domenica 6 settembre 2020

QUANDO COMINCIA LA CANZONE NAPOLETANA?

 

La data, non dico di inizio, ma insomma quasi, è il 1835! Ancor prima del “succede un quarantotto”, prima delle guerre d’Indipendenza, di Garibaldi, del matrimonio di Franz Joseph e Sissi, di Cavour, della Contessa di Castiglione. Per l’appunto è in quest’anno, che tradizionalmente si fa cominciare la storia della canzone napoletana, anche se qualcuno però pospone al 1839; Un inizio che ha il suggello di uno straordinario successo di una canzoncina, scritta da un certo Sacco, ma impreziosita da un’aria composta nientemeno che da Donizetti, che fa il giro di tutti gli Stati d’Italia, con epicentro però a Napoli, quella città che qualche anno dopo, sempre un’altra famosa canzonetta etichetterà come “Chisto è ‘o paese d’o sole!”. Quella Napoli, con il retaggio di antica capitale imperiale, e dove ancora moltissimi ricordavano il Maresciallo dell’Impero, Gioacchino Murat, coi suoi pennacchi, le uniformi sfavillantin con moglie una sorella di Napoleone, famoso per la sua irruenza e le travolgenti cariche di cavalleria, che accompagnato nel suo insediamento a nuovo Re di Napoli dal segno infausto e temutissimo dalla popolazione partenopea del mancato sciogliersi del sangue di san Gennaro, aveva radunato i preti e senza tanti preamboli li aveva avvertiti che se l’indomani il sangue non si fosse sciolto, avrebbe tagliato a tutti la testa; risultato: alla ripetizione del “miracolo” il sangue non si era limitato a sciogliersi, ma addirittura a bollire. Ma parlavamo del successo di quella canzoncina, un successo travolgente, quello che anni dopo avrebbe avuto l’epiteto di “tormentone”, ma che certo non doveva durare una sola estate….appunto quella “Te voglio bene assaje” dalla musica deliziosa di cui anche le parole, seppur non certo originali, accarezzavano il gusto, i sentimenti, che forse non hanno epoca, ed il cui seguito non proprio esaltante “e tu nun pienze a me” accentuava anche la sottesa malinconia dell’amore non corrisposto, impossibile, a volte tragico, cavallo di battaglia dell’ancora imperversante movimento romantico, nell’anno di grazia 1835 o anche 1839. Per quanto l'origine della canzone sia tuttora oggetto di discussione, è certo che essa ebbe immediatamente un enorme successo, dato che in pochi mesi furono vendute ben 180.000 copielle, ossia gli spartiti e le parole, stampati e distribuiti su foglio. Inoltre per molte edizioni della Festa di Piedigrotta questa canzone fu intonata quasi ad inno ufficiale della musica napoletana. La risonanza della canzone fu tale che il giornalista Raffaele Tommasi, sul settimanale letterario "Omnibus" disse "Sfido chiunque dei miei lettori a dare un passo, o a ficcarsi in un luogo dove il suo orecchio non sia ferito all'acuto suono di una canzone, che da non molto da noi introdottasi, trovasi sulle bocche di tutti, ed è venuta in sì gran fama da destar l'invidia dei più valenti compositori". L'ossessionante ubiquità della melodia, cantata in tutta la città, e anche fuori Napoli, provocava come abbiamo visto articoli di giornali, commenti di ogni genere e anche a volte poesiole come quella di un nobile napoletano che diceva “Matina, juorno e sera fanno sta tiritera, che siente addò te vuote, che siente addò tu vaje I te vojo bene assaje e tu nun pienze a me”. Il fatto però che le “copielle” erano già diffusissime, fa pensare che sì “Te voglio bene assaje” fu la prima canzone di grande successo, ma che si inseriva in un contesto già ricco di storia e tradizione musicale quale quello partenopeo. Le “copielle” erano dei fogli che contenevano testi e spartiti di canzoncine particolarmente in voga che venivano vendute in negozi musicali, nelle prime case editrici musicali, ma anche da musicisti itineranti che suonavano in varie parti della città e in special modo, chissà perché, davanti le stazioni di posta e per tale motivo furono detti “posteggiatori”; e la “posteggia”, appunto, corredata di copielle, per cui ognuno che avesse qualche rudimento di musica poteva replicare il refrain, si era andata diffondendo già ben prima del grande successo di “Te voglio bene assaje”. Dobbiamo a Guglielmo Cottrau, un francese di Strasburgo che si trasferì a Napoli al seguito di Murat e naturalizzato napoletano con il ritorno dei Borboni, il recupero di buona parte del patrimonio musicale partenopeo che risaliva addirittura a Federico II di Svevia e aveva pieces di diffusione internazionale tipo la “villanella alla napoletana” del ‘500 e la ben più famosa “tarantella seicentesca”, la “pizzica”. Questo ricchissimo patrimonio inglobava tradizioni musicali di un po’ tutto il meridione, Sicilia compresa (i Reali domini al di là del Faro), e Cottrau, che era tra l’altro stimato amico di Bellini e Donizetti, enfatizzando la composizione, magari rielaborata di antiche canzoni e ballate, tramite tali “copielle” assicurò la continuità e anche la ulteriore diffusione della tradizione musicale partenopea e meridionale; inoltre con la pubblicazione di veri e propri saggi, tipo i “Passatempi musicali “che uscirono in 6 fascicoli dal 1827 al 1847 e nel ‘41 “Les mélodies de Naples et ses environs” scritto in francese e pubblicato a Parigi, aveva dato un suggello dotto e culturale all’argomento con una diffusione internazionale. Ma lo stesso Cottrau proprio in merito alla canzone che abbiamo eletto a pretesto di questa dissertazione, una decina d’anni dopo (o sei anni, secondo l’altra interpretazione) nel dicembre 1845, esprimeva in una lettera alla madre il suo disorientamento di fronte ad un successo che evidentemente non accennava a diminuire. Un grande, grandissimo successo dunque a monte della grande tradizione della canzone napoletana, ma anche diverse occasioni di diffusione più capillari e popolari tipo la “posteggia” e la circolazione delle “copielle”, oltre che un altro particolare meccanismo che si cominciò a diffondere nello stesso periodo, la cosiddetta “periodica” che quasi certamente ebbe la ventura di portare a battesimo proprio lo strepitoso successo di Sacco e Donizetti. Le “periodiche” erano una sorta di riunioni settimanali, festose e spensierate che si svolgevano tra famiglie amiche, ma aperte all’occasionale partecipazione popolare che arricchiva l’atmosfera, impadronendosi delle melodie più accattivanti e contribuendo in questo modo alla diffusione per tutta la città. In seguito le “periodiche” riuscirono a trovare una vera e propria istituzionalità in feste organizzate, tipo quella famosissima di Piedigrotta, costituendo nel contempo, grazie appunto alla loro periodicità, un antecedente del Cafè-Chantant. Il luogo di queste manifestazioni era quanto mai variegato: poteva essere un salotto, una terrazza, ma più spesso e volentieri era una strada, una piazza, un cortile, dove si ballava ma soprattutto si cantava e fu esattamente là dove non pochi dei grandi artisti che contrassegnarono la grande stagione della canzone partenopea, Maldacea, Narciso, Ersilia Sampieri, Elvira Donnarumma, si fecero le ossa. Alle Posteggie, alle periodiche e alle copielle, nei successivi decenni si aggiunsero per diffondere musica e canto altri espedienti: i cosiddetti “casotti”, dei rudimentali teatrini allestiti alla meglio in un basso o in una baracca; il frequentissimo “pianino ambulante”, che forse ancora oggi è possibile vedere e ascoltare in qualche vicolo a ridosso del Pallonetto e della Pigna Secca, e che davvero portava la canzone in ogni angolo della città. Napoli dopo il passaggio al regno d’Italia nel 1861, è sempre una grande città, molto più grande delle capitali che si successero: Torino, Firenze e anche della stessa Roma, che nel 1870 non contava neppure duecentomila anime. Napoli col suo spirito allegro e canterino doveva moltiplicare i luoghi di incontro, i caffè, le osterie, le birrerie, dove le precedenti occasioni per “pazzià” si andavano sempre facendo più stanziali e meno occasionali. Dalla strada la canzone passò al piccolo palco, alla pedana, al gazebo di un caffè che di lì a poco assumerà la dicitura francesizzante di “Chantant”...o cafè sciantant!. Due anni dopo l’unità, nel 1863, c’era stato il ripetersi di uno strepitoso successo, non della proporzione di “Te voglio bene assaje”, ma insomma tale da meritare l’interessamento di un Salvatore Di Giacomo che ne registrò l’evento: “Dimme ‘na vota sì”. “Un giorno“ racconta appunto Di Giacomo “capitò nel negozio di musica di Federico Girard, Totonno Castelmezzano che mostrò ad un compositore emergente che frequentava il negozio, Carlo Scalisi, i versi di una canzone che aveva comperato per due centesimi, chiedendogli di improvvisare un motivo. In quattro e quattr'otto la canzone era composta e tutti i frequentatori del negozio applaudendo presero a cantarla in coro”; Girad molto oculatamente si assicurò subito l’esclusiva per il suo catalogo e “Dimme ‘na vota sì” quasi eguagliò il successo di “Te voglio bene assaje”. Intorno agli anni settanta dell’ottocento la Festa di Piedigrotta che era stata in verità poco più di una periodica e posteggia e che era ulteriormente decaduta con la fine del Regno Borbone, non essendo più accompagnata da parate militari e dalla presenza dei Reali, riprese vigore e divenne in breve la maggiore occasione per la presentazione delle nuove canzoni da parte delle case musicali. Fu proprio durante la Piedigrotta del 1880 che esplose il terzo strepitoso successo della canzone napoletana, quello di “Funiculì, funiculà”. Ed è con questo terzo grande successo, il cui testo scritto dal giornalista Giuseppe Turco era ispirato al fatto di cronaca dell’inaugurazione della funicolare di Napoli per il Vesuvio, e la cui musica, influenzata dalla canzone popolare “lo zoccolaro”, sviluppata e arrangiata con sapiente maestria dal compositore Luigi Denza, pubblicata dalla storica Casa Editrice Musicale Ricordi, che si entra nella grande stagione della canzone napoletana, quella conosciuta in tutto il mondo con centinaia di canzoni stupende e colonna sonora di un mondo incantato, quasi magico, fatto delle atmosfere del cafè chantant, dei teatri, dei saloni, che, come la pizza, prendono il nome della Regina Margherita, con le sue sciantose, gli artisti straordinari, le passeggiate per l’elegante Via Caracciolo, gli ufficiali in alta uniforme, i landò, le bellissime donne, ma anche le miserie dei bassi, i vicoli sudici, la miseria e la struggente malinconia di “Partono 'e bastimente pe' terre assaje luntane..”dalla canzone “Santa Lucia luntana” di E.A.Mario, il compositore di “La Canzone del Piave” che quasi a ratifica di un mondo che oramai la prima guerra mondiale aveva cancellato, scrisse nel 1919.







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