domenica 23 luglio 2023

IL FANTASMA DI HEGEL

Hegel e' stato detto il, filosofo dello Spirito, io ho sempre considerato un eccedente semantico della parola spirito nel senso di spettro, fantasma, quindi se  dovessi definire con una certa maggiore varieta' tale termine e  conseguentemente  il pensiero di Hegel,  direi che il suo e' un pensiero fantasmatico: egli difatti  nella Fenomenologia dello spirito, parla di coscienza, autocoscienza e ragione come parti o fasi dello spirito , laddove io le potrei anche intendere come parti fantasmatiche del tutto scollegate da una realta'. Prendiamo l’autocoscienza che non e' da lui intesa come coscienza di se stessi, ma si inserisce nel contesto sociale e quindi politico, aggiungendosi quindi alle numerose cose e conoscenze che piu' di un filosofo, pensatore, scienziato, matematico, hanno, prima e dopo di lui, posto non in noi stessi (in-sistere) ma al di fuori, all'esterno di noi (ex-sistere). Comincio' Platone col suo iperuranio o mondo delle idee, inaugurando quindi quel dualismo che ha perseguitato tutto il cammino della conoscenza occidentale (Campanella, Cartesio, Hobbes, Newton, Marx, pero' non Kant che si avvale della sua triplice critica (Ragion pura, Ragion pratica, Giudizio) per uscire da tale impasse. Per Hegel invece, quando il soggetto si confronta con gli altri da sè, entrano in gioco tutta una serie di relazioni, ma anche di conflitti, che pongono in essere il rapporto con l'altro e quindi l’esistenza delle altre autocoscienze. Da qui nasce la figura dialettica servitù-signoria, che come e' noto decretera' la fine della storia, (anche la fine puo' avere un corrispettivo nel termine Spirito) nella accezione del trionfo della prima e quasi ad inverazione della teoria delle quattro eta' del mondo di Esiodo la cui ultima eta' della storia e' appunto "quella dei servi" - Se dovessimo sempre seguire Hegel c'è un altro fattore che il filosofo pone come fine della storia, un fattore di azzeramento di tutti i contrasti in lui stimolato
dall'incontro con Napoleone dopo la battaglia di Jena nel 1806, dove appunto il fatto di non avere piu' rivali, indicherebbe nel Corso una sorta di ineluttabilita' a mò di Legge dell'entropia, degli eventi umani tendenti verso l'appianamento di ogni contrasto . Ora e' notorio quanto sia poca la mia considerazione verso Hegel: fin dai tempi del liceo non ho fatto altro che trovare la sua filosofia velleitaria, rigidamente schematica e sostanzialmente sbagliata. Anche in questo appuntino non mi smentisco - la sua fenomenologia e' di una banalita' disarmante, tra l'altro sarebbe bastato aspettare qualche mese e avrei voluto vedere come avrebbe considerato Napoleone dopo la battaglia di Eylau, per non parlare di un paio di anni dopo in Spagna.
Riguardo la supposta grandezza della funzione autocosciente umana anche qui non si può non cogliere l'infondatezza delle sue tesi . Le critiche alla “ragione strumentale” da parte di alcune correnti filosofiche, per esempio la cosiddetta Scuola di Francoforte o il “secondo” Heidegger. o quelle di certa filosofia orientale che si affida all’intuizione, al “vuoto mentale”, come nello Zen, cercando, quest’ultimo, di fare a meno della ragione nella sua totale estrinsecazione umana, in favore, come detto, di uno stato mentale che d’acchito — analogamente all’intuizione di H. Bergson — comprende le cose, per poi agire nella realtà. Tutti questi e altri approcci analoghi, solo tangenzialmente toccano la tematica specifica dell’autocoscienza, mentre riflettono direttamente sulle attività cognitive deputate, appunto, al calcolo e quindi alle strategie per risolvere problemi reali nella realtà quotidiana, essendo attive anche in assenza di autocoscienza.
A questo riguardo è molto suggestivo il libro che ho citato assai spesso e che è un pò la mia Bibbia procedurale in tema di pensiero e ragionamento “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” dello psichiatra americano Julian Jaynes che, con argomentazioni giustappunto estremamente suggestive, e per me più che convincenti, elenca tutte le funzionalità umane, la concettualizzazione, l’apprendimento di soluzioni pratiche o addirittura il pensiero stesso che possono essere operanti in assenza di autocoscienza. Anche Wilhelm Reich ha espresso considerazioni che conferiscono estrema importanza all’autocoscienza, cui attribuisce la responsabilità dell’allontanamento dalla natura degli umani non più capaci, perchè consapevoli, di abbandonarsi alla pulsazione della stessa natura. La specie umana, da circa centomila anni, non ha subito mutamenti di grande rilievo, si è stabilizzata, il chè vuol dire che un soggetto umano di centomila anni fa è sostanzialmente uguale a noi. A riguardo è interessante ricordare F. Nietzsche e l‘antropologia filosofica — M. Scheler, il Nietzsche cristiano, come diceva di lui Troeltsch e ancora Plessner e Gehlen, che invece parlavano di una natura umana ancora instabile, cioè incompleta e situata nella natura in “posizione eccentrica”, perchè il suo apparato pulsionale-istintuale, pur potente e di certo assolutamente naturale, non è rigidamente determinato come nelle altre specie. A fronte di queste caratteristiche, la capacità culturale umana, prevalentemente razionale, essendo pressochè infinita, è aperta a ogni cambiamento, funzionale o disfunzionale. L’errore, dunque, riguarderebbe l’emergere dell’autocoscienza, o meglio di quelle proprietà cognitive che rendono il soggetto capace di visualizzare se stesso, di ragionare sul suo essere in vita e sulle capacità dei suoi atti volitivi, nonchè porsi il significato del suo stare al mondo, e della sua finitezza solitamente implicato, almeno dal punto di vista storico, con concezioni trascendenti e comunque non totalmente radicate nella realtà contingente. Non è un caso che vengono considerati di derivazione umana i reperti archeologici quando essi siano segni di cerimonie o siti funerari. La consapevolezza della propria morte è caratteristica dell’autocoscienza e quindi essa viene utilizzata come fonte artistica, rituale e religiosa. Queste peculiarità cognitive aprono la strada al soggetto
cosciente di sè, quindi emerge l’individualismo e quelle tendenze dell’agireumano cui genericamente si attribuisce l’attributo
egoistico-egotistico. Il tragico dell’essere umano sta proprio in questo passaggio che implica, di fatto, lo sradicamento da quella comunità che invece gli rende possibile la vita.
Nessun umano potrebbe vivere in solitudine a partire dai primi giorni di vita. Il periodo dell’allattamento e dello svezzamento, vissuto in quasi completa eteronomia, è tra i più lunghi rispetto alle altre specie, proprio perchè ha bisogno di essere accudito strettamente dalla madre o da chi ne fa le veci. Da solo non è in grado di mantenersi in vita. Tutto questo e' stato inesorabilmente scambiato dai filosofi cultori del dualismo per una sorta di paradigma obbligato e quindi all'affermazione di una netta
distinzione tra esterno e interno nella costituzione della coscienza umana e di tutte le sue manifestazioni, e ha dato sempre luoghi a schemi, schemetti, dialettiche campate in aria, di cui forse la esternazione piu' nociva e' stata quella di una sorta di coniugazione tra Hegel e Marx che si rifannno entrambi ai principi di societa' bottegaie fondate sul denaro e con un unico valore, il valore di scambio nel commercio e nell'economia (leggi sopratutto la societa'anglosassone con il passaggio di testimone nella societa' statunitense, secondo i parametri lucidamente individuati dal filosofo e geofisico tedesco Carl Schmitt nel suo saggio Terra e Mare del 1942

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