Torniamo al cinema! ci sono dei film che sono rimasti come pietre miliari della storia e non solo del cinema: ne ho citati qualcuno: quasi la totalità dei film di Ernst Lubitsch, quello del famoso “tocco”, quindi Napoleon di Abel Gance e ce ne sarebbero molti molti altri, l’Orson Welles di Quarto potere e L’infernale Quinlan, Renoir, Renè Clair, i fratelli Taviani, Fellini, Bogdanovitch, Kubrick e poi i super classici, Dave Work Griffith, Esestein, Pudovkin, Bergman, però ecco! Il Gattopardo di Luchino Visconti ha una valenza particolare. Ripreso dal romanzo di Tomasi di Lampedusa, che ebbe uno strepitoso successo nel 1958.... diciamoci la verità: neppure lo vede al romanzo! è forse uno dei pochissimi casi in cui un film supera e di gran lunga l’opera da cui si è ispirato. Visconti certamente è un sommo, già assistente e allievo di Renoir, esordi’ nel 1942 con Ossessione, anche quello ripreso da un romanzo “Il postino sempre due volte” di James M Cain , soggetto non pienamente accreditato, Visconti lo utilizzava con risvolti del tutto differenti, riferiti alla realtà italiana di quegli anni, di cui giustappunto il film doveva segnare il prodromo del Neorealismo. Fu lui a filmare l’esecuzione del famoso criminale fascista Pietro Koch ed ebbe anche parte nella vicenda dell’uccisione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, due attori che conosceva personalmente, ma nel dopoguerra doveva segnare vere e proprie pieces di opere di enorme valore tipo “La Terra Trema”, da un adattamento dei Malavoglia di Verga, “Bellissima” con una straordinaria Anna Magnani e certamente il migliore film mai realizzato sul Risorgimento “Senso” con Alida Valli; con l’inizio degli anni sessanta aveva girato “Rocco e i suoi fratelli” ma ecco che nel 1962 si misurava con il romanzo di Tomasi di Lampedusa che doveva segnare uno dei momenti più alti della cinematografia italiana.Visconti era di famiglia nobile, discendente dei Visconti di Milano e giunto a Palermo aveva immediatamente contattato le più illustri famiglie della nobiltà Siciliana, coinvolgendole nella stesura del film e facendole entusiasmare, dato che in più occasioni aveva loro chiesto di fornire abiti originali, servizi, bicchieri, argenteria dei loro antenati, sì che il film è di una precisione e veridicità massima; non c’è una sbafatura tutto è rigorosamente autentico, dal mobilio, alle posate, ai calici del vino e dello champagne che doveva essere rigorosamente originale, si da produrre le relative bollicine mentre si versava... tutto! gli abiti e le uniformi degli ufficiali, prima quelle dei Garibaldini del bel Tancredi/Alain Delon, che porta la giubba rossa coi gradi di Capitano, un giovanissimo Mario Girotti ovvero il futuro Terence Hill e anche Giuliano Gemma che ha i gradi di generale, poi in occasione del grande e famosissimo ballo, che fu girato al superbo Palazzo Gangi in Palermo, i militari con le divise sabaude alla francese del nuovo Regno d’Italia, capitanati dal Col.Pallavicini (Ivo Garrani) ovvero l’ufficiale che fece sparare a Garibaldi sull’Aspromonte, ove correttamente ritroviamo sia Alain Delon che Terence Hill retrocessi a Tenente, lasciando quindi intesa la famosa polemica in merito all’Esercito Garibaldino, denominato Esercito Meridionale, che fu proditoriamente sciolto e solo pochissimi vennero trasferiti nell’Esercito Regolare ma con un grado inferiore (il mio amico Roberto Totis a Udine mi ha fatto visionare documenti originali di un suo antenato). Difficile prendere in castagna Visconti, certo non è Bertolucci o Olmi e tanti altri, che di errori storici e di ambientazione ne hanno fatti a iosa, persino Rosi in Uomini Contro che mette al famoso Generale Leone le mostrine sul colletto, cosa assurda perché nell’Esercito della Grande Guerra,la Divisione era quaternaria, ovvera composta di 4 reggimenti suddivisi in due Brigate, o tutt’al più di Gruppi e Raggruppamenti di vari corpi, quindi il suo comandante non poteva assumerne i tratti distintivi (appunto le mostrine) di un solo reggimento o reparto; eppure, proprio chi scrive, una piccola defaillance l’ha trovata nel (quasi) perfetto film di Visconti: Paolo Stoppa che interpreta meravigliosamente il cinico e opportunista Sedara si presenta al famoso ballo con appuntata sul petto la Croce di Cavaliere, croce che immediatamente Alain Delon/Tancredi, gli butta via affermando categoricamente “questa in un ballo del genere, non basta!”. Ebbene la croce che Sedara portava sul bavero della giacca è quella dell'Ordine della Corona d’Italia, nastrino rosso e bianco, istituita per le nozze di Umberto e Margherita nel 1868, ovvero 6 anni dopo i fatti di quel famoso ballo! l’unica Croce di Cavaliere al merito civile in quel 1862 era l’Ordine dei SS.Maurizio e Lazzaro, con nastro verde. C’è poi un’altra cosa che il film neppure sfiora, ma qui siamo non in una sbafatura, ma in una sorta di mancanza di considerazione, forse di dimenticanza, ovvero la grandissima rilevanza che proprio in quello stesso periodo, dopo i fatti di Aspromonte, stava cominciando a caratterizzare Palermo e la Sicilia: quella della vicenda di Giovanni Corrao, un palermitano che assieme a Rosolino Pilo, che gli era morto tra le braccia colpito da piombo borbonico, era stato il principale organizzatore delle “Bande di picciotti” che poi erano state le veri protagoniste della vittoria. Promosso generale Corrao si era dapprima rifiutato di accettare la perdita del grado e la nomina a Colonnello dell’Esercito regolare subito dopo Teano, per riprendere le armi appunto sull’Aspromonte di nuovo con Garibaldi, rimanendo però disgustato dal comportamento verso i Garibaldini e tornato a Palermo aveva cominciato a invocare la revoca dell’annessione del Sud al Regno e riprendere la guerra fino alla liberazione di Roma . Corrao rappresentava più di ogni altro l’incarnazione dello spirito laico e rivoluzionario del garibaldinismo e la sua figura aveva ben presto infiammato gli animi siciliani costituendo un pericolo davvero fortissimo: era amatissimo dalle plebi e contava anche su amicizie di diversa entità che erano rimaste deluse dai due anni di appartenenza al Regno d’Italia. Per questo mi pare un po’ strano che Visconti nel suo film non vi abbia fatto il minimo cenno e neppure al suo assassinio nell’agosto dl 1863 in circostanze misteriosissime e che non sono mai state chiarite, ma che certamente hanno a che fare con il tipo di mafia che dismette la sua valenza puramente criminale, per cominciare quella sua relazione con il potere costituto che costituirà l’essenza stessa del fenomeno mafioso. Non è difatti un caso se Giovanni Corrao è considerato il primo ucciso di mafia della storia della Sicilia. Forse stiamo andando un po’ oltre il senso sia del romanzo che del film: pretendiamo troppo! Dobbiamo contentarci del Gran Ballo, coi suoi rutilanti costumi, con la sua perfetta ambientazione, con la musica e la leggiadria di Angelica, o magari della famosa frase del bel Tancredi/Alain Delon “si cambia tutto per non cambiare niente!” o delle sue boutades per terrorizzare l’emissario del Governo piemontese, il mite e pacioso signor Chevalley che era venuto ad offrire un posto di Senatore al Principe di Salina, inventandosi provocatoriamente storie di raccapricciante violenza e barbara crudeltà del popolo sicilano. Dobbiamo anche contentarci del discorso del principe di Salina, che poi è il senso stesso che dà titolo al romanzo e al film, laddove enfatizzata dall’interpretazione sublime di Burt Lancaster, assume una valenza straordinaria: è difatti proprio lui il Principe di Salina/Burt Lancaster, che spiega al povero Chevalley il suo spirito della sicilianità, ovvero che tutti i cambiamenti avvenuti nell’isola, più volte nel corso della storia hanno adattato il popolo siciliano ad altri “invasori”, ma non hanno mai modificato l’essenza e il carattere dei siciliani stessi. “Perché noi “siamo "Dei" dice “e non cambieremo mai” non solo siamo in presenza di un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché i siciliani hanno la più totale incapacita ‘ di modificare se’ stessi, un orgoglio che ha appunto qualcosa di “simile agli Dei” ma proprio è in questa chiave che debbono leggersi tutte le spinte contrarie all’innovazione, ai cambiamenti, ma anche a tutti i compromessi, ben evidenziati dal “cavaliere” Sedara, e dei quali il Principe Fabrizio trova quella metafora dello sciacallo “il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare” dice infine, ed a fare oggi sono solo gli sciacalli, ovvero quelli che si buttano sul corpo di un’Italia ancora da spolpare, quelli appunto del “si cambia tutto per non cambiare niente” e che fa concludere amaramente la sua invettiva …noi non facciamo più, abbiamo corso troppo, tanto tempo fa, oramai siamo stanchi, perchè “noi fummo i Gattopardi” da cui, come detto, il titolo del romanzo e poi del film.
su osservazioni e consigli del mio caro amico Paolo Letizia ho cambiato la veste grafica del blog
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