Thumos è la parola di gran
lunga più usata nell’Iliade di Omero.
Come tutti sanno, siamo nell'accezione dell’ira più famosa di tutti i tempi, quella del Pelide Achille, che nell’Iliade, equiparata
appunto ad un thumos, sta a
rappresentare sempre un qualcosa di dipendente da modalità reattive a fattori esterni, che ingenerano un crescendo,
una proliferazione, una massa incontrollata di sensazioni, che hanno quindi una
manifestazione corporea, localizzata in
questo o quell’organo: il fiato corto, l’accellerarsi
del battito del cuore, movimenti di stomaco, un aumento della pressione
sanguigna… quindi più che altro uno
stato fisico indotto da una emozione che ha una causa dall'esterno, ma è gestita internamente da
noi stessi. Il Thumos in una lingua che possiamo decifrare e capire, senza
ricorrere a interpretazioni più o meno fantasiose, tipo quelle di cui archeologi e interpreti si sono sempre
serviti in merito a geroglifici e testi
molto antichi proiettandovi la loro
soggettività, non tenendo nel debito conto la distorsione del
significato/significante del testo, è appunto questo: una parola, che diciamoci la verità, oggi un
po’ genericamente è andata a comporre il minacciosissimo, terrificante termine
di “tumore” che è una sorta di summa di
paura e spauracchio in ambito di malattie, con numerose altre diciture: cancro,
carcinoma, ade carcinoma, formazione neoplastica, ma che la vulgata popolare
tende in genere a parafrasarlo con l’espressione “il brutto male”; parliamo di
malattie, tutte le malattie, dal raffreddore, appunto al tumore/cancro/bruttomale,
come vogliamo denominarlo, non però da un punto di vista nosografico, ma sulle
credenze che la medicina tradizionale continua a propinarci da cui possiamo anche
lanciarci nella provocatoria asserzione “non
esiste…” cui fa seguito il contrappunto “ma insiste”, per focalizzare il perché la malattia continua imperterrita a
terrorizzarci specie con le sue manifestazioni più estreme, apice il tumore. Le parole, nomi, aggettivi anche i verbi, si sa, possono sempre avere un significato ambiguo, spesso e volentieri antitetico, e anche questo “in-sistere” può essere inteso sia come qualcosa che ha una valenza specifica di essere e promanare da dentro di noi, non da fuori, ma anche come ripetizione, insistenza appunto, che come vedremo informa un meccanismo altro della nostra ragione, o meglio della nostra entità biologica integrata. Ecco quindi che, fatto un salto di qualche migliaia d’anni, anche oggi, il Thumos o tumore ovvero “il brutto male” è anche lui una cosa che non esiste, perché il principio base è quello che nulla di quanto c’è all'esterno, al di là ovviamente di accidenti, calamità, eventi traumatici, cioè che sta fuori di noi, può veramente nuocerci se non siamo noi che glielo consentiamo: diciamo che ci può capitare, ma solo una volta avuto tale permesso... solo allora... si!!!! possiamo dire che “in-siste”...e spesso e volentieri... fino alla morte!
Fu Kant a ratificare che “la cosa in sé” è inconoscibile in quanto “esterno da noi”; l’essenza delle cose è incommensurabile al pensiero umano, anche se bisogna convenire che fu proprio Kant a porre come correttivo l’antico termine, usato da Platone, di “noumeno” ovvero quella sorta di idea della ragione che è proprio quello che il pensiero umano cerca di rappresentare di ciò che va oltre la sua comprensione. Detta un po' alla buona la cosa in sè sarebbe il Reale, mentre il noumeno, grosso modo l’Immaginario; però se a tale dualità, ci aggiungiamo un terzo meccanismo, direbbe lo psicanalista Lacan “un terzo registro”, ovvero quello del Simbolico, non potremmo pervenire ad una sintesi, una sorta di dialettica, laddove la “cosa in sè” siamo noi? o perlomeno quella parte di noi di cui abbiamo sopra fatto cenno e che abbiamo, per ora, definito “altra” si configuri come preminente? Un qualcosa che giustappunto “non esiste, ma insiste!" Ebbene le stessa cosa è sostanzialmente la malattia, che così come è rappresentata ha sempre a che fare con qualcosa di esterno che ci capita così per caso, per nostre cattive abitudini, alimentari, di vizio, di abitudine oppure per sfiga biologica o genetica ed ha una pseudo conferma in procedimenti statistici. Cosa succede però se ci disponiamo ad accogliere quel distinguo appena accennato: cosa succede se la cosa in sé, invece di cercarla all'esterno, la ricerchiamo all'interno di noi ? non il noumeno, come idea di ragione della coscienza, ma qualcosa di “altro” che pure fa parte di noi e che abbiamo denominato inconscio? Questo si che potrebbe essere un capovolgimento radicale di qualsiasi riferimento, quello cui anche Kant faceva menzione in merito alle sue categorie, ovvero una “rivoluzione copernicana”, ma che non disponendo della nozione di inconscio, non poteva rappresentarsi e rappresentare: quello che cambia è appunto l’indice referenziale che non sta più fuori di noi, ma dentro, appunto non ex-siste, ma in-siste. Al contrario di Kant, qui però di categorie ce n’è in gioco una sola, una che può essere divisa in due, come una sorta di medaglia colle sue due facce:quella della coscienza e quella dell’inconscio; è appunto, questa doppia strada l’unica percorribile dalla nostra entità biologica di corpo e pensiero: ovvero ammettere che noi siamo fatti di una coscienza, che appunto valuta, misura, più che altro si serve di un linguaggio per nominare tutte le cose e così facendo le cataloga secondo dei principi di condensazione logica, ma siamo anche fatti di un inconscio, che non nomina, ma accenna, non condensa alcun significato connesso alle cose del mondo esterno, ma piuttosto trascina i significanti, ovvero non le sole parole, bensì tutto il vissuto, tutto il sentito di una e anche di più vite. Nella prima accezione non è possibile addivenire ad una netta separazione con la cosa esterna, perché tutto fin dal primo apparire della vita e vieppiù con l’inizio della vita animale nella specifica umana, e’ relativo al di fuori di noi ed è questo referente che costituisce il termine di paragone e rassomiglianza con cui costruire nuovi termini e quindi nuovi significati, ma e’ diverso se invece prendiamo in esame la seconda accezione: allora non è più tanto l’esterno che costituisce il paradigma, quanto l’interno, ovvero tutto il proprio vissuto e anche quello precedente, la somma delle esperienze così come sono state incamerate e che un individuo, ma anche un gruppo, hanno assimilato nel corso della loro evoluzione e sono in grado di trasmettere sia a sé stessi, che ai propri simili, che ai successori. C’è da dire che se “il fuori da se”, il mondo, l’ambiente, le sue cose, sono fortemente condizionanti del tipo di adattamento e di evoluzione, cui l’entità biologica doveva far fronte per mantenere la sua “presenza” il suo essere in vita, l’interno di sè” delinea una differente modalità di funzione adattiva, ovvero è in grado di trascinare alcuni non più significati, ma significanti, non spiegazioni, ma prescrizioni, che non abbisognano di similitudini e paragoni bensì di ammaestramenti, un qualcosa che per un lungo periodo è di stretto supporto all'evoluzione, ma poi, come avremo modo in seguito di dimostrare, se ne distacca. Per la prima si parla di condensazione non a caso, in quanto è proprio il meccanismo del linguaggio che appuntandosi su tutto quello che costituisce il suo ambiente, nomina cosa per cosa e nominando fa paragoni, similitudini, fino a costituire tutta una serie di analoghi che gli consentono di muoversi con sempre maggiore padronanza in un mondo, una terra, che per la verità non lo conosce, lo ignora ed è del tutto indifferente alla sua presenza. Nominando il mondo, le cose
del mondo, condensando significati attraverso paragoni, per i quali possiamo
adottare la denominazione che la linguistica fa di tale funzione ovvero la
parola greca “μεταφορά,= metafora””
dal verbo “phero” che significa portare e il prefisso “meta’” che significa
“con, insieme”, l’uomo conosce sempre
“più mondo “
Per la
seconda però non possiamo utilizzare lo stesso parametro, perché ciò che viene
da dentro di sé e non da fuori, non
condensa significati, ma trasmette significanti ovvero non è una metafora, ma è una μετωνυμία = metonimia, ovvero un termine composto sempre dal prefisso metà, qui più nel senso di "attraverso/oltre" e ” = "onoma” = nome" ed è precisamente quel meccanismo che dà indicazioni sul da farsi, su come far fronte alle necessità, ai bisogni che un mondo non certo accogliente poneva costantemente di fronte, ovvero una funzione, meno circostanziata, meno sintomatica, ma parimenti importantissima, eminentemente simbolica (nel senso proprio del termine: che ri-mette insieme comportamento e ambiente) dove la somma di tutte le situazioni, tutte le esperienze si vanno a codificare in un qualcosa di analogale si, ma con caratteristiche di ammaestramento, un linguaggio anch'esso, ma profondamente diverso e con elementi di ineluttabilità, laddove l’analogia non è incentrata su acquisizioni di nuovi termini, messi in relazione dalla metafora, quel “ cosa è questo? bhe!...è come…” che opera per meccanismi di paragone e rassomiglianza, ma per prescrizioni di carattere comportamentale che è necessario che siano il più possibile categoriche: un linguaggio e quindi una voce si, ma una voce un po' particolare, un “sentito dire” non scandito da parole del linguaggio articolato, ma piuttosto trasmesso da norme , ammaestramenti, ovvero una voce con carattere allucinatorio, non portata da apparati fonetici, ma evocata mentalmente da una diversa formazione neuronale del cervello, che si assume il compito di sostituirsi a quella ordinaria quando sono in gioco fattori di sopravvivenza, con caratteri di immediatezza dell’individuo e del gruppo. Una componente allucinatoria che e’ resa necessaria dal carattere prescrittivo del messaggio, che non può limitarsi al fatto di essere “ab-udito=udito”, ma deve essere “ubbidito” cioè “ob-audito : ovvero non un nuovo termine che arricchisca il linguaggio articolato, ma un suggerimento, una prescrizione, una norma che non può essere elusa, una sorta di imperativo categorico, che non abbisogna di spiegazione, ma di esecuzione, pronta esecuzione: “vai a costruire quell'argine!” “porta arco e frecce quando ti indentri nella foresta!” “lascia delle tracce nel tuo cammino!”, un qualcosa che solo una voce allucinatoria, che promana però dal profondo della tua mente,può importi. Possiamo ragionevolmente sostenere che se l’uomo con la metafora conosce più mondo, con la metonimia ci si muove meglio.
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