martedì 22 settembre 2020

IL CODICE SULLA VERTICALE

 


Diceva Jung: “la vita ti mette sempre al cospetto di gradienti e non è che te li puoi scegliere tu, sono loro che scelgono te!” così il famoso detto  “il bello della vita è che c’è a chi piace  la gabbia e a chi l’uccello?”… perché ad uno piace bionda e ad uno mora, perché il mare o i monti, il caldo o il freddo, perché uno è conservatore ed uno rivoluzionario? Sono domande che l’umanità si è sempre fatta e hanno stimolato versi, satire, libelli e invettive del fior fiore dell’intelligenza umana “qui fit Maecenas???”… eh bhe se se lo chiedeva anche  Orazio….! Un gradiente  è strettamente soggettivo  e personale, però  va alla costante ricerca di qualche elemento di oggettività, un po’ di riscontro, un po’ di comunanza,  che saranno cose  del tutto arbitrarie nella conoscenza  supposta “naturale”, ma giocano tutta un’altra partita nell’arte, nel fatto artistico: ancora Jung ci suggerisce una possibile via d’uscita e gli fa il verso Norman O.Brown in un saggio che si chiama “la vita contro la morte” dove entrambi vanno a scomodare le categorie Kantiane e  la cosa in sé che per Kant era come noto, inconoscibile, irraggiungibile,  impossibile, anche alle categorie. “Questo perché” dice prima Jung e poi con maggiore enfasi Norman O, Brown “ la cosa in sé è sempre supposta all’esterno di noi, ma cosa succede se la cosa in sé la si ricerca al di  dentro di noi, ovvero “la cosa in sé siamo noi?” ecco che in tale accezione si pongono subito i metri di valutazione e di giudizio e le famose “categorie” possono essere messe in gioco  “ una volta accettato il principio artistico  e la cosa in sé come in-sistenza, ci saranno elementi che possano farmi valutare la differenza  tra una crosta di un mercatino delle pulci e un dipinto di Modigliani? Se ci atteniamo ad un estetica di stampo crociano sembra di no “l’arte è espressione lirica, un moto oscuro dell’anima  e si fa ritorno  a quell’ “a priori” Kantiano con tanto di categorie che rimandano al fenomeno ma non al  “noumeno” = la cosa in sé! Se invece ci si pone dalla parte di arte come forma di conoscenza, una conoscenza un tantino differente di quella scientifica o  anche storica, che grosso modo acquista certi parametri, li sceglie, li elabora, li porta ad un costrutto che è sempre un tantino differente da quello della natura, acquista sue regole proprie, insomma si configura sempre come “fatto” eminentemente, anzi esclusivamente “umano”, allora è diverso: è in virtu’ di tale scelta che può venire introdotta una  valutazione e quindi un giudizio e questo vale per tutte le forme artistiche, il defilè di tutte le Muse e in una qualche maniera dello stesso pensiero. Il filosofo Schopenauer dice che voltando una pagina del libro della propria vita si volta la pagina di tutto il mondo! non è che tale espediente non sia frequente ad esempio nella follia, ma il primo è “Il mondo come volontà e rappresentazione” il secondo l’esternazione di un pazzo! Letteratura, poesia, musica, filosofia, e ovviamente le cosidette arti visive, pittura, scultura, un po’ più recentemente cinema, costituiscono una sorta di mondo parallelo di quello naturale, dove le regole saranno magari cangianti, aleatorie a volte anche arbitrarie, ma perlomeno fanno parte del gioco, non sono appunto come la natura o tutto l’elenco dei vari dei o dio unico che  non conosciamo, ma che soprattutto non siamo conosciuti da loro. Ho tralasciato a bella posta l’architettura, per via di quel correlato di una troppa marcata utilità pratica alle sue espressioni artistiche , che malgrado la sua stessa espressione “archè-technè”= tecnica, abilità del principio” tende sempre a sporcarsi le mani proprio in virtù del suo correlato utilitaristico che è l’abitare, l’avere un tetto sopra la propria testa. Alla miriadi di espressioni “elencali” dell’architettura sono state sempre correlate opere eccezionali, direi tipo modello, da cui con più o meno aderenza in determinati periodi storici si sono prese  le mosse, ci si è in qualche modo ispirati; semmai c’è da osservare come per una somma di fattori, spesso e volentieri dipendenti dal codice messo in atto, tendono a divenire d’esempio e assurgono al titolo di “Maestri”. Si configuri un “periodo aureo” Il Rinascimento, il Barocco, la Belle Epoque, il Razionalismo, l’architettura Organica e in tutti l’emergere di qualcuno di eccezionale, Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti , Bramante, Michelangelo, Bernini, Borromini, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright. Una questione di codice certamente ed è paradossale che il codice che più di ogni altro abbia caratterizzato il mondo moderno, quello che ancora oggi, anche se involgarito dal consumismo e da una esasperata tecnologia, si impone alla nostra attenzione è un codice desunto dall’antico, il cosiddetto “Classicismo” una vera e propria operazione culturale  svoltasi come logica evoluzione in un arco tricentenario  su ideazione e impulso di una serie eccezionale di “maestri” ma con un seguito inusitato di “allievi” che hanno disseminato il nostro mondo di quella che possiamo benissimo definire “una artisticità diffusa” a livello architettonico.  Ho fatto cenno come ultimo di questi “Maestri” all’americano Frank Lloyd Wright, non a caso: difatti dell’arco tricentenario del classicismo  la topica di diffusione riguarda solo l’Europa, forse , specie l’inizio, più specificamente solo l’Italia, addirittura quasi singole città, la Firenze dei Medici, con la ben nota fioritura di talenti eccezionali, la Pienza del Papa Pio II Piccolomini e del Rossellino , la Ferrara dell’addizione Erculea e di Biagio Rossetti,  la Roma di Niccolò V e dei papi successivi del Regno pontificio, con un’altra fioritura di artisti eccezionali: Bramante, Michelangelo, Raffaello, e in seconda battuta i grandi del Barocco Bernini, Borromini e Pietro da Cortona;  l’America così come altre parti che non siano l’Europa, è fuori, semmai ecco interviene nell’agone del mondo solo quando quel fenomeno, il Classicismo  aveva esaurito la sua portata di codice sperimentale , quando i suoi parametri cui era assicurata l’efficacia ovvero una imprecisione, una poca verificabilità degli stessi, viene invece precisata con  sicurezza. Per la verità era questa una possibilità che era stata vagliata fin dall’inizio, ad esempio da Leon Battista Alberti che nel Tempio Malatestiano di Rimini, non aveva esitato ad usare il pastiche, la commistione dello stile, e questo in qualche modo aveva contraddetto la purezza dello stile di un Brunelleschi che aveva  invece continuato ad operare per schemi precostituiti, i vari elementi dell’ordine cosiddetto classico, arbitrariamente desunti come codice assoluto per disciplinare i vari episodi del disegno urbano, così come grazie al meccanismo della prospettiva potevano preventivamente essere applicati  piegandoli alle esigenze del costruire: una facciata,  piazza, una strada, una cupola: per ogni fatto c’era una sorta di pellicola da applicare alla bisogna, ma dopo  che Bramante codificherà proprio come un manifesto nel suo Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma la giustificazione del nuovo fare artistico, il dubbio attraverserà anche i Maestri più celebrati, il Michelangelo della Biblioteca Laurenziana e della facciata di S.Maria degli Angeli aveva introdotto il termine di “manierismo” nel classicismo e il Barocco soprattutto dei tre maestri citati, porterà alle logiche conclusioni  la crisi. L’America entra nell’agone quando, in effetti  non si può più parlare di Classicismo, ma solo di Neo-Classicismo: il codice dell’antico è oramai verificato e sperimentato in tutte le sue possibilità, quella pellicola che prima si piegava alle esigenze della città  ed era in grado di si caricare su di se’ tutte le valenze, proprio in virtù della sua arbitrarietà  ora ne assume lei la carica di  rappresentazione e  non è più in grado di significare alcunché, solo ripetere straccamente: una lesena, una trabeazione, un ordine dorico, jonico, corinzio, tutto può essere appiccicato là, senza distinzione, quindi lo stracco elenco o il pastiche senza significanza. Però ecco nell’America del neoclassicismo, e soprattutto del periodo successivo, con il pressare delle nuove istanze, rese più impellenti dal veloce cambiamento sociale, dal sempre maggiore avvento dell’era della macchina, si delinea una possibilità inusitata che il Classicismo non aveva considerato: una  nuova forma e struttura architettonica  suggerita dalla verticalità, ovvero lo sviluppo della costruzione in altezza :  il grattacielo. E’ una opportunità eccezionale per dire qualcosa di nuovo, e qui la vecchia Europa non ha proprio nulla da dire, non dispone di alcun codice alla bisogna, la palla passa all’America  che si trova nella opportunità di dire qualcosa, qualcosa di nuovo. E’ lo sviluppo sulla verticale, la costruzione in altezza, come dice il suo prodotto più rappresentativo  “gratta-cielo”  che può informare un diverso modo di intendere la forma e soprattutto la struttura. Per carità, anche la storia dell’architettura moderna in Europa, prende le mosse dall’avvento dell’era della macchina, le strutture in ferro, il cemento armato: aveva cominciato Paxton all’Esposizione di Londra del 1851 applicando il principio delle strutture reticolari delle serre ai padiglioni della Fiera, e c’erano stati tutta la serie dei grandi ingegneri strutturisti, Contamin, Duffert, soprattutto Eiffel che non aveva disdegnato quello sviluppo della verticalità nella sua celeberrima Torre, ma la cosa era rimasta lì, allo stadio di rappresentazione di carattere eccezionale  ecco, diremmo monumentale. Si d’accordo Rondelet, Hennebique, poi Viollet Le Duc, avevano affrontato con fervore il nuovo materiale da costruzione, il cemento armato che in stretta assonanza col ferro, dischiudeva una serie di possibilità inusitate, tra cui ovviamente la verticalità, ma l’Europa era pur sempre troppo legata al suo passato, il classicismo e la sua logica evoluzione il neo-classicismo condizionavano ancora troppo marcatamente ogni espressione, tant’è che anche Monge che fissò le regole teoriche e pratico/applicative del nuovo materiale, rimane pur sempre legato  all’impianto formale  neo-classico e l’accusa di una eccessiva simmetria, di un blocco formale, ma anche delle possibilità strutturali dell’opera, viene avanzato anche a grandissimi ingegneri, tipo ad esempio Pier Luigi Nervi, che non riesce mai per intero a svincolarsi dall’adesione ad un codice “viziato” Per trovare diciamo così “terreno vergine” questa tendenza, dobbiamo giocoforza trasferirci negli Stati Uniti d’America, ed è  lì che nella seconda metà dell’ottocento, si gioca la possibilità di una partita con regole davvero differenti e precisamente in una città dove il cambiamento, il nuovo, erano davvero all’ordine del giorno: Chicago, un vero e proprio movimento che giustappunto verrà denominato “Scuola di Chicago” Non è un  caso che questa si sviluppò dopo un grande incendio che nel 1871 aveva praticamente distrutto la città e quindi si richiedevano interventi di tipo straordinario e urgente, giocoforza poco attenti  a tutta una serie di regole di aderenza formale, insomma l’ambiente adatto, un po’ una riproposizione con quello che era avvenuto nel quattrocento con la rinascita della città dopo la Grande Pandemia di peste, con la scelta del “codice classico” e lo strumento della prospettiva  per  anticipare i risultati. Solo che nel caso di Chicago, venivano scelte le nuove tecnologie dei materiali da costruzioni, ferro e cemento armato e veniva preferenziata la verticalità.  Lo sviluppo dei primi anni della attività della Scuola, grazie anche ad una serie di  architetti d’eccezione Henry Robson Richrdson, Daniel Burnham, Dankmar Adler, John Root, Martin Roche, William Le Baron Jenney, Louis Sullivan, fu straordinario. Tali architetti difatti non si limitarono a costruire una serie di edifici sviluppati in altezza, ma affrontarono anche il problema della forma ottimale da dare a tale costruzione che si cominciava a chiamare “grattacielo”, procedettero difatti a una drastica semplificazione delle facciate, rifiutando un ricorso a qualsivoglia formalismo di tipo classico, o meglio “neo-classico”. L’aspetto formale del grattacielo non doveva derivare dall’applicazione di un apparato decorativo desunto da una  tradizione architettonica, che in sostanza non faceva parte della tradizione americana, ma scaturire direttamente dalla funzione dell’edificio stesso e dall’espressione sincera della struttura, come sosteneva appassionatamente il più  battagliero degli esponenti della Scuola : Louis Sullivan. È’ suo il famoso detto “la forma segue la funzione”  che sarà poi ripreso anche in Europa come base teorica  del Movimento Moderno, ovvero il “Razionalismo” di cui saranno artefici architetti come Gropius, Mies Van der Rohe , Le Corbusier. La sperimentazione del tema “grattacielo” fu enorme per una prima quindicina di anni, ma ebbe una battuta d’arresto, anzi una vera e propria fine, con l’Esposizione pre-colombiana di Chicago del 1893, dove la maggior parte degli architetti, capitanati da Daniel Burnham (per cui si parlò di “tradimento di Burnham”) acconsentirono a venir meno ai loro principi e accettarono le pressioni di un consumismo rampante, che perseguiva fini di maggiore uniformità e massificazione delle esperienze. Uno che non si piegò mai fu invece Louis Sullivan, che pagò con un sempre maggiore isolamento questa sua posizione di intransigenza, e l’allievo principale di Sullivan fu un certo Frank Lloyd Wright.

 

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