lunedì 19 ottobre 2020

UN RICORDO MOLTO ANTICO

 

Lo straordinario del racconto  è, si certo!... Il contenuto, ma anche la modalità di come si è pervenuti a tale contenuto. Un  racconto  ha sempre motivi di affezione e interesse soggettivi, magari ecco le storie si confondono, si incastrano l’una con l’altra, proprio come faceva a bella posta  Milton Erickson per ingenerare confusione e indurre  una diversa disponibilità alla ricezione di induzioni terapeutiche “mi raccontava mio nonno una storia che aveva sentito da suo padre che aveva fatto la guerra assieme ad uno che aveva uno zio che era stato coi Mille di Garibaldi….” il soggetto narrante e lo  stesso racconto  sfumano, diventano  occasioni, occasioni per confrontarci noi con tutta la nostra fantasia, con tutta la nostra capacità di ri-assumere dei fatti  e farne un qualcosa di unico, una storia ad uso e consumo del nostro personalissimo immaginario non collettivo, ma ecco semmai comunicabile ad altri, raccontando a nostra volta e farne quindi un qualcosa di partecipazione.   Uno dei “Mille” no! Salvo  ad adottare il meccanismo di Erickson  “mi raccontava mio nonno…..”è fuori bordata di racconto diretto anche per uno che oggi abbia 100 anni, ma la guerra d’Africa, la prima guerra d’Africa, quella con Menelik, Baratieri, la Regina Taitù, Ras Alula, i pittoreschi costumi etiopici e l’uniforme del  corpo di spedizione, bianca, ingiallita a bella posta con un infuso in foglie di tè, il casco rialzato e i baffi a manubrio degli ufficiali, quella poteva prendere corpo nell’atmosfera sanguigna del treno Peloritano, in corsa tra Palermo e Roma , con le poltrone dello scompartimento in velluto rosso, il manico d’argento  forma di levriero del bastone di un vecchio che non aveva ancora compiuto 90 anni e un ragazzetto di 15,  che aveva ben presto dismesso  il suo impegno verso il Bartezzaghi, ordinario rimedio alla noia del lungo percorso, per ascoltare il racconto del vecchio che era cominciato con queste parole “ noi della Brigata di Riserva seguivamo da retro la Brigata principale, che però ancora col buio della notte si era improvvisamente fermata  “che è successo? Perché siamo fermi? “ “pare che la Brigata Indigeni, quella di Albertone  si sia scontrata con quella di Arimondi  e poco dopo anche quella di Dabormida è confluita nell’ingorgo di uomini e mezzi””ecco perché Ellena ha ordinato di fermarci!” Lo capisci...” si era interrotto il vecchio “una avanzata che doveva essere improntata alla massima segretezza per  avere un minimo di possibilità di successo, si era quasi subito impantanata in quello scenario surreale dove i grandi valloni avevano il minaccioso profilo di ande e acrocori, che davano la distinta sensazione dell’agguato, come d’altronde era successo fin dalla prima azione  del nostro esercito coloniale, 9 anni prima ai famosi 500 del tenente colonnello De Cristoforis,  per opera del famigerato Ras Alula” Sfumata quindi la prima parte del piano, buttato giù dal Maggiore Tomaso Salsa, che comportava un effetto sorpresa confluendo le tre Brigate  unite, Arimondi, Dabormida e Albertone  in un unico punto prestabilito,  con la Brigata Ellena  di riserva e presidio alle chiostre montane, c’è da dire che, dopo aver perso buone un paio d’ora a riprendere i ranghi se nella prima fase dell’avanzata queste  si erano scontrate l’una con l’altra, nella seconda avevano effettuato un movimento radicalmente opposto, ovvero a  ventaglio allontanandosi una dall’altra. In effetti il piano era stato stilato senza troppa convinzione dall’ex capo di S.M. del Corpo di spedizione, Magg. Salsa che aveva avuto modo di recarsi, qualche giorno prima, in missione  presso il campo imperiale di Menelik e si era reso conto di trovarsi al cospetto si di una massa scoordinata e confusa di guerrieri,   ma di  numero,  molto, troppo elevato, nell’ordine dei centomila uomini ovvero quasi dieci volte di più delle truppe italiane e indigeni: Salsa era un ufficiale molto esperto, era in Colonia da 7 anni, si era distinto guadagnandosi in combattimento la croce di Savoia e anche la promozione al grado che  ancora lo contraddistingueva,  godeva della stima incondizionata di Baratieri che appunto lo aveva fatto suo Capo di Stato Maggiore, ma era odiatissimo dai comandanti di Brigata, in special modo da Arimondi, che col sopravvenire di nuovi complementi e ufficiali, era riuscito a farlo dismettere da quell’incarico con la scusa che  non era legittimo per un’entità di oltre 15.000 uomini  avere per capo di S.M. un semplice maggiore. Difatti era stato fatto nuovo Capo di S.M.  il Colonnello Valenzano, che era nuovo e inesperto della Colonia, però ecco, il piano di far convergere tutte e tre le brigate in unico punto indicato nell’altura del Chidame Meret  per sferrare un attacco concentrato contro l’Armata di Menelik  lo aveva redatto Salsa ed era una  sorta di ultima ratio per non dover continuare a subire l’accerchiamento che gli abissini stavano effettuando con anche una certa abilità, dato che  non solo Menelik, ma anche molti Ras come Makonnen, Mangascià  o il già citato Alula, erano dei comandanti espertissimi e raffinati che avrebbero ben figurato in un consesso  strategico tipo esercito tedesco:  difatti  avevano colto  la scusa di fare da scorta e protezione al Maggiore Galliano dopo la difesa del Forte di Makallè, nel lungo percorso  fino allo schieramento italiano,  per avvicinarsi senza colpo ferire alle posizioni  di difesa più  avanzate, andando a costituire quella incombente minaccia che aveva spinto Baratieri, specie dopo il famoso telegramma di Crispi che lo accusava di “tisi militare” a precedere all’azzardatissima esecuzione di un piano che si avrebbe anche potuto riuscire, ma abbisognava che ci fossero non solo ben altri comandanti, ma anche un diverso tipo di cartografia che con la sua macroscopica imprecisione fu anch’essa  principale causa della disfatta. Il racconto proseguiva anche sul ponte del traghetto tra Messina e Villa san Giovanni, dove erano andati a fare quattro passi e il vecchio signore faceva un mucchio di nomi, il mitico Galliano eroe di Makalle che persino il kaiser Guglielmo aveva voluto insignire di una decorazione al valore  e che sarebbe morto di lì a poco, proprio nel corso della battaglia di Adua , sembra per aver apostrofato di “kansir “ porco,  Menelik,  facendo saltare i nervi ad un guerriero  che gli aveva tagliato la testa di netto, i tre, anzi quattro comandanti di Brigata, dato che c’era anche Ellena il cte dell’Armata di Riserva di cui faceva parte lui inquadrato nel battaglione alpini comandato dal Ten.Col. Menini; si capiva che aveva una sorta di venerazione per il più volte citato Maggiore Salsa  e poi c’erano Enrico caviglia che era capitano di Stato maggiore ed un altro capitano che invece lui non aveva mai sentito nominare ed era una specie di cattiva, o meglio buona coscienza di tutto il corpo di spedizione, si chiamava Mario Bassi ed era il principale aiutante di Salsa, un ufficiale coltissimo e intelligentissimo, uscito primo di corso dai corsi di Scuola di Guerra, che era sempre stato fuori dal coro della retorica imperante, rilevando con assoluta l’imparzialità il valor del nemico e di converso la pochezza dei generali italiani colle loro rivalità e  gelosie che furono un’altra componente della ragioni della disfatta; contrariamente a quasi tutto l’entourage di ufficiali che erano convinti  di una innata superiorità  sugli indigeni, sempre in posa coi loro baffoni, la fascia azzurra sull’uniforme coloniale, la sciabola, il capitano Mario Bassi analizzava lucidamente i fatti e aveva lasciato un diario, che se fosse stato minimamente preso in considerazione, non ci sarebbe mai stato una disfatta di Adua:  il vecchio del “Peloritano” lo ricordava nitidamente e forse ne aveva una stima addirittura superiore a quella di Salsa, immettendo nel ragazzino una curiosità di documentarsi, che aveva avuto col suo ritorno a Roma  un episodio quasi causale:  percorrendo difatti la grande corte porticata del cimitero del Verano si era trovato davanti la lapide del capitano che il vecchio ricordava con tanta passione e anche questo aveva contribuito perche al racconto del vecchio signore cominciasse ad aggiungere una analisi dei fatti meno personalistica e meno  fantasiosa. Il racconto dei fatti era ripreso colle Brigate che dopo lo scontro tra di loro, che aveva imposto una lunga sosta e Arimondi che aveva dovuto far sfilare tutta la Brigata Indigeni di Albertone, si aprivano a ventaglio nella grande piana circondata da monti, del teatro  di operazioni.
In forza di tale fatto il  generale Albertone  era  arrivato in perfetto orario su quello che secondo la sua mappa era l’obiettivo del punto di incontro colle altre Brigate  ovvero il Chidane Meret, ma le espertissime guide indigene gli fecero subito presente   che quello è il colle Erarà,  non il Chidane Meret  che  era all’incirca 8 km. più avanti. Il generale sapeva  benissimo che errore della carta o no quello era il luogo dell’appuntamento, ma decise di andare ancora avanti per raggiungere il vero Chidane Meret. A seguito di questa decisione, si perse ogni probabilità, qualora ve ne fossero mai state, di vincere la battaglia, perché la distanza tra le Brigate si andava facendo sempre più pronunciata  e la possibilità di colpire unite, anche se certamente non più di sorpresa, l’Armata di Menelik sempre più remota. Va qui notata una ulteriore nota dolente, caratteristica dell’atmosfera aleggiante nel consesso degli ufficiali  di più alto grado, ma che era avvertita anche dall’ultimo soldato : la disistima verso il comandante in capo, ovvero Baratieri, considerato un parvenu della gerarchia militare e anche un inetto e un codardo : in Arimondi tale sentimento era assoluto, tant’è che aveva tacciato il suo superiore di onanismo militare, ma anche Albertone che era senza dubbio un ufficiale capace e competente, conosceva bene la prudenza del comandante in capo e  temendo che potesse bloccarlo, pensò bene di sfruttare l’errore di cartografia per raggiungere il vero Chidame Meret  che era a ridosso del campo di Menelik, quindi oltrepassò deliberatamente la posizione assegnatagli spinto da una volontà offensiva, sicuramente estranea al piano preparato da Salsa; a questo punto i racconti e anche i resoconti  storici ci dicono poco, in quel diradarsi della luce che faceva sempre meno minacciosi i profili  delle ande, degli acrocori, dei colli e monti,  ed anzi suggeriva una sorta di invito a andare avanti, a tentare, ad osare, la psicologia del neo generale (era stato promosso da pochi giorni)  dovette pensare di poter conseguire  da solo quel grande successo, che Salsa aveva prospettato ma solo a Brigate congiunte : cogliere di sorpresa il campo abissino  e annientarlo col suo potentissimo parco di artiglierie, reparti scelti e ufficiali di prim’ordine, ecco tipo il maggiore Turritto, comandante del battaglione d’avanguardia, un vecchio della Colonia, espertissimo e famoso per il suo coraggio,  e gli aveva ordinato di spingersi in avanguardia, precedendo di parecchio la Brigata . Ma Turritto era troppo esperto  per non considerare la stranezza di quella avanzata senza incontrare resistenza  e si fermò quando la sua guida lo avvisò che si erano lasciati alle spalle da un pezzo il monte Raio, che secondo la mappa sarebbe dovuto essere  alla destra del  Chidane Meret;  Albertone lo investì con durezza  chiedendogli ragione della sosta. “Vada avanti, non voglio esitazioni. Ha forse paura?”. Capirai dire una frase simile ad un ufficiale superiore di quel periodo, con la fama di indomito comandante, significava spingerlo all’attacco anche più sconsiderato, e così il battaglione di  Turitto  andò in avanguardia  con mezz’ora di anticipo sul resto della Brigata. Un’enormità!  Mezz’ora significa difatti un minimo di  3 chilometri, ovvero una distanza che avrebbe impedito qualsiasi soccorso nel caso di impatto col nemico. Un errore che nemmeno un sottotenente avrebbe compiuto, e che può giustificarsi solo con la particolare psicologia  che informava i due ufficiali : quella di Albertone che temeva un’ordine di Baratieri di ritirarsi e quindi potesse defraudarlo di un clamoroso risultato che oramai considerava a portata di mano, anzi di cannone, e quella di un subalterno che si era sentito tacciare di codardia :  Il battaglione di Turitto serviva proprio da esca :  cercare il contatto col nemico e  una volta iniziato il combattimento scongiurare l’ordine di ritirata di Baratieri; le due Brigate di Arimondi e di Dabormida, contava Albertone, sarebbero arrivate dopo, di rincalzo, diciamo a cose quasi fatte,  a suffragare quello che lui, solo lui, aveva condotto con ardimento e maestria. Albertone era stato a lungo ufficiale addetto allo Stato maggiore del gen. Baldissera un ufficiale di ben altra pasta di Baratieri, che aveva una particolarità di grande importanza, non proveniva né dai ranghi degli ufficiali savoiardi cui difettavano competenza e anche una tradizione di “vittorie sul campo”, né dagli impreparatissimi garibaldini, quale appunto era stato Baratieri:  proveniva dal severo e glorioso esercito asburgico di Sua Maestà Imperiale Francesco Giuseppe, e prima di passare con l’annessione del veneto in quello italiano, vi si era anche distinto guadagnandosi nella campagna contro i Prussiani del ‘66, la croce di Cavaliere dell’Ordine di Maria Teresa, una decorazione la cui motivazione di concessione  suonava alquanto  paradossale:  veniva difatti concessa a quegli ufficiali che contravvenendo alle disposizioni superiori, si assumevano la responsabilità di cambiare i piani di battaglia e prendevano l’iniziativa di attaccare il nemico (una motivazione quanto mai appropriata, diremmo oggi “sputata”,  alla contingenza  di quel momento nella luce oramai diffusa  del 1 marzo 1896 tra i colli Erarà, Chidame Meret e l’obiettivo del Campo di Menelik). La caratteristica  della decorazione però  era anche quella di applicarsi solo al successo, se difatti l’iniziativa falliva, per l’ufficiale in questione c’era la Corte Marziale. Solo intorno alle sette del mattino, con la situazione oramai  irreversibile e tale quindi da non poter essere annullata, Albertone finalmente si decise di inviare un dispaccio a Baratieri : “Ore 6:50. Colle di Chidane Meret è stato occupato all’insaputa del nemico alle ore 5:00. Il nemico è tutto attorno ad Adua e dentro Marian Sciauitò. Il primo battaglione spintosi avanti al colle si è impegnato vivamente, è però sostenuto dalle bande dell’Hamasen. Il sesto battaglione occupa una forte altura di destra. Gli altri due battaglioni stanno ammassandosi con l’artiglieria. Prevedo certo un serio impegno. Avanzi la brigata Arimondi a rincalzo. Sarebbe molto opportuna avanzata brigata Dabormida che chiamerebbe a sé parte del nemico.” Una situazione prospettata con indubbio ottimismo e tale da non lasciare adito a repliche, ma in verità il maggiore Turritto che era arrivato a contatto col nemico, poco aveva potuto contro decine di migliaia di guerrieri e già stava ritirandosi, senza poter usufruire dei rinforzi della Brigata  per l’enorme distanza che vi aveva frapposta. Un quarto d’ora dopo aver inviato il biglietto, con il battaglione di avanguardia annientato,  però anche la Brigata arrivò in vista del nemico e Albertone ordinò il fuoco del suo potentissimo parco di artiglierie, quelle indigene e soprattutto quelle “Siciliane” il cui portamento rimase leggendario: il precisissimo tiro difatti, scompaginò le file degli abissini e la crisi dell’esercito di Menelik, che stava subendo  perdite ingentissime, era lampante: ovvia e naturale la domanda “ se un terzo della forza italiana stava quasi per sconfiggere tutta l’Armata Imperiale, cosa sarebbe successo, se conformemente al piano redatto da Salsa, tutte e tre le Brigate, più quella di Riserva di rincalzo, avessero attaccate congiunte?   A quel punto del racconto, il vecchio signore, che a rigore, facendo parte della Brigata Ellena e quindi assai lontano  dai fatti in questione, non era stato certo testimone oculare, adottò quella storia/leggenda dell’intervento della imperatrice Taitù moglie di Menelik, che vedendo che il marito e tutti i Ras cominciavano a tentennare, prese ad urlargli contro improperi e accuse di viltà e paura  L’incitamento di una donna, la necessità di non mostrarsi vili, fece sì che nessuno potesse arretrare senza perdere definitivamente la faccia, il che in Etiopia equivaleva a perdere la vita. A completare la scena giunse il Ras Mangascià del Tigré, negus mancato (era il figlio illegittimo del Negus Giovanni IV),  che si unì alle invettive  della donna e impose ad un tentennante Menelik di gettare nella mischia tutte le forze, inclusa la Guardia Imperiale. “Da otto anni faccio la guerra agli italiani e voi per un giorno non osate” gli urlò , e con questo la sorte della Brigara Albertone e poi delle altre tre era  segnata. Praticamente dopo questo momento la battaglia di Adua si doveva risolvere in una serie di massacri distinti e separati di un esercito che si era andato disperdendo a casaccio tra i monti e le valli del territorio etiopico:  distrutta la Brigata di Albertone , le forze abissine si riversarono contro quelle di Dabormida che tra l’altro si era erroneamente andato a cacciare nel vallone di Mariam Sciauità e quindi fu facilmente accerchiato e massacrato e poi frontalmente contro quella di Arimondi che aveva il fulcro di resistenza sul Monte Rajo e sul quale confluirono anche parecchie riserve della Brigata Ellena ivi compreso quel famoso battaglione alpini di cui la voce narrante faceva parte  e che quindi si dilungò non poco sulla morte del comandante Ten.Col. Davide Menini . Morirono anche sul campo il Gen.Arimondi e il Gen. Dabormida, mentre il Gen.Albertone venne catturato prigioniero. 
Oramai le prime case dei sobborghi di Roma si stagliavano nella sera oramai avanzata: difficile paragonarle agli acrocori, di cui il lungo racconto del vecchio signore avevano infiammato l’immaginario del ragazzetto; la notte però può fare di questi scherzi e le linee diritte spigolose dei palazzi, potevano anche  attondarsi e conformarsi ai profili descritti nella lunghissima esposizione. Aveva avuto un racconto di un testimone oculare di un fatto storico di oltre sessantacinque anni prima, ora non restava che trovare  i relativi resoconti più o meno ufficiali di quanto udito:  il Maggiore Salsa, il Capitano Bassi, Ras Makonnen, Alula, Baratieri e poi Baldissera, che  in quello stesso giorno in cui si consumava la tragedia di Adua, veleggiava verso Massaua per riprendere in mano la situazione e con la sua competenza di antico ufficiale asburgico avrebbe rimesso ogni cosa al suo posto….  Ovviamente il ragazzetto si sarebbe fatto una propria opinione di fatti e personaggi, ma col tempo quel lunghissimo racconto, contrassegnato dal rumore del treno sulle rotaie, da quell’atmosfera sanguigna dello scompartimento, dallo scorrere del panorama per buona parte marino che riempiva il finestrino, magari con una precisazione in più e con una osservazione in meno, sarebbe andato a costituire uno dei punti più fermi del suo interesse verso la storia.

 

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