venerdì 18 settembre 2020

MENDELSSHON C'EST SUR LE TOIT

 


Tanti tanti anni fa a Parigi, in una delle bancarelle lungo senna (Bouquinistes) capitai un curioso e gustosissimo romanzo "Mendelsshon c'est sur le toit" dello scrittore ceco Jiri Weil. Vi erano una serie di episodi della Praga durante il periodo dell'occupazione nazista, dove con sarcasmo veniva affrontato il tema del cambiamento di immagine anche a livello di memoria, che ogni regime che si sovrappone ad un precedente, tenta di effettuare a livello di collettivo, in una delle sue esternazioni più manifeste, ovvero quella di statue, monumenti.  Nell'episodio che dà titolo al libro, i nazisti ordinano di rimuovere la statua del compositore Mendelsson, in quanto ebreo dal tetto dell'Accademia di Musica di Praga, ma il funzionario preposto, incapace di riconoscerla, opta per rimuovere la statua con il naso più grosso, che era quella di Wagner. Sempre nel medesimo romanzo si parla di un fotografo che girava per le piazze della città, fotografando i monumenti non ancora spostati. Decisamente ce ne aveva di lavoro!!!... e tutto questo mi faceva tornare alla memoria le discussioni e polemiche che si erano avute, tanto per cambiare, ad una lezione di Bruno Zevi su quella ipotesi, assai controversa di "sventrare gli sventramenti", ovvero se sia lecito e legittimo che ogni manifestazione di un passato storico venga rimossa, cambiata, cancellata, avallando così quel principio alquanto inquietante che “la storia la fanno i vincitori” Si era  negli anni settanta, ma la polemica non è certa esaurita se a tutt'oggi, tanto per restare a Praga si accendono furiose diatribe, se ripristinare o meno la statua di Radetzsky!, se quella di Zizkov sia un po’ troppo ardita (la metterei ma la Direzione di FB, tempestivamente  la “banna!” ), e perchè, aggiungo io, non quella di Stalin che dominava maestosa dalla collina di Letna, davvero memoria di un'epoca! Fantasma per fantasma: di lì a poco, con un ulteriore cambiamento di potere, là proprio sotto alle finestrelle dell' orologio astronomico da cui sbucano i dodici apostoli, veniva collocato il modello di un gruppo statuario all' epoca di grande successo: Fratellanza di Karel Pokorny, dove era rappresentato l' abbraccio alquanto focoso di un partigiano ceco con un soldato dell' Armata rossa;  Bhe!? Proprio sotto l’orologio!!!???? , forse era sembrato un po’ troppo e difatti di lì a poco poco dopo verra' deciso di spostarlo nei giardini davanti alla Stazione Centrale, dove c'era una statua del presidente americano Woodrow Wilson, icona della Repubblica di Masaryck, ovviamente rimossa con il cambiamento di ideologia. Il comunismo non è stato un giorno in Cecoslovacchia e di queste operazioni, con tanto di ripensamenti, brillature con dinamite delle precedenti rappresentazioni più o meno monumentali, vuoi con statue o semplici denominazioni toponomastiche di persone e fatti non più "allineati"  ce ne sono a non finire. A proposito del Regime comunista di stampo sovietico affermatosi  dopo la defenestrazione del figlio di Masaryck, Jan,  ecco spuntare un autentico carro armato sovietico  che viene posto su un piedistallo, nel quartiere di Smichov e  verrà addirittura  immortalato in una poesia da Nezval, che indubbiamente cercava di prendere alla lettera quell’Aere perennius” di oraziana memoria.   «Come una statua, come un sepolcro, come il monumento ad un tempo glorioso, / come un trono o come una corona svetta lì a Praga, a Smichov». Non sarà neanche il solo a trarne ispirazione. La foto del carro armato sul piedistallo diverrà anche, per un certo tempo, il soggetto preferito da appaiare al monumento a Stalin nelle guide di Praga dalla metà degli anni Cinquanta. E ancora nel luglio del ' 68, nel pieno della Primavera di Praga, un divertito giornalista del coraggioso settimanale Reporter, innervosito (come gran parte della popolazione) dalla mancanza di notizie sugli spostamenti dei carri armati sovietici che stanno facendo le loro minacciose esercitazioni (segrete) in territorio cecoslovacco, pubblicò - una accanto all' altra - una foto del carro armato di Smichov e una foto tutta bianca. Sotto, le due didascalie precisavano: «Carro armato liberatore», e accanto: «Carro armato segreto». Oggi neanche il carro armato del ' 45 sta più lì al suo posto:  nel ' 91 era diventato per alcuni mesi la pietra dello scandalo nella politica ceca: prima venne pitturato oltraggiosamente in rosa, poi di nuovo in verde, quindi ancora una volta in rosa, fino a che non si decise di riporlo in un più acconcio museo militare. Partendo da tale inarrestabile ecatombe di statue, a molti doveva essere sembrato davvero esagerato il vicepresidente del consiglio Vaclav Kopecky quando, il Primo maggio 1955, all' inaugurazione del mastodontico monumento a Stalin, a Praga, sulla collina della Letna, nel suo discorso ufficiale aveva coraggiosamente dichiarato: «questo monumento è destinato a durare nei secoli». Durerà sette anni e qualche mese. Eppure ci si erano messi d' impegno, e già a partire dal ' 49, in previsione del settantesimo compleanno del Generalissimo. Il concorso aveva prodotto essenzialmente soluzioni stereotipe e semplicistiche: uno Stalin a figura isolata, congelato nel gesto di muovere il passo, le braccia allargate come un Golem da film muto. Vennero esposti, quei modelli, nel dicembre del ' 49, in una sala della Casa di Rappresentanza: deve essere stato davvero inquietante metter piede là dentro, scivolare in piano sequenza lungo quei quaranta e più Stalin in miniatura, braccia larghe e sguardo accattivante... Il vincitore, Otakar Svec, li aveva sbaragliati tutti i suoi ingenui concorrenti, proponendo un imponente agglomerato, un cuneo simbolico che vedeva in testa Stalin con indosso un pastrano militare e in mano un libro. Dietro di lui, sui lati lunghi del parallelepipedo, i bassorilievi che raffiguravano - in due gruppi allegorici di quattro elementi ciascuno - il popolo sovietico e quello cecoslovacco: il soldato, l' intellettuale, l' operaio, il contadino... Una ben studiata campagna trasformerà l' impresa nel megacantiere a cielo aperto della costruzione del socialismo, quasi la sua rappresentazione figurata. Gli scrittori non stavano  più nella pelle e, prima ancora che i lavori vengano avviati, già vedono svettare sulla collina la statua che ancora non c' è. Scriveva  Pavel Kohout, il candido cantore di quegli anni: «Alto sopra la spalliera dei larici e dei viburni assopiti, / intessuto e sognato di marmo e di stelle, / nel so rriso nostro Stalin sorride, / sicura sentinella dei nostri lunghi cammini».Ma a partire dalla solenne inaugurazione di quel «colossale monumento al servilismo ceco e allo stesso tempo alla sua gigantomania» (V. Cerny), avviene però un fatto straordinario: il monumento ormai completato sembra non produrre più scrittura. La relazione segreta di Krusciov al XX Congresso del PCUS del febbraio 1956 (pur recepita in ritardo) spinge i censori alla cautela, gli scrittori al silenzio. La surrealista Eva Medkova scatta al monumento una foto: la macchina fotografica è puntata su Stalin, ma è quasi attaccata al piedistallo, molto in basso. Il risultato è un fantasma irreale, la punta di una scarpa, la piega del pastrano: un' assenza. Un' assenza a cui darà corpo l' esplosione del 20 agosto 1962.  L' esplosione della statua di Stalin, incipit anticipato della Primavera di Praga, darà l' avvio a un revival del monumento che prenderà a riapparire per interposta figura, per allegoria, talvolta persino nella sua ingombrante fisicità. Ma, nel suo primo ritorno, appare solo nella propria assenza. Ciò avviene nel finale del bel cortometraggio di Pavel Juracek Una persona da appoggiare (1963). L' inquadratura si allarga mostrando in lontananza il piedistallo vuoto del monumento. La cinepresa comincia a scendere sui gradini della scalinata. Lo sfondo sonoro trasmette il tonfo ripetuto di una caduta. Quel piedistallo vuoto però inquieta. Si cerca di esorcizzarlo, immaginandoci sopra schermi da proiezione per statisti intercambiabili, o magari uno Svejk da disegno di Lada. In una vignetta uscita il 10 agosto 1968, davanti a un attonito passante un piedistallo vuoto proietta sul muro l' ombra allarmante di un oratore in piena azione: il braccio alzato, un libro stretto nell' altra mano. Aveva ragione Bohumil Hrabal: «Che le lasciassero in pace le statue di Praga...».

 

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