore di una sua continua riproposizione  deve conformarsi alle stesse esigenze ed è parimenti importantissimo, anzi fondamentale che tali peculiarità vengano rese ben evidenti, palesate continuamente, ostentate: nasce dall'immaginario, la pubblicità dell’uomo e della sua azione, del tutto simile a quella di un qualsiasi altro prodotto. L’uomo diventa equiparabile non solo ad una macchina, ma anche ad una merce . Tutto si costruisce, tutto si cambia, tutto si vende e tutto si compra Napoleone Bonaparte è in tal senso una sorta di prototipo: le sue peculiarità sono da manuale: piuttosto oscuro, venuto dal nulla, poca distinzione, persino un fisico non aitante, di bassa statura, e caratterialità introversa, ombrosa;  di converso però una fortissima  disponibilità al compromesso, ambizione sfrenata, pochi scrupoli, nessuna preoccupazione del futuro, ma tutto orientato al successo immediato, ecco la quintessenza di quel che serviva in tempi come quello di post rivoluzione per porre una fine costruita, diremmo oggi virtuale e non reale,  ad un qualcosa che deve essere ricondotta nei dettami della normale quotidianità. Nasce la pubblicità e nasce altresì la spettacolarizzazione di un evento che l’uomo deve interpretare come un attore interpreta una parte, ed ecco difatti che con la Rivoluzione industriale cominciano a delinearsi oltre questa figura, diciamo così incanalante, anche tutta una serie di altre figure che lo sostengano : scrittori, giornalisti, biografi, estimatori, ma anche oppositori e critici, e vere e proprie entità, che diverranno  i cosidetti mass media. Benvenuti quindi  nella nostra era moderna e benvenuti anche in quest’era contemporanea che però con l’esasperazione di alcuni suoi meccanismi ha portato al parossismo il meccanismo del calcolo infinitesimale di Liebniz , dove non possiamo più parlare di “vis viva” ma di totale controllo da parte delle  classi dominanti  e quindi un reiterato attacco alla Libertà individuale, attacco che avrà di volta in volta le peculiarità di maggiore controllo delle masse attraverso  il meccanismo  della falsificazione e della mistificazione e vieppiù quello di un continuo stato di paura, cui la stragrande maggioranza delle masse va mantenuta : paura che un tempo poteva essere mantenuta con un impianto di punizione divina, ma che ora abbisogna di un qualcosa di più riscontrabile anche se con i medesimi meccanismi di astrazione e di in-definizione : uno stato di salute continuamente compromesso dall'emergere di quel fantasma della malattia e del contagio, cui solo l’affidamento ad un qualcuno che si avoca la responsabilità di gestirlo ne potrà assicurare la cura e la guarigione Ne sono manifestazioni : l’eccessivo scollo tra realtà e immaginazione, un consumismo sfrenato con mercimonio dilagante, personaggi sempre più mediocri che cercano di avocarsi le caratteristiche che un tempo erano peculiarità di uno solo o pochissimi, democratizzazione delle derivate immaginarie, tentativi di superamento del confine tra reale e immaginario con fini di asservimento della maggioranza della popolazione ai dettami di pochissimi, come stiamo in questo preciso momento subendo (2020) e i cui tratti ispiratori non riposano nella realtà, ma nella letteratura fantascientifica di tipo apocalittico alla Orwell, alla Huxley, alla Breadbury. 
Sul principio del “recitare una parte” è  importante realizzare la ricostruzione tutta virtuale di un personaggio fuori le righe, costruito a bella posta con tratti  quasi sovrumani,  ma opportunamente scelto  dalla compagine meno rappresentativa della Società, sicché ognuno nel suo uniformarsi a questi ne avrà per così dire quasi un ritorno in termini di possibilità : una democratizzazione  dell’eccezione : i 5 minuti di celebrità di cui tutti secondo Andy Wharol hanno diritto, in questa nostra era di ipercapitalismo di sfrenato  consumismo, dove all'era delle macchine è subentrata l’era delle apparecchiature informatiche e cibernetiche;  non più il braccio, le mani,  il corpo, la fatica fisica, ma lo stesso pensiero umano, la mente, divengono l’oggetto dell’espropriazione. L’operazione  ha una origine, una prima volta e seguiamo lo storico Guglielmo Ferrero  che ci fa appropinquare a quel marzo 1796 in cui il Generale Napoleone Bonaparte con quel po’ po’ di regalo di nozze  del comando dell’Armata di Italia  giunge  alla tenda del comando  a Nizza , ricevuto dai tre generali che fino a quel momento si erano divisi il comando delle operazioni , tre generali di molta più esperienza della sua : il savoiardo André Massena 43 anni ex sottufficiale dell’esercito savoiardo , alto aitante, volitivo, salito velocemente di ruolo e di grado con a rivoluzione e all'attivo parecchi fatti d’arme che lo gratificavano già allora dell’epiteto di “Invincible”,  il Gen Charles Pierre Augereaux 39 anni di Parigi nato nella popolare strada di rue Mouffetard ex soldato ed ex disertore per aver ucciso in duello un ufficiale, soldato di ventura di vari Regni, tra cui anche quello dei Borboni napoletani,  era ritornato a Parigi durante a Rivoluzione e si era arruolato come Sergente nella Guardia Nazionale per poi salire velocemente i gradi di ufficiale dell’esercito nella repressione della rivolta della Vandea e venir nominato Generale a 36 anni, il Gen. Jean Mathieu Philibert Serurier  54 anni , l’unico proveniente da una regolare carriera militare di ufficiale,  essendo di  provenienza dalla piccola nobiltà:  aveva partecipato alla guerra dei 7 anni e a campagne in Hannover e Portogallo, oltre ad aver preso parte ad operazioni contro Pasquale Poli in Corsica , l’idolo di gioventù di Napoleone; all'inizio della Rivoluzione aveva il grado di Maggiore e nel ‘93 veniva promosso Generale . Tutti e tre come si vede, avevano molti più titoli ed esperienza  del giovane Generale Corso e difatti lo avevano accolto non propriamente con rispetto, voltandogli  sprezzantemente le spalle,  o perlomeno questo è quel che è passato alla storia e che  viene riportato in un film che per molti versi rappresenta una specie di inverazione filmica del processo di creazione del personaggio:  NAPOLEON.  In tale film difatti molte delle scene paradigmatiche che avevano costruito il mito del generale Nessuno divenuto il generale Meraviglia, sono riportate fedelmente; fedelmente si, ma non alla realtà, bensì a quell'immaginario con il quale si sarebbe dato inizio al mito, non ultima questa scena  appunto dell’ingresso del giovane generale nella tenda comando  con i tre sopracitati generali ripresi appunto di spalle . Cosa succede ? ecco che si vede Bonaparte  scaraventare la sciabola sul tavolo costringendo i sottoposti a voltarsi e quindi fissarli , uno alla volta diritto negli occhi,  fino a imporgli di levarsi il cappello. Siamo nella quintessenza di quando un film che dovrebbe interpretare la storia si fa esso stesso storia: Napoleon  di Abel Gance che doveva consegnare alla Settima Arte la ratifica di un mito così come era pervenuto  da quel meccanismo di esaltazione  messo in evidenza dallo storico Guglielmo Ferrero, è forse il  film  più mancato della storia del cinema,  difatti, essendo tale film del 1927, la diffusione del sonoro ne bruciò  il colossale potenziale di successo e diffusione  :  forse proprio a causa di questo mancato, in questa sua riproposizione  dopo oltre mezzo secolo lo scenario di ambientazione era quanto mai  caricato:  da un triplo schermo a  Massenzio, in piena atmosfera di quell'Estate Romana voluta dal sindaco Argan e dell’Assessore, nonché amico personale di chi sta scrivendo queste note,  Renato Nicolini che mi aveva convocato, conoscendo la mia passione e discreta competenza di cinema, per chiedere un parere su cosa ne pensassi di quel film;  io capirai con la mia sempiterna cultura per il “mancato” mi ero prodotto in un vero e proprio

panegirico, tanto più che c’era la concretissima possibilità che venisse a presenziare lo stesso regista Abel Gance, oramai novantenne, che per come erano andate le cose su quel capolavoro per differita, si collocava in pieno in tale spirito. In effetti quel film, Napoleon aveva tutte le peculiarità di quel grande mancato di cui spesso, opere, persone, eventi, addirittura città e civiltà, sembrano venire intessuti. Realizzato con grandissimi mezzi intorno al 1927, doveva oscurare tutti i grandi colossal usciti fino ad allora, era però apparso, come e’ stato accennato,  sugli schermi proprio quando la provocante voce di Al Johnson disse la famosa frase “Signori non avete ancora sentito nulla!”.  Lo disse Groucho Marx “un film è assai meglio della realtà” , così era anche quel film, per concezione, ampiezza di vedute, tecnica cinematografia con dissolvenze incrociate, carrellate fantasmagoriche, effetti di fotografia, uso di viraggi in relazione alle scene.. “pensa” avevo detto a Renato Nicolini “ non è affatto vero che Estasi con Hedy Lamarr è stato il primo film dove si vede un seno nudo di donna, nella grande festa del ballo per la fine del “terrore” di Robespierre e Sain-Just, c’è una scena di ballerine che danzano tutte allegramente a busto scoperto. Ora Abel Gance novantenne era lì in prima fila, nelle poltrone di Massenzio, omaggiato da tutte le autorità e anche dal sottoscritto, che era in fibrillazione nello stringere la mano ad un simile “campione” del mancato, questa volta non tanto alla storia, quanto allo spettacolo, ma, che questa volta, la realtà gli aveva dato la sua rivincita. L’entusiasmo del pubblico alla rappresentazione, i tre schermi con i riflettori che sul finale dividevano la luce nei colori della bandiera francese, manco a dirlo con la musica della “Marseillese”, furono qualcosa di epocale, in quella splendida notte romana.
Lo vedi che strano, la realtà a volte concede qualche rivincita, ho detto sempre che forse noi sulle generali viviamo un po’ troppo e che per lo più siamo destinati ad essere superati dalle cose del mondo, ma di certo il vecchio Abel Gance quella sera non sarebbe stato del mio stesso avviso, glielo si leggeva negli occhi di vegliardo, dove si intravedeva il lampo dell’orgoglio di aver fatto un qualcosa che, d’accordo , il botteghino e quindi lo spettacolo in genere, aveva condannato come fallimento, ma non all'oblio. Lo ripeto fino a pochissimo tempo fa nessuno mi avrebbe convinto del contrario, il film che in quel fantasmagorico scenario ci  incollò tutti a fronte di quel triplice schermo, ove come un fantasma aleggiava  in una sorta di dissolvenza tra realtà e immaginario  la veneranda figura del suo autore, in poltrona d’onore lì nella rappresentazione,  ma anche  ben dentro l’immagine filmica  nella accattivante parte che si era scelto del  terribile “angelo della morte” Saint Just.  
L’attore che impersonava Napoleone nel film Albert Dieudonné era perfetto nella parte, si ma quale parte? quella che la storia ha voluto tramandarci, ma non certo quella della  realtà dove  un ubbidientissimo  giovane generale  praticamente con un quasi nullo curriculum,   si accingeva goffo ed impacciato a recitare appunto la parte di esecutore di un piano che aveva ben altri ideatori e di certo  del tutto inconsapevole di quello che un mélange di caso,fortuna, necessità, e anche fortuna gli stava apparecchiando, e che magari qualcuno avrebbe chiamato storia ;
 a pensarci bene è sempre un pò così! non è forse vero che siamo sempre costantemente superati dagli eventi che dobbiamo vivere?, la nostra stessa struttura anatomica è congegnata di tal fatta, abbiamo gambe per camminare e alla bisogna, correre, verso dove? verso qualcosa, braccia per cogliere…mani per afferrare e un cervello per pensare…prima: pro-tendersi, pro-gettare, pro-porre…. tutto quel benedetto “pro” che guarda un pò è giusto il prefisso del nome di quello che ci ha fatto questo regalino: il mitico Prometeo, dove quel “pro” è unito alla forma “methes” del verbo “mantano” = io penso: e quindi Prometeo è “colui che pensa prima” in anticipo, proprio come cerchiamo di fare noi. Eh già, ma su cosa è fondato tutto questo “pro”? su di un furto! un furto agli dei, che permalosi come sono non l’hanno presa per niente bene, e a parte i risvolti più o meno truculenti verso l’autore di quel furto (roccia del Caucaso, catene, aquila che rode il fegato) e anche verso di noi (il taglio che separa l’essere umano, prima “amphiteroi in due parti distinte (dia-boliche) blandamente spinte dal dio Eros alla ricongiunzione (simbolica), hanno fatto in maniera che noi fossimo appunto costantemente superati dalle cose che desideriamo; per questo forse i latini hanno coniato la parola desiderio (de sidera) ovvero essere intorno, dalle parti, nei pressi, nei paraggi di dove dimorano le stelle che non sono affatto fisse, anzi per il solo dato di presentarsi alla nostra vista, esse debbono essere già estinte da milioni di anni. Paradossale dunque che il vecchio Abel Gance abbia avuto il suo “successo” cinquanta  e passa anni dopo, ma anche paradossale che noi comuni mortali siamo sempre lì a combattere con le cose del mondo e l’unico modo per impadronircene veramente è forse quello del ri-assumerle, non nella realtà , ma in una sorta di immaginario, dove, come la riedizione di Napoleon a Massenzio, quello che conta, non è come siano andate veramente le cose, ma come le reinterpretiamo noi, come ri-mettiamo il tutto insieme , ovvero con una operazione “simbolica”. Ordunque a parte le scene della tenda con la sciabola sbattuta sul tavolo e probabilmente anche il famoso discorso, ben illustrato nel film,  che il nuovo Generale tenne alle truppe “ Soldati siete laceri e malnutriti. Il governo vi deve molto, e non può darvi niente. La vostra pazienza, il coraggio che mostrate in mezzo a queste rocce, sono ammirevoli, ma non vi daranno la gloria …. Io voglio condurvi nelle più fertili pianure del mondo. Ricche province, grandi città saranno in vostro potere. Vi troverete onore, gloria e ricchezze. Soldati d’Italia, mancherete dunque di coraggio e determinazione?». Cosa fa il nuovo Generale  appena arrivato? Esegue alla lettera il Piano che il Direttorio aveva  ricalcato sulle Mémoire de l’Armée D’Italie, redatto l’anno precedente, da un gruppo di giovani generali di cui anche lui aveva fatto parte, uno dei tanti, non certamente il più importante , soprattutto non quello che sarebbe stato destinato a eseguirlo. Si è fatto cenno a questo Piano ora è il momento di approfondirlo un tantino :  sotto il profilo tattico, il primo obiettivo doveva essere la città e fortezza di Ceva che doveva essere attaccata  da due lati delle forze d’Armata, la prima lungo il Tanaro, la seconda  da Savona, per poi proseguire nella direttiva di separare le forze austriache da quelle piemontesi e procedere verso la Lombardia . Le linee strategiche per l’Armata del Piano del Direttorio, però non riposavano in Italia, ma prevedevano l’invasione della Germania  attraverso l’Italia,  e Napoleone esegue alla lettera le disposizioni :  fissa il suo Quartier Generale d Albenga ed comincia col volgere la sua attenzione a Ceva, primo obiettivo posto appunto dal Piano e la riprova è data dal suo recarsi  il 9 aprile 1796 nella Valle del Tanaro per parlare con Serurier che comandava quel settore, neppure prendendo  in considerazione una offensiva dalla parte di Montenotte, dove si badi bene sarà trascinato a reagire non operando da attaccante, ma da attaccato: attaccato  dall'ala sinistra dell’esercito austriaco che riusciva a sorprendere i francesi conseguendo alcuni vantaggi territoriali in direzione  del colle di Cadibona e Savona: così crolla uno dei miti più inossidabili della aurea napoleonica : che lui sia arrivato e paffete come d’incanto successi a ripetizione : Dego, Millesimo, Cairo Montenotte. In verità furono gli Austriaci a dare inizio alla Campagna d’Italia in quell’aprile 1796  e le controffensive che  portarono alla vittoria di Cairo Montenotte il 12 di aprile,  furono merito non tanto di Bonaparte quanto  dei Generali Massena e Leharpe che erano accorsi prontamente. Altro particolare spesso sorvolato dagli storici, specie quelli meno approfonditi e anche il nostro famoso film Napoleon, (che su queste prima battaglie della campagna d’Italia, chiude  la sua visione, facendo aleggiare sullo schermo tricolore, lì a Massenzio, un’aquila volteggiante a simbolo della gloria , lasciando intendere di voler continuare la narrazione in una parte successiva) , fu che  subito dopo la vittoria di Cairo Montenotte, Napoleone ritornò al piano originario del Direttorio, ovvero l’attacco di Ceva e quindi lasciò  lo scontro cogli austriaci per preferenziare quello coi Piemontesi;  fu addirittura ipotizzato che Bonaparte disubbidì al Direttorio  nel non continuare lo scontro verso gli austriaci, ma è una di quelle, diremmo oggi fake news da manuale : il Direttorio  non aveva mai ordinato a Bonaparte di inseguire gli Austriaci  ed anzi aveva tassativamente ordinato di non fare alcun movimento se non prima di aver occupato Ceva. Nei giorni seguenti Napoleone  operò contro i due eserciti,  quello austriaco che era stato sconfitto a Cairo Montenotte e quello piemontese che presidiava Ceva e la valle del Tanaro, su più direzioni,  nei combattimenti un po’ altalenanti di Dego, Millesimo, dove alla fine i francesi finirono  per avere la meglio e solo quando fu  tranquillo rispetto agli austriaci, il 16 aprile  si girò  verso Ceva prendendola d’assalto, ma venendo sanguinosamente respinto . Ora va sottolineato come tale ultima operazione, appunto l’occupazione della fortezza  di Ceva, ha sempre fatto storcere il naso agli storici, specie quelli agiografici di Napoleone:  difatti attaccare di petto un campo trincerato, anche se era espressamente e tassativamente stabilito dal Piano del Direttorio, non è propriamente una di quelle azioni che un buon generale, figuriamoci uno che diventerà Napoleone, farebbe mai, per cui tutti si sono chiesti  come sarebbero andate le cose, se il giorno seguente Colli il comandante in capo dell’esercito piemontese  avesse difeso la città? Cosa aveva portato Colli ad abbandonare il campo trincerato ed evacuare la cittadina  lasciandovi solo una piccola guarnigione che sarebbe capitolata pochi giorni dopo, facendo di fatto i francesi padroni del campo senza ferire??? Ecco qui si entra in un campo appunto dove storia e fortuna si confondono, ma anche lasciano uno spiraglio di “altra” necessità che forse risente di fattori che nessun piano precostituito può prevedere. Fortunissima ovviamente per il giovane Generale che si trova questo inaspettato regalo e per la prima volta va parzialmente  contro le direttive di Parigi non rimanendo a Ceva, ma inseguendo il nemico. Il punto è che alcuni documenti ritrovati anni dopo, mostrano che le direttive del Piano del Direttorio non erano poi così assolute, si legge difatti in una di queste “Istruttorie” : “ il Direttorio  lascia al Generale in capo la libertà  di dirigere le operazioni sia che ottenga vittoria completa , sia che il nemico si ritiri verso Torino e l’autorizza a dar ancora battaglia, fino a bombardare la capitale,   se le circostanze rendessero questa azione necessaria “. Come dice giustamente Ferrero si ravvede il linguaggio ovattato del Direttorio,ovvero non ordinare mai, non imporre alcunché, ma sempre proporre, suggerire, consigliare, spingere cioè il generale ad ardire, ma senza forzarlo si dal non rimanere coinvolto in una sconfitta, sconfitta che 2 giorni dopo il 19 aprile doveva puntualmente arrivare in una forte posizione che proteggeva la ritirata delle truppe di Colli, quella di San Michele; nessuno, o quasi,  ha mai sentito nominare questa battuta d’arresto nella trionfale marcia dell’Armée d’Italie e del suo giovane generale, che pure fu  addirittura più grave di quella di Ceva,  tanto da costringere il Bonaparte a convocare il Consiglio di guerra. Però a questo punto, la riesamina dei fatti puramente militari:  vittorie, sconfitte, assalti, inseguimenti , battute d’arresto, deve caricarsi di qualche altra valenza ed  andare un po’ più a fondo di quella  generica indicazione di fortuna che starebbe lì a fare da rimpiattino tra caso e necessità. Come mai Colli comandante dell’esercito piemontese si comportò in maniera così contraddittoria:  respinge il nemico, lo vince addirittura, ma non ne approfitta, anzi si ritira abbandona campi trincerati e però si assicura la ritirata sempre rintuzzando gli attacchi, come successe ancora il 21 aprile a Mondovì vicinissimo Torino;  d’accordo questa volta le cose andarono un po’ meglio per i Francesi, ma non impedì comunque a Colli e l’esercito di raggiungere Cherasco il 24, giusto ove dopo velocissimi preliminari, il 28 aprile la corte sabauda di Torino  richiedeva  un armistizio per negoziare una pace separata con la Francia, il tutto con  l’esercito austriaco appena  a due giorni di marcia da tale cittadina. Cosa c’ è dietro questo contraddittorio comportamento  dei Piemontesi, del suo esercito e generale in capo, e del suo Re? Ripetiamo che gli storici specie quelli di marca napoleonica, quelli che come il nostro regista Gance, hanno contribuito a diffondere il mito del generale infallibile, vero grande genio sia tattico che strategico, l’unico dell’era moderna paragonabile ad un  Cesare, ad un Mario, ad uno Scipione, ad un Alessandro, sono sempre stati particolarmente imbarazzati nel descrivere le fasi di questa improvvisa richiesta di armistizio da parte del Regno di Sardegna ad una Francia la cui Armata non ne aveva mai seriamente impegnato le sue truppe:, Colli non era mai stato battuto in campo aperto,  il suo esercito non era affatto disfatto e neppure  era stanchissimo come i manuali di storia oramai riportano con quasi monotona  litania;  anzi se vogliamo essere franchi, erano i francesi ad essere molto più stanchi . Si deduce quindi che la Corte di Torino non chiese la pace perché non poteva, ma semplicemente perché non  voleva più, combattere. Politica non strategia.In verità se si va un po’ più sul profondo si evince che quell'alleanza con l’Austria, al Regno di Sardegna non era andata mai giù, fin dalla sua stipulazione nel dicembre 1795: i motivi che l’avevano  indotta erano sul proseguo della coalizione contro la Francia rivoluzionaria che giustappunto in quel periodo  era in procinto di attaccare in Italia con la sua Armata apposita, anche se in verità con un compito di solo passaggio per prendere alle spalle la Germania e congiungersi colle truppe impegnate sul grande fronte austro-tedesco, che erano sotto il comando del Gen. Moreau un Generale di grande esperienza e con un notevole curriculum di battaglie e vittorie , non certo uno sconosciuto novellino come Bonaparte. L’arrivo in Piemonte di un contingente austriaco di 10.000 uomini comandate dal Gen Beaulieu era stato quindi visto a Torino  come un protezione dalle mire francesi , ma quando questi aveva attaccato appena pochi giorni dopo l’arrivo del nuovo comandante appunto il Gen.Bonaparte, (ecco una cosa che troppo spesso non viene sottolineata adeguatamente : non fu Napoleone a iniziare la campagna d’Italia, sul proseguo, magari del famoso discorso alle truppe  del “siete laceri e mal nutriti” ma furono gli Austriaci) Austriaci che dopo una serie di scaramucce di poca importanza, furono duramente battuti  “a Cairo Montenotte, come abbiamo visto,  più dal Gen. Massena e dal suo diretto sottoposto gen Leharpe che da Bonaparte in persona. Ebbene dopo questa battaglia, la fiducia  nell’alleato era decisamente crollata alla Corte di Torino, tanto da dare disposizioni a Colli il comandante dell’esercito savoiardo  di non difendere Ceva e intraprendere piuttosto una ritirata strategica per riportare le truppe verso Cherasco dove la diplomazia stava già  ordendo un armistizio separato con la Francia. Una sola battaglia di una certa entità persa dall'alleato e una ritirata strategica effettuata peraltro magistralmente dal Gen.Colli, tanto erano bastati al Piemonte per chiedere un armistizio e di fatto ritirarsi dalla guerra . Detto per inciso va a anche rilevato che il Bonaparte  per inseguire l’esercito nemico aveva allungato enormemente le sue potenzialità logistiche (riserve, magazzini, salmerie, vettovagliamento, etc)  e quindi l’Armata era davvero in condizioni miserevoli, molto molto di più dei Piemontesi;  ma qui ecco,  siamo in presenza di quell'ineffabile della storia che è la Fortuna:  Fortuna che Colli non contrattaccasse e fortuna anche che Beaulieu non approfittasse dello stato dell’Armata francese  per scagliarvisi contro con tutto il suo esercito. La Fortuna a volte arriva nella congerie degli eventi umani e si può più o meno afferrarla e coglierla , i greci antichi parlavano in tal senso di “Kairòs”, che tradotto suona un po’ come “il tempo opportuno “ correlandovi la figura del tiro con l’arco e il raggiungimento del bersaglio da parte della freccia;  ecco diciamo che il Generale Bonaparte mostrò finalmente una delle sue innegabili doti:  saper cogliere il momento più opportuno, schierarsi dalla parte della Fortuna, che nell'immaginario collettivo, ma anche storico e persino avallato da lui stesso,  ha un “ “topòs”  preciso : il ponte di Lodi.




IL RISVEGLIO DELLA RAGIONE NEL FUTURO ANTERIORE

  Io un buon libro di di saggistica lo leggo mediamente dieci quindici volte, con punte di oltre cento e magari duecento, per saggi davvero ...