giovedì 1 ottobre 2020

LA MALATTIA DI DRACULA

 

Il cinema è stato enormemente influenzato dalla letteratura, e i romanzi di genere orrorifico non fanno certo eccezione: dal Dr.Jeckill e mister Hide di Stevenson (capirai Fredrich March, Spencer Tracy e anche una originale interpretazione del nostro Albertazzi) all’uomo lupo (Lon Chaney), Frankestein (Boris Karolf); Ma da quasi subito, il più rappresentativo, il più famoso, il più inossidabile, è lui….Dracula il vampiro. Come mai questo personaggio incontra un successo così straordinario e dopo averlo un pò diviso con Frankestein (diciamo Bela Lugosi-Boris Karlof), con il film del ’58 di Fisher e quindi Cristhofer Lee, diventa incontrastato? L’atto letterario di origine dei due mostri è comune, addirittura circostanziato: quella riunione nella Villa Diodati vicino Ginevra nel maggio 1816, di quel po po di letterati, Byron in testa, Shelley e la sua fidanzata Mary, Polidori, in cui decidono di fare quella curiosa gara sul chi scriverà il più originale racconto dell’orrore. Il periodo è particolare, diremmo oggi di riflusso: finite le grandi battaglie, le uniformi rutilanti, gli altisonanti bollettini delle battaglie, Marengo, Austerliz, Jena, Wagram, ora la chiusa è su Waterloo, dove l’epopea napoleonica viene cancellata, e tutti quegli “spriti guerrieri che in qualcuno ancora ruggono, si contentano di una villa suburbana, di disarmante tranquillità che può essere vivacizzata solo da qualche storiella un po’ fuori le righe. In prima battuta la vincitrice della gara è lei Mary Godwin Wollstonecraft, fidanzata di Percy Bysshe Shelley, con Frankstein, mentre il Vampiro di John William Polidori è per il momento in sott’ordine. Mentre difatti il mostro ricomposto da pezzi di cadaveri si inscrive subito nell’immaginario collettivo mondiale, il Vampiro che tra l’altro era l’evoluzione del racconto abbozzato da Byron, sul quale probabilmente Polidori rappresentava lo stesso Lord Byron, nei suoi aspetti più inquietanti (infatti il nome del protagonista, “Lord Ruthven”, riprendeva il nome del protagonista del racconto “Glenarvon” di Lady Caroline Lamb, una giovane scrittrice che aveva avuto una tormentosa storia d’amore, appunto con Byron che lo aveva inteso rappresentare, nella figura del crudele Ruthven Glenarvon); tra l’altro quell’originario vampiro di Polidori più che il sangue succhiava lo spirito delle persone e su tale peculiarità solo Dreyer insisterà col suo Vampyr del 1931 un , un anno prima dello straordinario successo del Dracula con Lugosi. In verità prima della consacrazione del Vampiro come lo conosciamo e addirittura con l’associazione con quel nome Dracula effettuata da Bram Stoker nel 1897, dobbiamo soffermarci sullo scrittore irlandese Joseph Sheridan Le Fanu che aveva creato un vampiro al femminile Carmilla, che aveva ripreso si, Polidori, ma anche la Christabel di Samuel Taylor Coleridge e così aveva inaugurato la peculiarità del succhiare il sangue che doveva appunto anticipare il molto più famoso epigono maschile. Bram Stoker, il quale trasse l’ispirazione del suo “Dracula” dall’incontro con un professore ungherese, esperto di storie orrorifiche che circolavano tra “i cupi Carpazi” dove aleggiava una sorta di diceria/ leggenda in merito alla spaventosa crudeltà del principe rumeno Vlad Ţapeş Dracul, un personaggio realmente esistito e citato persino da Papa Pio II Piccolomini come difensore della Cristianità, fondatore di Bucarest, con una serie di castelli disseminati nella Transilvania e in gioco per il predominio nella Regione contro il proprio fratello Radu, e che era stato legato a personaggi del calibro di Matteo Corvino: il termine Dracula derivava dall’ordine del Drago (Dracul) che aveva ereditato dal nonno Mircea il vecchio e in quanto alla diceria di crudeltà derivava da una pratica che aveva acquisito dai turchi, ovvero l’impalamento, un tremendo supplizio che consisteva nell’infilare un aguzzo legno nell’ano del malcapitato e farglielo uscire dalla nuca e che lui aveva portato alla perfezione spalmando il palo di grasso e facendo in modo di non toccare organi vitali, sicché l’agonia potesse durare a lungo. Non è un caso che il suo soprannome non era Dracula, ma “Vlad l’Impalatore” ma Stoker che impiegò sette anni per scrivere il libro studiando la cultura e le tradizioni della Transilvania, dei Carpazi e di tutta l’area Balcanica, finì per optare per quel nome Dracula che doveva imprimersi nell’immaginario collettivo di tutta Europa e successivamente anche d’oltre oceano. Oltre a quella particolarità del succhiare il sangue, però, assieme al nome Dracula, cominciava a diffondersi tutto quell’armamentario di paletti nel cuore, aglio, crocifisso, paura della luce, dormire nella bara, mancata riflessione nello specchio che solo in parte facevano parte del nucleo della leggenda, e che non è così scontato come possano essersi andati a sovrapporre alla storia. Io personalmente sono stato in Transilvania nei primi anni settanta e devo dire che rimasi abbastanza colpito dall’usanza che c’era di lasciare grandi quantità di carne essiccata che mandava un cattivo odore e mazzi di aglio, forse per lenirlo; ma dai…e con la luce del sole come la metti, e con lo specchio? con il dormire nella bara? Tutta roba che non si spiega così a primo acchitto! Se ci mettiamo a fare un po’ come il Freud del caso dell’uomo dei lupi, pian pianino qualche spiegazione la si trova, ecco magari non sarà tutta farina del sacco di Stoker, ma su tutto quello che si è andati a costruire sul personaggio di Dracula certamente si! Io considero la malattia il vero unico assoluto orrore dell’esistenza!? Ebbene io azzardo nel dire che lo straordinario riscontro del personaggio Dracula, così come si è andato costituendo nella nostra cultura, è dovuto al fatto che è andato a ingagliarsi in una metafora della malattia. Dracula non è il mostro dai denti aguzzi, col mantello nero, che dorme in una bara e succhia il sangue dal collo delle belle fanciulle, in verità è un uomo malato, malatissimo, addirittura terminale, quindi è ancora vivo, ma propriamente è come se fosse morto, ecco è un “non-morto”, e in genere cosa fa una persona del genere nel consesso dei viventi? vive per protesi e di raccatto, non succhia propriamente il sangue, ma è come se lo facesse, succhia la linfa vitale delle persone che gli sono d’attorno: le estenua le s-finisce, è quanto di più “per-verso”,anzi io preciserei “in-verso” che possa concepirsi. Ho letto tempo fa un articolo su di una rivista medica: parlava della porfiria, una malattia assai grave che colpisce le porfirine del sangue, ebbene quali sono le caratteristiche di tale patologia? chi ne è affetto, diventa pallidissimo, emaciato e ha bisogno di continue trasfusioni di sangue (oggi magari non ci sono questi grandi problemi, ma nel quattrocento?) ammettiamo che in quel quattrocento ci fosse un qualcuno affetto da tale malattia e che per avventura questo qualcuno fosse un personaggio potente, in grado di disporre di grandi possibilità, tra cui quella di ritrovarsi una serie sterminata di gente che agonizzava su di un palo tutta ricoperta di sangue, cosa credi che facesse nella notte buia (già perché c’è questa altra peculiarità dei malati di porfiria, che non sopportano la luce del sole, anzi gli è estremamente tossica, tant’è che tende a bruciare le gengive e i denti scendono giù producendo quell’effetto di dentatura sporgente con risalto dell’aguzzo dei canini.) e Vlad Tapes a detta dei contemporanei, girava sempre di notte e più di una volta fu visto avvicinarsi ad un agonizzante sul palo e….cercare di surgere quel sangue di cui aveva grande bisogno. Un malato di porfiria del ‘400? Probabilmente non era l’unico, ma l’unico tanto potente e conosciuto da inscriversi nell’immaginario collettivo di un’intera popolazione e arrivare quasi intatto dopo oltre quattro secoli, alla fantasia e sensibilità di uno scrittore in cerca di storie “sensazionali” E non è mica finita: le leggende, la storia, il sentito dire addirittura degli usi e costumi di una intera regione, vanno a braccetto con documentazioni scientifiche assai recenti, ma che più o meno consciamente, erano state registrate nella costruzione di un mito: una delle peculiarità più tipica del vampiro, la sua avversione per l’aglio è anch’essa parte integrante della sintomatologia della malattia della porfiria: l’anillina contenuta nell’aglio, è fortemente tossica per tali malati, e in Transilvania, come ho fatto cenno i caschi di aglio sono messi in bella vista quasi ad ogni porta : antichi ricordi divenuti abitudine e costume con reminiscenze di un passato orrore, o solo un espediente per coprire il forte odore di carne essiccata? . Si è fatto cenno al Freud dell’uomo dei lupi, per il tipo di indagine dettagliatissima e circostanziata su di un sogno che porta a delle conseguenze di interpretazioni assolutamente sconvolgenti, ecco!!! la psicoanalisi è l’ulteriore e, diciamo così, ultimo tassello per una indagine sul mito del Vampiro, che prende in esame la componente forse più inquietante : quella che il vampiro non si riflette nello specchio! Da Freud passiamo a Lacan, che sullo specchio ha fatto la base della sua teoria, in quanto è dallo specchio che parte la percezione di sè stessi, il famoso Io, che è solo tale grazie alla riflessione che si riconosce, sostituendo alla percezione per parti staccate, quella totalizzante giustappunto data dalla riflessione di sè nello specchio…ora che vuoi che percezione possa avere una persona malata, all'ultimo stadio, un“non-morto”?...nessuna!…..è...mancante! ”. Così mettici anche un po' di psicoanalisi nel mito di Dracula, anche se certo non puoi attribuirla a Stoker, e sul resto degli armamentari, la bara, la croce, il paletto nel cuore aggiungici qualche osservazione di Erich Fromm sui suoi studi sulla necrofilia e sui meccanismi che la legano a doppio filo alla malattia e alla menomazione, e vedi un pò se il quadretto non è bello che composto: DRACULA = MALATTIA. I vampiri sono mostri che non si riflettono nello specchio, ecco perchè forse sono sempre i più attinenti agli stati della nostra inquietudine, eludono il famoso scopettino di Lacan (la fase dello specchio), nessuna riflessione, nessuna distinzione tra il tutto e la parte, nessuna anticipazione, ma una sorta di fermo in quell'attimo eternizzato tra il Narciso e la morte. Si dipartono  da qui, un’altra serie di considerazioni che si collocano al limite tra lo specchio e la riflessione:  come insinuata tra il retro e l'avanti dello specchio, non poteva che starci lei, il femminile, nel suo sempre inquietante porsi della fascinazione estrema, ovvero il “de-sidera” che si carica di ulteriori  valenze, anche molto più vicine a noi di romanzi dell’ottocento e di trasposizioni cinematografiche anteguerra. Alludo al film di Roman Polansky “Le bal de Vampyres” da noi lo straordinario “Per favore non mordermi sul collo” dove la figura femminile della protagonista si carica di drammatici riscontri con la realtà: Eh già! La splendida Sharon Tate, che dal non riflettersi nello specchio nella sequenza finale del film in questione, assume in quell’evento di cronaca del massacro della sua villa di Bevery Hills giusto quarantanni fa, la valenza non solo di finzione cinematografica, ma di quanto mai reale rappresentazione della Morte. 


                  

 

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