io sono di quelli che ritiene che l’opera d’arte abbia un’incidenza significativa sulla realtà, spesso alternativa, quasi sempre migliorativa: suvvia…. quale paesaggio naturale eguaglierà mai la Tempesta di Giorgione e ci sarà mai un Dejuner sur l’erbe come quello di Manet? non esisteranno mai “Demoiselles” come quelle“d’Avignon” di Picasso e il “Non omnis moriar! multaque pars mei vitabit Libitinam “ di
Orazio, rischia forte di venir preso sul serio se si viene a patti con un’eternità un tantino relativizzata e umanizzata, un po’ alla Foscolo dei “Sepolcri” Il Cinema, diciamo l’ultima delle arti, la più recente, non fa certo eccezione a tale assunto, anzi se possibile l’enfatizza, gli dà un costrutto davvero composito e variegato, al visivo giustappone l’auditivo, e riesce anche a coinvolgerti nelle sensazioni pervenendo al cenestesico, si muove nel tempo realizzando quella supposta impossibile sintonia tra asse diacronico e asse sincronico, e alla fine fine rende quanto mai veritiera la boutade di Groucho Marx “un film è molto meglio della vita, se non altro puoi contare su un finale meno scontato”Del cinema in questa sezione ci si è già occupati, con il Napoleon di Abel Gance, cercando di cogliere una discrasia temporale e metodologica (il passaggio tra muto e sonoro) per appuntarsi sulle vicissitudini della rappresentazione che possono segnarne l’esito e rientrare nella modalità del “mancato “, mancato successo, mancata diffusione, imputabili solo a fatti contingenti come quella dell’invenzione di una pista sonora che giustappunto modificava il rapporto tra opera e pubblico. Decisamente all’opposto di tale fattualità temporalizzata è il caso del regista Ernest Lubitsch che invece proprio di questo passaggio tra muto e sonoro, ha trovato una modalità di spingere ancora avanti la ricerca estetica e anche di fruizione dell’opera, fino a pervenire ad un qualcosa di veramente sublime. L’epiteto più caratteristico con il quale Lubitsch è stato etichettato ha a che fare proprio con la modalità rappresentazionale più difficoltosa da attribuire ad un film, ovvero quella cenestetica: il “tocco” che nel mondo del cinema è uno solo: “il tocco alla Lubitsch!” Ma cos’ è questo “tocco alla Lubitsch” che più di un critico, e soprattutto altri registi hanno cercato di definire, e a buon bisogno, di replicare? E’ un po’ un melange tra allusione e reticenza, un qualcosa che ha bisogno del linguaggio, ma proprio per sospendere le parole, dilatare il silenzio, e ha bisogno anche del visivo per non fare vedere, magari servendosi di una porta chiusa, che con calibrata sospensione si introduce nella vicenda. E’ l’apoteosi del “sospeso” dove ciò che non viene detto, ciò che non viene visto, insomma una certa “reticenza” di rappresentazione assurge a protagonista, proprio in quel suo non essere assolutamente discreta, ma anzi decisamente impertinente. Billy Wilder, il suo miglior allievo ha cercato di descriverlo questo famoso “tocco” prendendo ovviamente ad esempio un film del suo Maestro, “l’allegro tenente “ con Maurice Chevalier , dove questi è amante della Regina di un piccolo Regno di fantasia e si nasconde all’arrivo improvviso del consorte che vuole appartarsi con la moglie. Cosa succede dentro quella stanza non ci è dato saperlo, perché la porta si chiude inesorabilmente davanti ai nostri occhi di spettatori , ma ci è dato da immaginarlo, dai mugolii dietro di essa e da una dilatazione di tempo cinematografico. Il Re doveva essere un po’ tipo la canzone di De Andrè “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” alquanto arretrato in desiderio sessuale, solo che invece di quel esilarante “vè proprio poiché voi siete il sire, fan 5000 lire” della donzelletta di campagna “tra i glicini e il sambuco” c’era una moglie, che se la faceva con il tenentino, ma insomma, non è che poteva rifiutarsi di soddisfare le voglie dell’augusto consorte, e difatti finalmente si apre la porta e vediamo il Re tutto soddisfatto che si sta ancora rivestendo, ma ecco che quando cerca di allacciarsi il cinturone con la spada , ne è impossibilitato perché ha preso quello del tenente che non aveva fatto a tempo ad occultarlo con sé, e quindi il tradimento è scoperto. Diceva Wilder rivolto ad un gruppo di studenti di cinema “sfido ciascuno di voi a trovare un modo così inusitato, originale e geniale per rappresentare un adulterio” e difatti replicando a William Wyler altro allievo di Lubitsch che al funerale di questi nel 1947 se ne era mestamente uscito “niente più Lubitsch” aveva corretto “Peggio! Niente più film di Lubitsch!”L’esempio riportato da Wilder è significativo, ma ce ne sono una infinità : In La vedova allegra, Chevalier e la McDonald si scambiano parole d’amore davanti all’ambasciatore, che non capisce, ma fornisce egualmente un racconto dettagliato al re, via telegramma. In Il principe consorte, la cena fra la regina e il suo promesso sposo è raccontata dai personaggi che li spiano: la cameriera dice: “Lei chiude la porta dietro di lui”; il valletto replica trionfante: “Heaven save the Queen!”; e il racconto che Chevalier fa al maggiordomo di corte è ripreso ancora da oltre la finestra e non ne sentiamo nemmeno una parola. In Ninotchka l’iniziazione dei tre inviati sovietici alla ‘corruzione’ del capitalismo si svolge interamente oltre una porta chiusa: le esclamazioni di piacere all’arrivo della colazione crescono quando entra una sigaraia, che esce subito rassettandosi l’uniforme per fare ritorno poco dopo con due colleghe, esplodono all’arrivo dello champagne, per concludersi con una dissolvenza che sostituirà i colbacchi con dei borghesissimi ciindri e bombetteLa verità è che Lubitsch era in grado di trarre ogni partito dalle possibilità del sonoro, probabilmente più da quello che non si sente che da quello che si sente e il suo tocco era la straordinaria abilità, un “tocco”appunto, di mischiare silenzi e parole, scene animate e una porta chiusa , ma anche altri oggetti del quotidiano come i resti del cibo in Ninotchka dove il grado e il modo di consumo, riflettono la psicologia del personaggio, gli esilaranti richiami “Scultz!!!” del gerarca nazista in To be or not to be al suo sottoposto, e il colpo di pistola che ovviamente non vediamo, l’ascensore che scende giu’ verso l’inferno colla bellissima bionda e induce Don Ameche alla famosa frase “il cielo può attendere” .Si può davvero dire che Lubitsch tra allusione e reticenza, tra dire e non dire, tra l’utilizzare tutto quello che si trova “in scena” ha un equivalente in un personaggio come Milton Erickson . Il primo in una forma d’arte come il cinema, il secondo nella comunicazione terapeutica, che con lui era assurta anch’essa a forma d’arte: entrambi erano i maghi dell’indiretto, dell’accenno, “la mia voce ti accompagnerà!” diceva Milton, mentre per ciò che concerne Lubitsch ci rimane quella famosa porta, il cui sfiorare cogli occhi la sua consistenza, e tendere l’orecchio per carpire quel che si dice dietro di essa, è già in qualche modo, sentire con la vista, con l’udito, con la fantasia il suo famoso “tocco” il tocco alla Lubitsch.
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