venerdì 5 novembre 2021

PIU' KOJEVE CHE HEGEL

Una nuova diversa  concezione culturale innescata dal libro di Ferrero alla ri-lettura storica, come ho detto infinitamente più approfondita di quella fatta negli anni sessanta di opere di Guenon, Evola, Mircea Eliade e persino di saggi decisamente più esoterici tipo Il Mattino dei maghi di Pauwles e Bergier, le opere di Biglino sulla Bibbia e gli Elohim, e il puntuale riscontro con la sempre consideratissima psicoanalisi , soprattutto la seconda topica Freudiana, l’inconscio come insiemi infiniti di Mattè Blanco, una riesamina di molte istanze Lacaniane  ed infine una sorta di verifica alla luce di tutto il quadro della Fisica Quantistica più nella  sua specifica di equazione d’onda (Schrodinger-De Broglie-Dirac-Bell-Pauli ) che in quella particellare e matriciale di Heisenberg e Bohr, sono pervenuto in estrema vecchiezza (2021 cioè 73 anni)ad una concezione estremamente relativa in merito ad un pensiero del tutto, che ovviamente richiama la teoria di Einstein, ma anche un analisi veramente integrata dei vari cammini che la nostra mente opera di continuo, trovando una sua decisa puntualizzazione in quell’integrale sui cammini di Feynman, che si presta ad un continuo confronto con giustappunto quel “pensiero di tutto” Poteva mai essere eluso in uno di tali integrali quel confronto  con la prima istanza che catturò l’interesse di me ragazzetto ? Parlo ovviamente della filosofia così come comincio’ a presentarmisi  nel La Manna del 1 liceo classico  con le figure di Talete, Anassimede , Anassimandro, i paradossi di Zenone, Eraclito e il suo Panta Rei, ma soprattutto l’enantiodromia o Legge degli opposti. Suggestioni potenti ma non riscontrate nella figura di quello che generalmente veniva indicato come il più importante filosofo di quelle origini del pensiero  del tutto “a me questo non convince” avevo detto al professore di filosofia “mi pare troppo schematico, troppo costruito” Ora siccome quel professore era uno proprio in gamba, aperto ad ogni confronto mi si rivolse in tali termini “orbene Nardulli sai cosa facciamo? Ora in questo secondo e terzo trimestre ti chiedo solo di seguire per un po’ Aristotele che già mi pare di capire non incontrerà il tuo favore così come non lo ha incontrato Platone, ma per il resto non ti interrogherò più su nessuno degli autori del resto del programma annuale, Patristica , Scolastica tutte facezie per le quali non vale la pena di spendere il tuo talento , per fine anno ti chiedo solo di presentarmi una tesi su Platone, voglio che lo sciorini in ogni suo aspetto e vediamo se alla fine le tue critiche avranno un minimo di costrutto” Detto fatto, in quei successivi mesi feci incetta di altre fonti filosofiche Abbagnano, Spirito, persino Russel nel suo Storia della filosofia occidentale  e soprattutto i testi originali del filosofo La Repubblica, il Fedone , Apologia di Socrate, lo Ione, il Protagora, il Gorgia (detto per inciso su questi ultimi due personaggi mi si sviluppava una forte propensione che faceva  da contraltare rispetto alla filosofia di Platone ed anche di Socrate e la pretenziosità della sua maieutica).   Arrivai così al giugno con una tesi incentrata su di una feroce critica del “Concetto” e di tutte le, a mio modo  di vedere,  le panzane dell’Iperuranio, gli originali del Mondo delle idee e le copie di questo mondo terreno
“l’albero è l’albero ma chi ha mai visto l’albero in sé? Dove sta l’albero in sé?” Ma questo altro non è che un “uno che sta per molti” asserivo convinto è l’origine di tutti i dualismi, il netto opposto dell’enantiodromia Eraclitea, è anche origine di una nozione di valore : una cosa che vale e una che non vale : supposizione e anche saccenza. Non ci crederete ma anche se il professore non era della mia stessa opinione, come votazione finale, ai quadri esposti nella bacheca del Virgilio in via Giulia a Roma, figurava un eclatantissimo “dieci” Questo il mio esordio nello studio della filosofia, che avrà una sua ancora più eclatante ripetizione con un'altra figura di filosofo che proprio non sono mai riuscito a mandare giu’ Hegel e che fu oggetto di un similare meccanismo tra me e professore “d’accordo tu dici che Hegel è un baggiano, ebbene ti sfido a stilare una tesi su di lui esentandoti dal perdere tempo coi filosofi successivi, vediamo se riesci a convincermi ?“ Ed eccomi quindi appena un paio d’anni dopo alle prese con un altro grande  pretenzioso schematico che ha la presunzione di sistemizzare tutto il sapere in nome di qualche astratto principio informatore. Non mi piace neppure un po’ , d’altronde come non mi era piaciuto Platone e anche parecchi altri  Cartesio, Locke, mentre mi ero fatto molto più ricettivo con Leibniz , con Hume e soprattutto con Kant che si d’accordo la sua filosofia categoriale  può rientrare in quest’ordine di costrizione, ma perlomeno c’è la scappatoia della distinzione tra Cosa in sé e Noumeno. Con Hegel e il suo cosidetto Idealismo facciamo però ritorno alla presupponenza : la forzata dialettica , tutte quella razionalizzazione e quel suo porre sempre ogni cosa in termine di fine , fine dell’arte, fine della storia e la cosa peggiore quella sua formuletta “cio’ che è reale e’ razionale e cio’ che è razionale è reale” che balla colossale un po’ come quel suo famoso incontro con Napoleone dopo la battaglia di Jena, visto come spirito della storia: “attento Nardulli “mi aveva fatto il solito
professore, che come ho detto era uno proprio tosto, che non lo potevi certo prendere in castagna “hai toccato un tasto davvero scottante, infatti quell’episodio che hai citato dell’incontro tra Hegel e Napoleone  dopo Jena è oggetto di un profondo dibattito  dato che lo spirito incarnato della storia si identifica con quello della fine della storia,  per cui io ci andrei cauto prima di parlare di  spirito ecco in proposito ti consiglio di misurarti  con un pensatore che alla fenomenologia della storia come fine  ha dedicato una buona fetta del suo pensiero:  parlo di Alexandre Kojève, che probabilmente ti farà inorridire perche’ la sua analisi di Hegel  è indubbiamente dualista, ma molto,  molto differente dal mondo di Platone, quello delle Idee e quello delle copie terrene 
a mie richieste di ragguagli, su questo pensatore di origine russa, ma formazione francese , che lo ammetto non avevo mai sentito nominare, il buon professore si limitò a rispondere  “vedi mio caro, da un lato c’è la dialetticità della dimensione umana, abitata dalla Differenza che è la tesi e dalla Negazione  che è l’antitesi e questa è la temporalità storica, ma dall’altro c’è la sintesi conclusiva propria del sistema dialettico di una identità spaziale e statica della natura.” Kojeve all’epoca di questa  indicazione era ancora vivente  (morì nel 1968 nel pieno della contestazione giovanile di cui ebbe appena il tempo di valutarne l’impianto eminentemente ludico)
e giustappunto  era rimasto famoso  proprio per una serie di lezioni tenute alla Sorbonne di Parigi su di una analisi della Fenomenologia di Hegel:  ebbene lo ammetto all’epoca la mia integrazione di Hegel con Kojovè non fu per nulla espletata, mi limitai infatti a scoprire che  tali lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel  erano state tenute dal filosofo di origine russa 
tra il 1933 e il 1939, pubblicate solo nel 1948, col titolo di Introduction à la lecture de Hegel, a cura di R. Queneau, e avevano provocato un profondo scalpore nella cultura filosofica francese e anche lasciato una profonda impronta negli anni a venire dato che buona parte dell’intellettualità parigina – fra cui Lacan, Merleau-Ponty, Breton, Bataille e anche Benjamin, allora esule a Parigi – aveva frequentato con più o meno assiduità le lezioni di Kojève). Cogli esami di maturità classica oramai in dirittura d’arrivo ed un interesse incentrato piuttosto in Schopenauer e Nietzsche, la puntualizzazione su Kojeve ed Hegel era rimasta nelle intenzioni e solo la re-visione innescata dal libro di Ferrero su di una certa fetta di storia, assunta come paradigmatica della farsa e di tutte le menzogne che dal marzo del 2020 si erano fatte, loro si, pandemiche ed endemiche della ragione, avevano risollevato la questione postami dall’antico professore di filosofia . Una re-visione intesa anche come risposta enormemente differita nel tempo che appunto dopo oltre mezzo secolo imponeva una nuova presa di posizione. Diceva Jung che i gradienti non li scegliamo noi, sono loro che ci scelgono e potrei elencare non meno di un centinaio di questi gradienti esplosi improvvisamente e apparentemente senza alcun nesso logico che hanno contrassegnato molte mie acquisizioni non solo culturali: eventi a-casuali attribuiti all’emozione, al sentimento, a misteriosi impulsi che sempre attenendoci al solco Junghiano, rientra a tutto titolo in quell’accezione di Sincronicità arricchito dalla cooperazione con Pauli uno dei più geniali fisici quantistici del secolo. La cattività sociale della distopia del 2020, ha tra le altre cose riportato in auge quella disposizione di interesse verso il sociale e quindi anche la politica interrottasi nel 1964, certo un interesse tutto in negativo, diciamo “per disperazione” ed anche disgusto con l’emergere di squallidissimi personaggi, asserviti in toto al consumismo di forzata sanità e iper tecnologia, perseguito da pochi magnati, estremi rappresentanti di quell’Età del Bronzo bramosa di passare all’Età del ferro , ovvero l’epoca dei Servi al cui stato l’intera umanità dovrebbe soggiacere : i politici sono in prima fila di questa sub umanità desiderosa di compiacere i pochi padroni, seguita a ruota dalla classe dei medici fattasi interprete nello specifico appunto sanitario/farmaceutico, per comprendere anche tutta la gente dedita alla informazione e comunicazione anche a livello di spettacolo, che purtroppo va a comprendere anche molti intellettuali e artisti pronti ad ubbidire alla lettera al copione prefissato di un mondo come messa in scena , manierata e costretta ai dettami della menzogna e della falsificazione. La sincronicità che annovera un nuovo episodio in questo frangente di cattività (ovviamente per lo stato di oppressione indotto) riguarda quindi anche la filosofia : si precisano, anzi si intensificano le antipatie della giovinezza Platone, Aristotele, Cartesio, ma soprattutto Hegel e così come d’incanto torna in auge la indicazione del vecchio professore di precisare proprio l’odiosissimo Hegel alla luce dell’interpretazione di Kojevè sulla fenomenologia dello Spirito in riferimento alla Storia. L’errore o perlomeno la leggerezza di me diciottenne di non aver distinto tra Spirito e Fine, appena accennata dal famoso professore, tornava fuori oggi, oltre mezzo secolo dopo e con tutto il bagaglio di conoscenza acquisita in una contingenza di vera e propria distopia alla Orwell/Huxley e compagnia. Eccomi dunque , in questo finire dell’estate impegnato nella lettura proprio del saggio sulla fenomenologia di Hegel cui il professore mi aveva fatto cenno e che un mio caro amico mi aveva prontamente prodotto, per cercare di porre questo distinguo tra Spirito e Fine in relazione alla tematica storica. Troppo spesso mi ero abituato a considerare negativamente la filosofia di Hegel proprio da questa sorta di ossessione per la Morte di un qualcosa, a conclusione del suo processo dialettico: prima l’arte con la quale mi ero misurato negli anni di studio di architettura, fin quasi ad arrivare allo scherno, alla boutade “suvvia signorina “ fecevo nel mio periodo di assistente agli esami di Storia dell’architettura a qualche bella ragazza “lasciamo perdere lo stile dorico jonico o corinzio, mi parli piuttosto della morte dell’Arte in Hegel , o meglio del suo suicidio a favore de…..” domanda sospesa a cui pochissimi/e riuscivano a dare risposta; il passaggio successivo però quello che investiva la Storia in generale come Spirito e/o come Fine, si caricava in questi tempi così drammatici e cupi della nostra quotidianità (Parlo in questo novembre del 2021) molto ma molto più dirompente: anzitutto il famoso episodio dell’incontro Hegel – Napoleone dopo la battaglia di Jena : lo ammetto forse fu un tantino superficiale la mia opinione di un abbaglio del filosofo lasciatosi meramente convincere dalla gonfiatissima immagine del personaggio e non capace di guardare oltre le apparenze, e le mistificazioni di una politica e di un sociale addomesticati, insomma una sorta di ”notte nera delle vacche nere” espressione che non a caso fa da prefazione alla Fenomenologia dello Spirito che giustappunto Hegel usò e che quasi sembra ritorcerglisi contro Dedicandomi al testo originale delle lezioni degli anni trenta di Kojeve, bhe debbo ammettere che sono immediatamente rimasto colpito dalla originalissima e creativa interpretazione che egli fa del testo di Hegel concentrata soprattutto sulla famosa sezione di esso in cui si tratta della dialettica fra il servo e il signore. Anzitutto c’è da rimarcare come il termine di «fenomenologia» assume per Kojeve un significato ben più ampio e attuale di quello che ha nel testo hegeliano: egli sottolinea come il desiderio infinito, che caratterizza l’uomo e lo distingue dall’animale, non può essere soddisfatto che dal riconoscimento di un altro uomo; ma ciò non può che dar luogo a una lotta a morte, poiché solo affrontando il rischio della morte, uccidendo o venendo ucciso, l’uomo è veramente uomo. Morte, violenza sono dunque l’altra faccia della libertà dell’uomo, che deve esercitarle sia contro sé stesso, reprimendo autoritariamente la sua individualità e i suoi istinti, che nei confronti degli altri: solo la ferrea disciplina sociale, culminante nel lavoro forzato e nel Terrore può portare al completo soggiogamento della natura: come dire: ricostruendo la genesi del mondo storico e l’articolazione dello Spirito, Kojève riesce a metterne in evidenza alcuni nuclei roventi nelle figure del «Signore» e del «Servo» e il gioco fra queste e le nozioni di «Desiderio» e «Riconoscimento». Immensa è la carica eversiva di questi temi quali Kojève li fa emergere dal testo di Hegel, e quasi cogliere per la prima volta nella loro pienezza, così ha detto qualcuno dei molti studiosi del filosofo russo più che Hegel stesso, ha permesso l’affiorare in me di una sorta di revisione per interposta persona, soprattutto in merito a quell’istanza della “fine” o morte che forse un po’ troppo banalmente io avevo identificato con la parola “spirito” quasi a interpretazione del senso volgarizzato e folcloristico di tale parola che lo usa per fantasmi, folletti, revenant. Un esito a sorpresa di una sfida tra professore e allievo dilazionata per mezzo secolo e riattivatasi in un contesto sociale di contingenza che nella sua più totale irrazionalità contraddice vistosamente uno degli assiomi più perentori del filosofo giustappunto dello Spirito, quel “ciò che è reale e’ razionale e ciò che è razionale è reale” Ecco quindi che da una riesamina di Hegel attraverso Kojeve  in prima istanza  mi ha confermato quel pensiero  ferocemente avverso a certe aporie del concetto popperiano di Società Aperta identificandomi  con fierezza come uno dei suoi più acerrimi nemici, dei quali fa cenno il titolo del suo saggio più famoso “ “La Società aperta e i suoi nemici” e questo non solo in linea  teorica, ma anche pratico stante che uno dei più viscidi e subdoli allievi di Karl Popper, George Soros è senza dubbio uno di quei pochi magnati che ne ha innescato il suo inverarsi proprio nel momento presente.  L’irrazionale fa il suo ingresso nella storia proprio quando tali  pochi magnati, tipo Soros, Getes, Schwab o di lignaggio più arcaico Rotschild, Rockfeller con il supporto di   quella mentalità sinistrorsa che è solo la faccia nascosta di quella liberista bottegaia Il mito del connubio di socialismo e liberalismo (l’ho detto che queste due apparentemente antitetiche concezioni, sono in realtà le facce di una stessa medaglia ) è che una volta raggiunto  il pieno sviluppo delle forze produttive, tutte le disuguaglianze potranno essere tolte e, in un mondo in cui il lavoro è stato ormai completamente sostituito dalle macchine, gli uomini potranno tornare a una condizione preculturale, conducendo una vita pressoché animale: è la prospettiva della fine della storia, che in Hegel ha avuto probabilmente il suo primo  rappresentante. Ma il tempo storico non è però segnato soltanto, in termini marxiani, dall’escatologia del futuro, ma anche da quella finitudine che Heidegger ha indicato come propria dell’esistenza umana. È la storia stessa a essere invocata da un futuro che è fine nel duplice senso del termine: termine e compimento, conclusione e realizzazione. L’aspirazione del sistema hegeliano a cogliere il vero, cioè la totalità, diventa possibile solo quando il futuro si è estinto e la storia è giunta al suo termine. Nella rilettura che Kojève fa della Fenomenologia, la dialettica della storia si fonda sul desiderio di riconoscimento. Il desiderio è desiderio dell’altro,un po’ come l’inconscio di Lacan, che difatti come fatto cenno era un assiduo frequentatore delle lezioni di Kojevè , desiderio di ciò che l’altro desidera e insieme desiderio che l’altro ci desideri: «umano è desiderare quel che desiderano gli altri»” A questa dottrina della «fine della storia» il nome di Kojève resta legato. È Caillois che ricorda che, nella conferenza tenuta al Collegio di Sociologia nel 1937, Kojève si era soffermato su  quell’immagine di Hegel e Napoleone a Jena, che anche a me ha sempre colpito, lasciandomi però solo l’idea della spesso pronunciata  tendenza di cosidetti grandi geni di rimanere  suggestionati da cose di poco conto, palesemente  banali , quando non addirittura false, lo «spirito del mondo» a cavallo, “Dio che idiozia ! un presuntuoso arruffone, quasi totalmente gonfiato nelle sue azioni militari , preso a simbolo dello Spirito della Storia, un’altra piece di idiozia per il filosofo di questo Spirito, come le vacche nere, come il reale e razionale, come l’astuzia della ragione e altre balle del genere. Già ma è proprio con Kojeve e quindi con finalmente  l’attuarsi di una sfida lanciata oltre mezzo secolo prima che sono stato costretto ad approfondire significato e soprattutto significante di quella parola “Spirito”: La battaglia di Jena segna per Hegel una sorta di trionfo degli ideali della Rivoluzione francese, preludio dell’imminente formazione dello «Stato universale e omogeneo» prima ancora che Marx venisse ovviamente percorrendo il solco della dialettica Hegeliana, desse consistenza scientifica (cosidetta scientifica)  all’emancipazione delle masse a livello globale e di assoluta necessità. Se difatti  la Storia è la progressiva soddisfazione del desiderio di riconoscimento, quando l’intera umanità sarà riunita sotto uno Stato garante dei principi di legalità e libertà non resterà altro che rendere universale tale  assioma ovvero dare pratica concretezza ad una concezione unitaria di tutti i popoli, contrassegnato dal diffondersi globalizzato delle norme giuridiche e dall’omologazione degli stili di vita, ridotti ad uno standard che può essere inteso sia come dittatura del proletariato,  sia anche come  “american way of life  ovvero uno standard che è comune sia al comunismo che al liberismo cioè al capitalismo consumista , disvelando una sorta di omonomia . Una  «storia degli effetti»  quella suggerita da Kojève Attraverso Hegel  che approda al fin troppo discusso La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama (Rizzoli, 1992). Una prospettiva che certo Kojève avrebbe guardato con il distacco del Saggio a cui non resta che giocare con le sorti del mondo: anch’egli sdoppiato, come i protagonisti de I fiori blu di Queneau, fra il duca d’Auge, in cerca dell’azione fra i rimasugli della storia, e Cidrolin che, disteso sulla sua chiatta immobile sulla Senna, vive la «domenica della vita» e osserva il passato con l’occhio di un turista disincantato. Il concetto di «allineare le province», estendere cioè i principi dello Stato liberale o comunista che sia, questo perché l’obiettivo della lotta per il riconoscimento è raggiungere un equilibrio fra morte e vita. Equilibrio inquieto, che si realizza con la formazione delle due figure di signore e servo. Il primo è la coscienza disposta a rischiare la propria vita. Il secondo, avvinto dalla paura per la morte, cede la propria libertà, rifiuta di mettere a repentaglio la propria via, abbandona il proprio desiderio di desiderare, accetta di cedere al signore, riconoscendogli il titolo, o il diritto, di pretendere il soddisfacimento dei propri bisogni pur di riuscire a soddisfare minimamente i propri di bisogni. Detto altrimenti, allo stato nascente, l’uomo non è mai semplicemente uomo. Sempre, necessariamente ed essenzialmente, egli è o Signore o Servo. Se la realtà umana non può generarsi se non come realtà sociale, la società non è umana – almeno alla sua origine – se non a condizione di implicare un elemento di Signoria e un elemento di Servitù, esistenze “autonome” ed esistenze “dipendenti” Quest’equilibro inquieto che è la lotta per il riconoscimento è, secondo Kojève, il motore della storia. Il desiderio di poter desiderare e il desiderio di farsi desiderare innescano e contraddistinguono il rapporto sociale.. Se non c’è desiderio non c’è azione; se non c’è azione non c’è rapporto sociale; senza scelte diverse e asimmetriche da parte delle due autocoscienze implicate non c’è conflitto. Questo conflitto è alla base della nascita della storia umana. Rinunciando a rischiare la propria vita, il servo vota la sua esistenza alle dipendenze di un signore perché accetta di accontentarsi del soddisfacimento dei propri bisogni primari; accetta di barattare, per così dire, la propria libertà con la propria sopravvivenza. Al contempo, il signore, per conservare la sua autonomia, non può uccidere l’esistenza che gli si è volontariamente asservita, ma facendo leva sulla paura della morte, induce e costringe il servo a lavorare. Il lavoro nasce perciò da un atto di violenza perpetrato dal signore sul servo e consente al primo di mantenere costantemente vivo il mezzo attraverso cui avviene il suo riconoscimento. Tuttavia, – questo è il momento cruciale, che segna un punto a favore dell’interpretazione di Kojève – nel lavoro il servo non fa altro che agire sulla natura, trasformare l’oggetto naturale in un manufatto che gli consente di guadagnare l’appagamento dei propri bisogni primari, e di assicurargli quindi la vita animale. Trasformare la cosa naturale in prodotto di un lavoro significa però rendere umana la natura. Hegel afferma che la coscienza servile sopprime il suo attaccamento all’esistenza naturale in tutti i suoi elementi particolari e isolati, sino a eliminare mediante il lavoro quest’esistenza: E lavorando, il Servo diventa signore della Natura. Ora, egli è diventato il servo del Signore solo perché – all’inizio – era servo della Natura, visto che solidarizzava con essa e si subordinava alle sue leggi accettando l’istinto di conservazione. Liberando il Servo dalla Natura, il lavoro lo libera dunque anche da se stesso, dalla natura di Servo: lo libera dal Signore. Nel Mondo naturale, dato, bruto, il Servo è schiavo del Signore. Nel mondo tecnico, trasformato dal suo lavoro, egli regna – o, almeno, regnerà un giorno – da Signore assoluto. È questa Signoria che nasce dal lavoro, dalla trasformazione progressiva del mondo dato e dell’uomo dato in questo Mondo, sarà tutt’altra cosa dalla Signoria “immediata” del Signore. Dunque, l’avvenire e la Storia non appartengono al Signore guerriero che o muore o si mantiene indefinitamente nell’identità con se stesso, bensì al Servo lavoratore. Se l’angoscia della morte, incarnata per il Servo nella persona del Signore guerriero, è la condizione sine qua non del progresso storico, è unicamente il lavoro del Servo che lo realizza e lo perfeziona. Lo ammetto a tutte queste cose non avevo pensato e se non fosse stato per la distopia che  ci ha attanagliato in questa estrema vecchiezza di 73 anni, mai più ci sarei arrivato, dovermi anche misurare con un libraccio che ho sempre considerato immondo ovvero quel La società aperta e i suoi  nemici di Popper  che ho citato e ammettervi un qualche principio di effettivo riscontro, in particolare nel suo esplicarsi in pratica grazie al suo allievo Soros, mi inquieta al massimo grado e mi rimanda anche alle geremiade intellettuali di un Guenon e di un Evola, di un Mircea Eliade di un Drieu de la Rochelle.

Il punto è che Kojève, come aveva tra le righe indicato quel famoso mio antico professore,  tira fuori dalle sue elucubrazioni sulla fenomenologia dello Spirito di Hegel, un’epopea. Pensa alla lotta e al lavoro come princìpi-chiave che Hegel avrebbe estratto dalla vita per far nascere l’essere umano. La lotta e annessa vittoria del Signore la chiama antropogenesi. È l’inizio, il vero inizio della storia. Il resto è noto: il servo lavora, il signore comanda. Il servo prende confidenza con la realtà, il signore la perde. Il servo si appropria dei mezzi di produzione, impara infine a lottare e fa la rivoluzione. Stravince e fa lo Stato finale – Kojève lo chiama «universale e omogeneo», pensa a Napoleone e alla Rivoluzione Francese quando commenta Hegel, pensa a Stalin quando proietta sul contemporaneo. Pazienza per le purghe. L’obiettivo è lì, a portata di mano: cittadini tutti uguali, che si riconoscono e agiscono in base a un principio di equità. Fine della storia.

Ma conta anche quel che è stato in mezzo. Conta, prima e dopo il lavoro, la lotta. E qui Kojève vede Hegel sotto una lente strana, mai vista prima. Punta tutto sul Desiderio – mette sempre la maiuscola, un profluvio di maiuscole. Il desiderio del desiderio dell’altro: ecco il segreto, il motore della dialettica e della storia. Perché chi perde dimostra angoscia, dimostra mera animalità, attaccamento alla vita, non vi istituisce un rapporto negativo – vi aderisce e basta. Invece chi vince – chi ha l’Autorità,  è colui che ha dimostrato di non temere (non avere angoscia) la morte in battaglia, ma di volere impiantarsi nella mente altrui come un «valore» a sé: volere essere riconosciuti come valore autonomo. A generare l’autonomia, a generare l’uomo è una «lotta a morte di puro prestigio».

Kojève vede Hegel sotto lenti speciali, d’impianto recente: Marcel Mauss col suo Saggio sul dono, dove aveva fissato lo spreco come costante antropologica nella rivalità tra capi-tribù - Carl Schmitt, col suo amico-nemico – prelude però allo spettacolo  banale che più banale e pittoresco non si può quel Dr. NO  capo della Spectre contro cui si batte James Bond , visto come sorta di condensato di tutti i magnati che oggi si disputano l'arena del mondo

 Prelude, come fatto cenno, anche al deterioramento estremo, senza qualità di Popper  e il pragmatismo Sorioriano, riassume di getto tutte le produzioni fanta/distopiche dei vari Orwell, Huxley, Breadbury, Dick, Matheson e proprio come sequel dei film di James Bond sempre con un Dr.No interpretato da un nuovo sgradevolissimo interprete a tutta una serie di innumerevoli filmetti e serie televisive recentissime, Quella scena dell’incontro Hegel-Napoleone appare quindi emblematica di un confronto un crudo confronto bellico, dove sono in gioco dominio e obbedienza, minaccia e sottomissione. E questo, proprio questo, sarebbe specificamente politico, un politico asservito a pochi pochissimi, in una società oramai senza storia 

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