mercoledì 30 settembre 2020

SUPER ES e NARCISO

Non è da oggi che il termine “super” viene attribuito con intenti ovviamente di esaltazione e di “superiorità” un po’ a tutto il lessico della nostra lingua parlata e scritta, ma forse ancor più immaginata o meglio da immaginarsi: così anche Freud che della parola, bhè!… è considerato un po’ uno dei grandi “guru”  (la talking cure, secondo la definizione della mitica Anna.O. la celeberrima paziente di Breuer)  quel termine “super” doveva andare ad affibbiarlo a qualche sua nuova idea o formulazione, nella fattispecie, nientemeno che al suo nuovo modello strutturale del funzionamento psichico umano, andando a denominare uno dei tre agenti specifici di tale funzionamento: l’epiteto di “super” anteposto al termine “Io” stava così a delineare la focalizzazione di una nuova funzione, che, nella precedente fase teorica quella non ancora rivoluzionata con la scoperta della “pulsione di morte”era adombrata : il Super-io. Dice lo stesso Freud:  “Apprendiamo dalle nostre analisi che vi sono persone nelle quali l’autocritica e la coscienza morale – e cioè prestazioni della psiche alle quali viene attribuito un valore grandissimo – sono inconsce, e producono, proprio in quanto tali, i loro effetti più rilevanti… La nuova esperienza, che ci costringe – a dispetto della nostra migliore consapevolezza critica – a parlare di un “senso di colpa inconscio”, è molto più imbarazzante e ci propone un nuovo enigma, specialmente se  finiamo col renderci conto che un tale senso di colpa inconscio svolge in un gran numero di nevrosi una funzione decisiva da un punto di vista economico, opponendo i più potenti ostacoli sul cammino della guarigione”  Egli dunque andava paradossalmente a ricavare la genesi del Super-Io, da una “colpa” che aveva finito per individuare nell’Edipo, ovvero la ben nota figura della tragedia greca di colui che uccise il proprio padre e ne sposò la moglie, cioè la madre.  Ora questa identificazione,  così marcata con il complesso di castrazione, che verrà oltremodo sviluppato da Lacan, ed anche con quel concetto che in Freud ha sempre costituito un assioma, ovvero che il bambino abbia uno spasmodico  desiderio di eliminare il padre e tenere la madre tutta per sé, con tanto di correlati sessuali, che appunto resterebbero individuati nell’Edipo, sono a mio parere, non solo un tantino stiracchiati, ma anche inesatti.  Nessuno sano di mente, neppure un bambino che si affaccia alla sessualità, sarebbe tanto  di cattivo gusto dal venire attratto da una donna molto più vecchia, spesso e volentieri dimessa, brutta, sciatta,  né tanto meno ciò potrebbe essere indotto da un inconscio, un Es, deputato, prima della svolta del “al di là del principio del piacere” appunto  al piacere (eros). Solo dopo quel libro che è del 1920, quando cioè Freud aveva 64 anni, si giustapporrà quello opposto di morte (thanatos), che ha delle peculiarità assolutamente non coincidenti col complesso di castrazione e comunque con l’Edipo. La verità è che nessuno, salvo casi di vera psicopatologia, e’ attratto sessualmente dalla propria madre; quello di cui  semmai si è attratti è il senso di sicurezza che la figura materna può infondere, quel tanto strombazzato “amore incondizionato” quel proverbiale “ogni scarrafone è bello a mamma sua” che fa si che ogni individuo sia portato a perseguire un desiderio che non si rifà all’Eros, ma piuttosto a Thanatos: il desiderio di sicurezza, di quiete, di far ritorno da dove si è venuti, insomma coazione a ripetere all’insegna del 2° principio della termodinamica  e dell’entropia: la vita appunto come apparire di un qualcosa che turba un ordine costituito ovvero turbamento di uno stato di quiete  e continuo aumento di disordine, cui la madre, l’utero, rappresentano  una sorta di contro assicurazione, un mito dell’eterno ritorno. La vita è pericolosa,  traumatica, una continua incessante lotta per la sopravvivenza e l’Io reagisce con il sintomo, perché è lui nella sua stessa costituzione originaria un sintomo come giustamente osserva Lacan,  ma se potessimo tutti tornare alla quiete dell’utero, allo stato di pre-nascita ecco che non dovremmo lottare, non dovremmo faticare, non dovremmo soffrire  e non ci troveremmo mai soli, sperduti nel buio. Se potessimo trovare la madre che informa quell’amore incondizionato e quindi quel “non rischio” di vita, tutto sarebbe perfetto, assoluto, ma ecco!… anche dannatamente coincidente con quel Thanatos scoperto da Freud in “al di là del principio del piacere” perché sostanzialmente la pulsione di morte e’ in verità desiderio di non-essere, desiderio di far ritorno in quel nulla dove non esistono contrasti, un qualcosa che gli antichi avevano perfettamente inteso e rappresentato con il segno dell’Uroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo dell’infinito; un desiderio molto ma molto più ancestrale e più potente di quello di Eros, cui semmai il principio paterno, col suo amore condizionato, legato alla prassi, all’osservanza di leggi e prescrizioni e anche alla capacità, al talento, all’accaparrarsi donne giovani e belle, cerca di perseguire. A  mio parere proprio la scoperta della pulsione di morte e della coazione a ripetere, scardina le fondamenta del contrasto tra principio di realtà e di piacere che si svolgerebbe tra Io e Es, immettendo nuovi parametri  e nuovi termini di conflitto, dove quel “super” va ascritto si all’Io che può anche rappresentare certe influenze esercitate  dall’ambiente sociale e culturale, ascritte  all’identificazione paterna, e dove, detto per inciso, l’Edipo rappresenta solo una di tali identificazioni (quella riferita al complesso di castrazione) non escludendone altre, ma può  benissimo essere addottata anche all’Es (l’inconscio) che non ha da apporre i suoi veti alla rigidità delle prescrizioni sociali, ed è invece è tutto devoluto ad un qualcosa che non si rifà all’Eros e quindi al sociale, all’ambiente, ai rapporti, ma si rifà a Thanatos, cioè al nulla, a quel non-essere  nel quale se diamo per buona tutta la grande revisione del pensiero e della teoria freudiana, riposa  la più profonda essenza del desiderio.  Non c’è da sorprendersi se Freud riprende la teoria delle pulsioni che aveva affrontato in un saggio antecedente, ovviamente rivedendole nell’ottica di una opposizione radicale tra pulsioni sessuali e di morte, ma è proprio questo l’assunto che non convince, laddove  pone l’io succube sia del servaggio del super io, sia dell’Es, senza distinguere tra i due che provocherebbero impulsi qualitativamente differenziati  di natura erotica o distruttiva. E’ la strada che porterà al saggio “Inibizione sintomo e angoscia”:  dando per scontato la preminenza del conflitto tra Io e Super Io, per approdare però nel suo ultimo saggio di rilevanza meta psicologica “Analisi terminabile e interminabile”, alla inutilità di tutta la terapia, inutilità messa in evidenza non dal Super io, bensì da un Es per il quale si potrebbe benissimo adottare la dicitura di Super Es, in quanto non amputabile alla conflittualità sociale, edipica, di adattamento all’ambiente col desiderio istintuale,  bensì a quella molto ma molto più ancestrale e profonda di una pulsione di morte, che con la sua coazione a ripetere, e quindi anche ad un eterno ritorno, ritorno da dove si è venuti, cioè il nulla, comporta gioco forza la cessazione di ogni conflitto, e quindi anche alla necessità dell’analisi che di fatto è interminabile nei termini dell’aumento del disordine e della dispersione(entropia), mentre è terminabile solo nella totale e finalistica adesione alla pulsione di morte  (2° principio della termodinamica “in un sistema chiuso tutte le forze tendono allo stato di quiete”). Ecco anche perché, a parere di chi scrive questo appuntino, una figura anch’essa presa dal Mito Greco: Narciso con il suo riflettersi nella specularità della sua immagine nella superficie dell’acqua appena oltre la quale troverà proprio lei Thanatos, la Morte, ha molte, ma molte più probabilità di Edipo, di rappresentare la giustificazione stessa della seconda parte della evoluzione teorica Freudiana, quella appunto inaugurata dal saggio Al di là del principio del piacere e imperniata più sul desiderio che sulla rimozione e per la quale si parla appunto di “Seconda topica“ : Io , Es , Super Io, che però senza Super Es risulta come una sedia a cui non è ancora stata aggiunta una gamba

 

 

martedì 29 settembre 2020

MOLTO POCO SCIENTIFICO

 “Scienza” è un termine molto più moderno di quel che si pensi e poco corrisponde ai vari “Περί Φύσεως “… “de natura” “de rerum natura” dell’antichità, dove lo studio appunto delle cose naturali, dell’organico, del biologico, era affrontato perlopiù con metodi più vicini ad un diffuso fare artistico che ad un sistematico studio, che oggi siamo portati a definire scientifico. La medicina, la botanica, la mineralogia, financo l’analisi dei fatti e degli eventi storici, che si avvalgono di illustri campioni anche dell’antichità, da Esculapio, Tucidide, fino a Linneo, Mehendelson, e vai con tutti  gli scienziati che sono proliferati soprattutto nel periodo della Rivoluzione Industriale e praticamente sono giunti ai giorni nostri : Darwin, Marconi, Plank, Einstein, Bohr, Fermi, Schorodinger,  Heisenberg, Feynman. etc.); si dirà: che relazione hanno queste discipline con l’arte, con il fare artistico? Nessuna!!!! Bhe anche questo non è esatto! Sono pur sempre interpretazioni della natura, prettamente umane e quindi alternative al cosidetto disegno naturale (anche questo termine non è alieno dall’uso di quella particella “Pro” che caratterizza tutto ma proprio tutto l’agire umano, perlomeno da quando un certo “Pro–metheo” rubò quella fatidica scintilla di fuoco agli dei, che non inaugurò la scienza, ma inaugurò la “Technè”, tecnica e arte, di cui anche la scienza fa parte.). Molti, specie nella nostra cultura occidentale, quella che appunto ha la sua base nel pensiero dell’antica Grecia di cui il Mito di Prometeo fa parte,  hanno correlato tale origine della “technè” con una nuova modalità di rapportarsi con il tempo, un tempo progettuale fondato sul tempo opportuno in cui svolgere l’azione (kairòs)  e di cui sarebbe regista e attore l’apparizione di un meccanismo neuronale specifico: la “coscienza” ovvero un qualcosa fondata sul linguaggio articolato e che rappresenta quindi una peculiarità specificamente e unicamente umana , ovvero la capacità di mettere l’uomo in situazione sulla terra, narratizzare a se’ stesso e ai suoi simili una sua presenza che non soggiace più alle modalità del naturale, il giorno  – la notte, il caldo – il freddo, il chiaro – lo scuro, e stagioni, insomma l’eterno ritorno dell’identico, ma è in grado di porre dei cambiamenti, molto rilevanti a tale ordine naturale. Ma questa coscienza che ad un certo punto dell’evoluzione ha fatto la sua comparsa sulla terra è intimamente correlata a quella che potremmo anche definire un assoluta indifferenza della terra, della natura, e come giustamente osservava Umberto Galimberti, quando ancoraa non si era venduto alle multinazionali del farmaco, facendosi paladino dei vaccini  (La terra senza il male Feltrinelli editori 2^ ed. febb.1988) “indifferenza della terra , la cui totale estraneità all’ordine della finalità umana, la rende del tutti inidonea a costituire un punto di riferimento per la comprensione dei progetti umani..allora i significati che non si trovano vengono conferiti, i valori che non nascono dalla visione delle cose, sono postulati dall’umana volizione…  ovvero la volontà sostituisce lo sguardo , perché intorno ad esso  altro non si dispiega se non la totale contingenza  della nostra esistenza su una terra indifferente  che non ci conosce” Tale, sostanzialmente è la technè, ovvero l’abilità tecnica, la scelta di un tempo opportuno in cui inserire il proprio agire, e anche l’arte, il cui fine è sostanzialmente quello di sostituire all’indifferenza, la differenza: un atto di volontà, tutto sommato! volontà di  istituire un tentativo che tenga conto della presenza umana e far si  che essa si costituisca come risposta al domandare dell’uomo e quindi rientri, volente o nolente nel sotteso finalismo dell’intenzionalità umana  e dismetta finalmente la sua indifferenza “pro-vocata (sempre quel “pro” che dà il significato di “chiamare prima, in anticipo”) la terra risponde, ma risponde nei limiti della domanda: offre di sé cio’ che le si richiede, ma trattiene tutto quello che non fa parte della richiesta: l’errore di tutte le nostre costruzioni, della tecnica, dell’arte, della filosofia, della scienza,…di tutto, consiste nello scambiare le verità di queste risposte con la verità della terra” Ovviamente stiamo sempre alludendo, alle nostre contrade occidentali, perchè il discorso sarebbe  profondamente differente se dovessimo prendere in considerazione  la filosofia e cultura orientali: Le Upanishad,  I Veda , Lo Zen, il  Mahabaratta, il Bahagvadad Gita, le 4 nobili verità di Buddha, la meditazione Vipassana, il serpente della Kundalini, lo Yoga; il solco della nostra cultura  e tradizione, è senza dubbio questo, ma l’occidente  è anche il luogo di un fraintendimento, la sua coscienza difatti  ci ha portati  a scambiare la nostra volontà, che è sempre volontà di avere ragione e quindi di potenza, volontà di portare tutto  nell’ambito del linguaggio, e quindi della coscienza, anche il  senso della natura, dimenticando la massima di uno dei suoi più antichi campioni, Eraclito di Efeso, che la natura ama nascondersi φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ “ Nascondersi da… e a… che cosa? “Elementare Watson!” avrebbe risposto Sherlock Holmes: dai giochi della parola e quindi dal linguaggio umano, in un’ultima analisi, dalla coscienza che del linguaggio è un derivato. Ma allora se, alla fin fine l’uomo occidentale è quell’essere che ha voluto ridurre tutto il senso della natura nei termini di una sua formazione linguistica, dobbiamo poi tanto stupirci se tutto quello che aveva dimenticato e che non aveva compreso in quel suo “chiamare prima” , diventerà pertinenza  di un qualcosa che cosciente non è, e che un certo signore di Vienna si incaricherà di disvelare al mondo, partendo proprio dalle lacune e dai mancati che tale millenaria operazione aveva giocoforza ingenerato!? La domanda è quindi : anche l’inconscio  come la coscienza è posteriore al linguaggio?  e questo come lo si deve intendere?  Con gli stessi meccanismi che Freud ha individuato trasferimento condensazione, ovvero metonimia e matafora che sono gli assi portanti del linguaggio?…e lapsus, atti mancati, soprattutto i sogni, che dell’inconscio sono stati individuati  come “via Regia” ? Un’altra imperiosa domanda è “cosa e come sognava l’uomo prima che dal suo linguaggio articolato scaturissero prima la coscienza e quindi a stretta correlazione, l’inconscio?” Il libro di Julian Jaynes “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza",che interviene nella formulazione del presente articoletto, cercando di metterlo in relazione al pensiero freudiano, ovviamente quello successivo ad “Al di la’ del principio del piacere, dove vengono introdotti non solo la pulsione di morte, ma anche la coazione a ripetere  (vedi articolo precedente di questa stessa sezione), aveva postulato una sorta di inizio del momento di passaggio tra la mente bicamerale, che in sostanza altro non era che una serie di comportamenti codificati in presenza di situazioni diciamo così, istituzionalizzate, e la coscienza, mettendolo in relazione all’aumentare delle aggregazioni e complessità sociali e al non poter fare più riferimento a quella serie  di comportamenti codificati  dall’abitudine,  che da semplici precetti  erano assurte ad un qualcosa di soprannaturale identificandosi con una quasi costante presenza divina: In sostanza erano le voci e le visioni degli dei che indicavano il da farsi  nelle varie situazioni  in cui un uomo  in una determinata e ancora limitata contingenza sociale e di aggregazione si trovava a operare. Tali voci, tali allucinazioni potevano benissimo configurarsi come una sorta di pre-inconscio, con tanto di meccanismi di illogicità , tra l’altro non ancora formulata la logica. Ma cosa succede, quando ecco… esse non riescono più  coprire l’aumento  vertiginoso di situazioni e di compiti, che un’aggregazione troppo dilatata, un città di oltre diecimila abitanti o una messa in situazione con compiti inusitati , tipo un viaggio in mare, nuovi territori, nuove genti, nuove modalità di comportamento impongono con urgenza?  Le metafore delle voci, delle allucinazioni di dei che ti dicano cosa e come fare, si fanno insufficienti ed ecco che allora l’uomo è costretto a costruire una metafora che sia analogale, non più di una semplice azione e neppure di un qualcosa addotto dal ripetersi di situazioni simili, c’è bisogno di una metafora che metta in situazione non più la natura, il vento, la pioggia con una istituzionalizzata voce o visione divina, ma che metta in situazione sé stesso, la propria presenza in relazione a…., ovvero ancora una metafora certo, perché e’ col linguaggio articolato che funzione la metafora, ma una metafora particolare che sia un analogo certo, ma un analogo molto particolare: un analogo -Io. E’ questo l’Io che noi possiamo analizzare da Freud  che è un Io che è in grado di riflettere su se stesso sulla sua presenza, ma anche un Io che si trova subito alle prese con l’erede di quelle voci, di quella allucinazioni che nella precedente formazione mentale era stata attribuita agli dei. E questo erede, torniamo alla conclusione precedente, esula dalle attribuzioni della coscienza che in stretto ambito temporale si costruisce le proprie regole logiche che possiamo sintetizzare nei famosi tre principi della logica, ovvero identità, non contraddizione e terzo escluso, principi che quell’erede di allucinazioni auditive e visive, costituirà subito un’eccezione, anzi una assoluta disconoscenza, perché sostanzialmente esso fa riferimento a tutto quello che l’uomo non ha chiamato prima, pro-vocato, nella sua costruzione di se’ in un mondo, una natura, che non conosce se non nei termini di tale chiamare prima, un mondo che soprattutto non conosce lui, l’uomo ! Questa sorta di lunga premessa prima di affrontare il tema del secondo libro davvero fondamentale di Freud dopo la pubblicazione di Al di là del principio del piacere” ovvero “l’Io e l’Es” un saggio che tenta di mettere a punto da un punto di vista meta psicologico  l’intero funzionamento dello psichico umano, è andata individuando, prima di arrivare alla formulazione del Super -io, così come  in quel saggio viene ipotizzato,  anche una parallela disposizione di porsi non solo rispetto all’Io, ma anche rispetto all’Es: conscio e inconscio.  Se difatti ci dobbiamo misurare con un Super-io, forse  è altrettanto importante misurarsi con un  “Super-es”!? Così come possiamo dedurlo prendendo in esame un libro come il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” di Jaynes, un Es,  con le sue manifestazioni del tutto estranee alla coscienza  ma con quell’antecedente di voci e allucinazioni, che andarono a costituire “gli dei” anche essi sempre  costruzioni di quell’essere al mondo dell’uomo. 

 

sabato 26 settembre 2020

PAPI DI STRADE E DI RICORDI

 


La nazione, la città,  e spesso e volentieri anche il quartiere, la strada dove si è nati, hanno per lo più, una rilevanza particolare nella storia della nostra vita  e ne costituiscono una sorta di paradigma a proposito delle “visioni del mondo”. Sembrerebbe  a primo acchitto  una  visione  strettamene soggettiva, contingente e particolareggiata, affettivamente coinvolgente e suscettibile di interpretazioni  che possono essere sia positive che negative, ma come vedremo  si carica, si può caricare, di valenze che mettono “in gioco”  elementi  quanto mi oggettivi, a volte addirittura “universali”  Di solito il rapporto col proprio luogo di nascita e dove si è cresciuti, in particolar modo nell’infanzia, ha un’ulteriore valenza di significanza; Jung ha parlato di “numinosità” e Freud..., bhe Freud ha definito l’infanzia il paradiso terrestre di ciascuno di noi.... “somiglia all’eternità l’infanzia”...con il suo tempo dilatatissimo quando un giorno durava quasi all’infinito e il sole in cielo sembrava non voler tramontare mai…  e non solo, ma topicamente, il mondo, tutto il mondo, era lì sotto il balcone e bastava allungare una mano per afferrarlo tutto. Forse per questo tutte le cose che rientrano, che facciamo rientrare nell’infanzia, hanno un carattere quasi magico!  Ecco!!!! ha ragione Jung … “numinoso” dove le cose, le immagini, le persone, i fatti, anche i nomi, sono come “numi”, un che di divino che assorbiamo dentro di noi  e quindi si rivestono di entusiasmo “en Theos”. Il nome della strada dove siamo nati e cresciuti e magari abbiamo vissuto la nostra infanzia, si carica di tale entusiasmo e anche quando quella è solo un ricordo sfumato,  è sufficiente richiamarlo alla memoria per accedere a tutte le sensazione relative appunto, di entusiasmo e numinosità. Chiamare per nome, significa, diceva qualcun altro, “evocare, chiamare in assenza”.... siamo cresciuti, diventati grandi, il sole non sta più la’ in cielo solo per noi, i caschi di glicine non si inchinano più al nostro passaggio , e il balcone, si il balcone non ha più l’altezza dell’Olimpo  dove dimoravano gli antichi dei, però quel nome, con tanto di targhe toponomastiche, via dei matti numerozero,rue de l’ancienne comedie, zlata ulice, marienburger strasse, charingcrossroad, si caricano tutte  di valenze di un fascino misterioso  che si rivolge solo a noi.  Succede a volte che il nome di tale strada è un nome che per una serie di circostanze viene ad assumere valenze più composite dove magari la suggestione propria della numinosità dell’infanzia si coniuga  a  questioni di conoscenza e interesse. E’ il caso dell’autore del presente articolo  Mario Nardulli  che la strada della sua infanzia si chiamava Nicolò V: mai durante l’infanzia mi ero soffermato su tale nome, forse a mala pena sapevo che trattavasi di un Papa; via Nicolò era la strada dove la mia famiglia si era stabilita assai prima della mia nascita, nel 1938, quando il mio omonimo Mario Nardulli che era un funzionario dell’Opera Nazionale per i Combattenti (O.N.C.)l’Ente che si occupava delle Grandi Bonifiche, dopo anni di vagabondaggio per varie cittadine sulla scia di quei lavori, da Licola al Lago Patria, a Littoria, a Sabaudia, e anche i richiami da ufficiale superiore che lo avevano portato in Africa orientale durante la campagna del ‘35-36 con la Divisione Alpina Pusteria e anche in quella settentrionale (Libia) dove aveva comandato i Presidi di Giado e Gadames  giurisdizione del XX C.d’A. Div. Sabratha,tornato borghese e riassegnato a Roma nel 1938,  colpito dal quadro di Picasso “Guernica”,non si era fatto rassicurare dalla cosidetta “pace” salvata (si fa per dire) da Mussolini alla Conferenza di Monaco, e convinto che prima o poi una guerra sarebbe comunque scoppiata, aveva scelto di stabilirsi in una zona vicino al Vaticano “così staremo certi” aveva detto alla moglie e al figlio Lucio ”che  nella città del Papa non bombarderà nessuno!” Proprio Guernica  e anche certi raid sulle città dell’Etiopia, di cui aveva valutato “de visu”  la distruttività sulle popolazioni civili, lo avevano indotto a tale risoluzione “la guerra non sarà come quella passata” diceva ” che il rombo del cannone lo si poteva sentire da Verona, da Marostica da Udine o Monfalcone, ma mai shranpels  o i colpi di cannone erano arrivati a lambire il centro abitato….”la prossima sarà una guerra che coinvolgerà  tutti, non solo i soldati al fronte”. Via Nicolò V aveva questa origine, di cui  io nipote  avevo sentito più volte, ma che per me era la palazzina giallo ocra al numero 50 con la contigua gemella, interrotta da una discesa in sampietrini e fiancheggiata da caschi di glicine (quelli che idealmente accompagnavano i miei passi quando  ci si indentrava verso lo slargo  dove c’era la casa di una ragazzetta di cui a mò di Dante con Beatrice, mi ero perdutamente innamorato all’età di 9 anni), c’ era, poi giù in fondo, la grande scalinata che costeggiava le antiche Mura e fiancheggiata dalla contorta e ripida salita detta “la Gajardona”, c’era la mole della Cupola di san Pietro che la mattina al risveglio riempiva lo scenario, appena venivano aperte le persiane, ed era anche gli amici con cui si giocava a “nascondarella” a “uno monta la luna”, ed infine quei personaggi dai soprannomi impossibili “zi ghe bake” il padre di un amico che aveva un taxi, ma se l’era giocato alle corse dei cani, Alvaro “er matto”  Desiderio “il lupo mannaro” , “Maria Zozzetta”che era una specie di barbona che a cadenze mensili attraversava la strada, “la pisellona” di cui non aveva mai capito il perché di quell’epiteto, ma soprattutto  era il ricordo, luminosissimo di mio nonno ed omonimo, che col cappello colla penna bianca, gli stivaloni con gli speroni su cui si impigliava la grande mantella fuori ordinanza, si stagliava nell’abitato,  una immagine che era diventata patrimonio della strada, specie dopo quel giorno di giugno del ‘44, in cui sebbene convalescente per ferite riportate in guerra, si era rimesso l’uniforme di Colonnello e si era presentato al comandante della Wermatch, che voleva far brillare un carro armato bloccatosi proprio a ridosso della “Villa” dei Morelli e pregiudicava la ritirata delle truppe tedesche lungo l’Aurelia;   con fare fermo, da vecchio soldato, alla Caviglia non certo alla Badoglio, ovvero che non si era strappato i gradi dalle maniche e gettato l’uniforme alle ortiche, quel recentissimo 8 settembre, ma con fierezza e piglio, la penna bianca sul cappello, la mantella che si impigliava sugli speroni si era rivolto al capitano  ...“lei è un ufficiale della Wermacht, non una SS…” e  lo aveva convinto  a  farlo rotolare lungo la discesa che dava alla ferrovia, sì da non arrecare alcun danno alla Villa e alle costruzioni prospicienti. Quel nome, quel papa Nicolò V, anzi con il nome con due “c” Niccolò V, lo avevo ritrovato quando mi ero iscritto in architettura e mi ero andato ad occupare dell’origine  della Roma papalina , anche detta la “seconda Roma” e quale la mia sorpresa e piacere nell’apprendere che il papa Niccolò V al secolo Tomaso Parentucelli (1397-1455) era stato proprio lui  l’iniziatore della complessa operazione urbanistica che dalla ristrutturazione della Basilica di san Pietro al Vaticano (quella che diverrà la “fabbrica di San Pietro”) aveva innescato tutti gli interventi nel corpo della città:  da quelli iniziali di sistemazione delle strade di accesso nel quartiere detto alla tedesca “Borgo” in quanto sede di truppe mercenarie appunto di origine germanica, per indentrarsi nel corpo della città antica ancora di impianto romano, grosso modo concentrata  nella grande ansa del Tevere, frontale al Colle Vaticano e all’antica fortezza dell’Imperatore Adriano, ovvero quello che diverrà Castel Sant’Angelo, percorrendola appunto tutta, con il recupero di antichi assi romani e innescando un vero e proprio sistema che fungerà da modello a tutta l’urbanistica dei secoli successivi e non soltanto a Roma.  Niccolo’ V  fu anche il prototipo del “papa-umanista”, sotto di lui difatti tale movimento  ebbe uno sviluppo inusitato con la convocazione presso il Papato di importanti artisti e studiosi come Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini , Flavio Biondo, Andrea del Castagno, Piero Della Francesca, Rogier Van der Weyden, e in particolare  gli architetti Bernardo Rossellino, che  legherà il suo nome all’unica città interamente progettata con il nuovo strumento  della “prospettiva : “Pienza”  e Leon Battista Alberti, uno dei più colti progettisti dell’epoca, equiparato al Brunelleschi come impostazione teorica , che dedico’ al pontefice il suo trattato “De re aedificatoria” . Furono proprio questi due artistiti che studiarono la “sistemazione dei Borghi” ovvero l’accesso alla Basilica di san Pietro che doveva diventare il faro e il simbolo stesso di tutta  la Cristianità. Non è attestato con certezza, ma pare che l’Alberti avesse pensato a tre strade porticate  che dalla Basilica puntavano al Castel Sant’angelo, per ribaltarsi dalla quinta prospettica  del Ponte, oltre il fiume  in altre tre strade che a ventaglio si aprivano sul corpo dell’abitato urbano concentrato nell’ansa del Tevere, l’esecuzione effettiva sembra però che fu relizzata dal Rossellino che si limitò a sistemare l’unico asse che collegava Basilica con il Castello, il cosidetto “Borgo Vecchio”  facendone  a sistema non due, ma una sola strada (il Borgo Nuovo) e dando così avvio a quella che verra’ denominata “la spina di Borgo” ; in quanto alle tre strade che dovevano come rispecchiarsi oltre il fiume nell’ansa del Tevere, anche se non porticate, rimasero e andarono a costituire il cosidetto “piccolo tridente” che sarà quasi a prodromo del “Grande tridente”  quello che si verrà a costituire nel secolo successivo, con epicentro in piazza del Popolo. Insomma alquanto esaltante, l’andare a scoprire  che il nome della strada che aveva contrassegnato l’infanzia era quello di un personaggio che aveva per così dire avviato la formazione della Roma che tutti conosciamo e che come “forma urbis” è ancora, fatte salve alcune modifiche - la  costruzione della Cupola di Michelangelo a ideale suggello di simbolo della Cristianità, il Colonnato del Bernini  come apertura  avvolgente dei due bracci,  e   molto dopo, la distruzione della spina di Borgo, la via della Conciliazione - perfettamente riconoscibile. Una prassi di intervento urbano che costituisce un vero e proprio paradigma, iniziata con l’Alberti e il Rossellino  che ha una sorta di equazione algebrica “a+b+c = zero o infinito, di perfetta sequenzialità:  1° =  sistemazione dei Borghi  come primo anello di una catena significante  a livello di una topica di sviluppo urbano; 2° = razionalizzazione dell’antico abitato su base del piccolo tridente di Ponte Sant’Angelo  e la riqualificazione di antichi assi romani ( via del Governo Vecchio, via dei Banchi Vecchi, via  dei Coronari);  3° = enfatizzazione dell’unico asse nord sud  della Roma imperiale, quello che si prolungava nella “via sacra” ovvero l’originaria Via Lata;  4° = a sistema con questa un asse di penetrazione nel nucleo antico (la via Leonina, poi via Ripetta)  ed uno invece di espansione per le salubri zone, verso i cosidetti “Monti”(la via Paolina Trifaria, poi del Babbuino)  ed infine a perfetta concusione del paradigma e segno del “Tridente” un asse diretto che lo intersecava : la “via Trinitatis” ( via Tomacelli, via dei Condotti)  che collegava vecchia e nuova città, confluendo su quella che ancora oggi è denominata “Trinità de’ Monti”;  5° = la sistemizzazione di tutto questo processo  ad equazione, con il grande piano di un altro grande Papa che ha impresso alla città di Roma il suo segno più duraturo , ovvero grandi assi come vere e proprie direttrici di sviluppo, con il collegamento di quinte prospettiche di forte impatto e visività, attraverso lo strumento prospettico del punto di fuga. Stiamo parlando del grande “piano Sistino” modello di tutta l’urbanistica a venire  e Sisto V, il Papa che lo ideò con il concorso dei più grandi artisti, non più dell’Umanesimo, ma del Rinascimento fu indicato in una pasquinata (la statua parlante di Roma, la voce del popolo), una volta tanto con un epiteto non di critica o sberleffo, ma di ammirazione  “ER PAPA TOSTO”….“fra tutti ch’hanno avuto er posto de vicari de dio, nun s’è mai visto  un papa rugantino, un papa tosto, un papa matto, eguale a  Papa Sisto”

 

 

LA LETTERA DI GRODDECK

 


A me, la cosa che più mi fa sorridere, anzi che mi fa veramente sganasciare dalle risate, è una mia personale fantasia sulla scena di quando Hitler aprì la lettera che gli aveva indirizzata il nostro amico Groddeck “e questo chi è?” aveva chiesto alla SS che gliel’aveva portato “Sapete mio Fuher, quel medico di Baden Baden, amico di quell’altro strano individuo, sa quel dottore di Vienna…” “Sigmund Freud ??? Si quello lo ricordo, quello che lo abbiamo fatto andare a Londra ma lui ci ha scritto che “raccomandava il nazionalsocialismo e la Gestapo a chicchessia!” “Già!” “a pensarci bene qualcuno mi ha detto che c’è un certo doppio senso, una ironia di fondo in tale dichiarazione, ma a noi nazionalsocialisti importano i fatti, non la cultura, non l’ironia, non l’intelligenza; ma torniamo “a noi” come dice il mio amico Benito (siamo grosso modo nel ‘33, quindi Benito Mussolini era ancora un suo modello), allora come si chiama questo medico di Baden Baden?” “George Groddeck!” “mmm…. il nome non mi dice niente, vediamo che cosa mi scrive…”Ecco qui, la fantasia non basta, qui ho bisogno di tirare in ballo qualcuno di veramente straordinario, qualcuno che con suo “tocco” ha cambiato i termini della rappresentazione che è stata la più rilevante caratteristica del XX secolo: il cinema. Si è lui Ernst Lubitsch, di area mitteleuropea come Hitler, come Groddeck, come Freud , ma attivo, anzi tra i protagonisti assoluti della Hollywood dello star system, dove ancora in quel periodo vigeva la frase di Al Johnson “Signori non avete ancora sentito nulla!” La mia fantasia fa invece un saltino in avanti di qualche anno e arriva al film, ovviamente di lui, Ernest Lubitsch “to be or not to be” con una sola parola/grido/imprecazione/richiamo : SCHULTZ!!! O meglio ...“Sssccchhhhuuuuultz!!!!! Nel gerarca nazista buffo e pacioccone, tutto sommato simpatico, che chiama disperatamente il suo attendente, ecco io ci vedo il terribile Hitler, che, anche lui la faccia da macchietta, con quei baffetti, il riportino dei capelli, i suoi tic e modi da barzelletta da manicomio, ce l’aveva eccome ! “Schultz!!! chiamami Goebbels, chiamami Goering, Hess, chiamami chi ti pare, ma subito qualcuno che mi vada a prendere questo dannatissimo George Groddeck e me lo porti qui alla mia presenza, immediatamente!!!!!” Cosa c’era scritto in quella lettera che aveva fatto andare talmente fuori dai gangheri il Fuhrer, tanto da fargli anticipare la macchietta del gerarca pacioccone e i suoi continui richiami allo Schultz di turno? Non è dato saperlo, però conoscendo il senso, soprattutto delle lettere ad un’amica del libro dell’Es che ancora oggi fanno imbestialire chicchessia (soprattutto i medici di professione e le donne), non è difficile immaginarlo: richiami a traumi infantili, edipo non risolto, simbiosi di tipo incestuoso con la madre, e magari un invito a farsi ricoverare nella sua clinica per avviare un trattamento terapeutico. 
Ma chi era George Groddeck ? e come era arrivato a quella determinazione di inviare una lettera a Hitler, che francamente era un po’ l’incarnazione di tutte le turbe che era andato elencando in quella raccolta epistolare indicata con il sottotitolo di “lettere ad un’amica” che rispondeva al nome del “LIBRO DELL’ES”
Nato nel 1866 era cresciuto in una famiglia ricca soprattutto di fermenti culturali e aveva intrapreso la professione medica, attratto da idee e studiosi meno ortodossi della pratica della medicina tradizionale, in particolare il Dr.Ernst Schweninger che aveva un clinica in Baden Baden e che lui più tardi rilevò chiamandola “Marienhole” dove portò avanti e anche all’esasperazione il suo approccio alla malattia caratterizzato da istanze psicologiche e dopo un primo momento di rifiuto, anche psicoanalitiche, secondo le teorie di Freud, di cui in breve entrò nell’orbita ed anche di altri grandi studiosi in materia, in primis Sandor Ferenczi di cui divenne addirittura il medico personale, quindi Otto Rank, Melanie Klein, Karen Horney, Erich Fromm, che lo considerava tra i maggiori psicoanalisti dell’epoca, sia per l’originalità del suo pensiero, sia per l’efficacia della sua pratica terapeutica. In quanto a Freud , malgrado ne riconoscesse il pensiero e la pratica poco ortodossi rispetto alla psicoanalisi lo aveva nella massima stima e come è noto adotto’ il termine “ES” quale appunto Groddeck definiva l’inconscio, per denominare la sua scoperta “ “devo affermare “ gli scrisse in una lettera “che lei è uno splendido analista, il quale ha afferrato irrevocabilmente la sostanza della questione… chi riconosce che il transfert e la resistenza sono la chiave di volta del trattamento, appartiene ormai, senza rimedio, alla nostra schiera.”
Fu proprio su pressione dello stesso Freud, che Groddeck entro’ a far parte della Società Psicoanalitica, declinando poco dopo l’invito, soprattutto perché lui amava sempre definirsi uno psicoanalista “selvaggio” uno che continuava ad operare coi suoi metodi nella clinica di Baden Baden e che ribadiva a livello teorico in una rivista di arte e cultura “Die Arche” e in libri, oltre al suo più famoso e già citato “Il libro dell’Es” che contribuì a diffondere, sotto forma di un finto epistolario tra Patrik Troll (pseudonimo di Groddeck) ed una sua amica, molti concetti della psicoanalisi, riformulati in maniera originale e stimolante, e rappresenta a tutt’oggi uno dei testi più importanti in materia di psiche: i carteggi con Freud e con Ferenczi, il romanzo “lo scrutatore di anime”, i saggi “Satanarium” , “Nasamecu” e “il linguaggio dell’Es. C’è da notare che la sua personalità ricca di vistose e suggestive contraddizioni, gli spunti geniali contenuti nei suoi scritti, che volutamente rifuggivano la sistematicità e il dogmatismo delle trattazioni scientifiche, furono subito oggetto di forte controversia e ostracismo. Il primo contatto, in particolare con il suo libro più famoso, Il Libro dell’Es, quello appunto scritto in forma epistolare provocava - e provoca tuttora - spesso reazioni violente: dalla venerazione all’antipatia, alla repulsione, reazioni quasi sempre di carattere emotivo (l’ho detto soprattutto a livello di classe medica ortodossa e di sensibilità femminile) e avevano e hanno poco a che fare con una intelligente valutazione delle sue parole; insomma proprio quella ben riassunta dal personaggio Hitler, gratificato da una lettera aggiuntiva e con la reazione di cui sono andato a prendere in prestito le immagini di un film dove Ernest Lubitsch, l’ideatore del più famoso dei “tocchi” riesce a dargli anche un correlato auditivo “Schultz!!!!!” Avvertito in tempo, Groddeck riuscì a sottrarsi alla cattura da parte degli sgherri di Hitler, ma morì poco dopo, nel 1934 in Svizzera dove si era rifugiato. Non è comunque solo dal Libro dell’Es che la straordinaria personalità del nostro personaggio emerge: in “Nasamecu” sottotitolo “la natura guarisce, il medico cura” era stato preso in esame il pensiero e comportamento umano, quando parla di “Es” egli intende un qualcosa che è anteposto sia all’ Io che al Super-Io, che più di viverlo l’uomo, ne è vissuto, un qualcosa di cui si deve assolutamente tenere conto quando si voglia pensare all’uomo come totalità. La sua influenza nel mondo è stata enorme, agli inizi più nell’area lingua inglese, Auden, Henry Miller, Lawrence Durrel, poi a livello europeo di cui fu lo stesso Durrel che ne avviò anche in area germanica negli anni sessanta la nuova edizione delle opere e Ingebor Bachmann in un saggio destinato alla rivista Der Spiegel, rammaricandosi per la scarsa attenzione rivolta a Groddeck nonostante il tentativo di Durrell di riportarlo alla luce, scrisse nel 1967: “A tutti, oltre alle gocce per la tosse e alle iniezioni, dovrebbe essere prescritto il Libro dell’Es , uno dei classici del secolo”. Più recentemente fecero a lui riferimento le scrittrici Simone de Beauvoir e Susan Sontag. In territorio anglo-americano l’opera di Groddeck vanta una lunga tradizione. Michael Balint, scrisse : “Ha ragione Groddeck: non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti dall’Es”. È una citazione tratta dal libro Elementi di Psicoanalisi dello psicoanalista italiano Edoardo Weiss, la cui prima edizione è del 1930: molto probabilmente è questa la prima volta che compare il nome di Groddeck in Italia, insieme alla sua parola più celebre, Es, appunto. Anche da noi le trentatré lettere a un’amica contenute nel Libro dell’Es dovettero attendere trent’anni prima di essere tradotte e sono tuttora uno dei libri più diffusi e letti. In Francia, il Paese di Sartre, di Lacan, dagli anni settanta
Groddeck è uno degli psicoanalisti più discussi e conosciuti. Le sue opere sono edite anche in Scandinavia, Olanda, Spagna e Portogallo e nei paesi sudamericani. Nel 1984, nel cinquantesimo della morte, a Baden-Baden fu organizzato il primo simposio su Groddeck, internazionale e interdisciplinare, e nel 1986 a Zurigo venne fondata la Georg-Groddeck-Gesellschaft, con sede a Francoforte, allo scopo di far conoscere la persona e i suoi scritti. Uno dei tesori nascosti in esso contenuti è il recupero della fonte diretta del concetto di Es, che sarebbe da ricondurre non tanto a Nietzsche, come aveva tenuto a precisare Freud quando aveva preso il termine da Groddeck, per indicare il suo inconscio, quanto a Wilhelm Bölsche: questi, pur non essendo lo scopritore dell’Es, ne parlava già nel 1904 nello stesso modo in cui farà Groddeck qualche anno più tardi, ovvero come un’entità, più o meno misteriosa, ma sempre presente nella natura umana che è la vera responsabile non solo delle sue fantasie, dei sogni, degli atti mancanti e dei lapsus, ma anche della malattia, della morte e del suo ambiguo rapporto con il “de-siderio” 

ESTASI TRA SCHERMO E INVENZIONE

 


Estasi è un titolo che in questo articolo è incentrato principalmente sulla straordinaria storia dell’attrice che ne interpreto’ l’omonimo film, un film che tra l’altro vanta una primogenitura particolare: essere stato il primo film della storia cinematografica dove appare un nudo integrale di donna;  e che donna! giustappunto lei l’austriaca Hedy Lamarr, classe 1914, quindi all’epoca dei fatti  poco più che diciottenne essendo nata verso la fine dell’anno, e il film uscito nelle sale, ovviamente con enorme scalpore per tale particolarità, nel febbraio del 1933. Per la verità la giovane non si chiamava ancora così, ma  Hedwig Kiesler, brillantissima studentessa di ingegneria ma che per la straordinaria avvenenza, era già stata scelta per piccole parti in film anche di un certo livello e lei stessa aveva seguito dei corsi di recitazione, forse influenzata da una giovanile passione per un altrettanto giovane promettente attore Wolf  Abach-Retty, che guarda un po’, era il futuro padre di Romy Schneyder. Nel marzo 1931 quando aveva appena 16 anni apparve in topless su di una famosa rivista tedesca e poco dopo veniva  selezionata dal famoso regista teatrale Max Reinhardt, per lavorare in teatro a Berlino: sembra che Reinhardt sia rimasto letteralmente abbagliato dalla  ancora Hedwig Kiesler  definendola “la ragazza più bella del mondo” Queste le premesse per la scelta del regista ceco Gustav Machaty di affidarle la parte di protagonista nel film Estasi, cui da tempo ne stava elaborando la trama, attratto dalle possibilità del mezzo cinematografico di enfatizzare le possibilità espressive del corpo femminile, che già avevano avuto un precedente in un film da lui girato nel 1929 dal titolo Erotikon, ma che ora con una interprete di tal fatta, avevano concretissime possibilità di divenire esplosive (come in effetti doveva puntualmente accadere). Il film girato tra Vienna e gli stabilimenti Barrandov di Praga, più alcune trasferte in Alta Boemia e nei Carpazi, ha una trama esilina: una giovane donna sposata ad un uomo più anziano, ricco e volgare, in preda a disperazione fa ritorno nella casa paterna e a contatto colla natura, tra i boschi, nell’acqua di un laghetto che sono di enfasi ad una riscoperta del suo corpo, sul quale il regista ovviamente  indugia, ritrova anche la passione, nelle vesti (e non vesti) di un giovane di passaggio con il quale passa ore d’amore (e anche qui il regista non smette di indugiare...); Il seguito, del marito che si suicida e lei che rinuncia all’amante, lo fanno anche piuttosto manierato e convenzionale, ma quel corpo di lei, nudo tra le foglie e mollemente adagiato sulle acque, si imporra’ nell’immaginario collettivo di tutto il mondo, con riflessi che non si sono spenti neppure oggi.  Il film, come detto sollevò un enorme scalpore, con le solite indignazioni e proibizioni, però c’è da dire che nell’Italia fascista  ove sulle prime era stato interdetto, poi su pressioni di persone intelligenti, che non mancavano nel Regime, Balbo, Ciano figlio, Bottai,  Freddi, venne presentato al Festival di Venezia del 1934. La bellissima ragazza austriaca si trovò di colpo proiettata ai fasti della fama; quelle scene di nudo solleticavano i pruriti di gran parte della società internazionale dell’epoca e  ci fu anche chi vi trovò analogie con il romanzo di Lawrence L’amante di Lady Chatterley uscito  5 anni prima, anzi per la verità Henry Miller  ci scrisse su un saggio; ma come spesso accade un risultato così eclatante ha spesso delle ripercussioni: sposatasi infatti con un industriale  miliardario mercante d’armi Fritz Mandl, che per molti versi poteva ricordare proprio la vicenda del film, questi cercò di acquistarne tutte le copie del film  in circolazione per distruggerle e conseguentemente proibire alla moglie persino di nominarlo, quel film.  Questo matrimonio con un industriale  che aveva contatti con tutte le fabbriche d’armi e anche con nazisti e fascisti e che imponeva alla moglie un ritiro quasi monacale, come a contrapasso della vicenda di quella sua scandalosa interpretazione rappresenta come una parentesi buia della vita di Hedy, eppure  doveva rivelarsi l’occasione per sviluppare quel diverso aspetto della personalità dell’attrice che diverrà predominante negli anni della guerra. Mandl difatti la teneva alquanto segregata, in un lussuosissimo Castello e boicottava la sua prosecuzione dell’attività di attrice, ma essendo una bellissima donna, anzi quasi per antonomasia la più bella del mondo, ben volentieri la presentava ai suoi amici industriali e anche a importanti gerarchi dei sopracitati Regimi: Goering, Goebbles, Ciano..., addirittura si sono fatte illazioni che nel Castello/prigione dove la coppia viveva, non era improbabile di vedervi Hitler e Mussolini. Cosa di gran lunga più importante è che oltre a tali personaggi, la residenza dei coniugi Mandl era anche convegno per scienziati, ricercatori di nuove tecnologie belliche, fisici, inventori, e siccome il marito, come un diadema da mostrare a tutti, la portava sempre con sé, ecco che lei l’immagnifica cui tutti, anche il più arcigno dei professoroni, non poteva, sia pure per un attimo, non pensare a quelle scene del laghetto e in mezzo alle frasche, si ritrovava in riunioni dove si parlava di tematiche innovative, segretissime, di cui nessuno, il marito per primo, poteva immaginare che lei ci capisse qualcosa. Ricordate all’inizio della biografia? : ragazza austriaca bellissima, ma anche quel “brillantissima” studentessa di ingegneria?  ebbene c’era molto di vero in quell’epiteto: allieva della scuola di ingegneria a soli 16 anni, aveva sostenuto qualche esame dove il commento unanime dei professori era stato “di un’intelligenza straordinaria, addirittura eccezionale”, sicchè ecco che a quelle riunioni, tra quei commenti, le formule, i calcoli matematici, non è che lei fosse, come tutti credevano una bella statuina, lei incamerava dati, nozioni ed era perfettamente in grado di trarre qualche conclusione, come di lì poco avremo modo di constatare, quando stufa di quella dorata prigionia, stufa del marito e anche sempre più inquieta per l’ascesa di Hitler, che per lei di origine ebree, non era  certo rassicurante, aveva fatto nel 1937, una vera e propria fuga a Parigi dove il produttore Louis.B.Mayer che era in Europa in cerca di nuovi talenti, la convinse a trasferirsi in America e a cambiare il nome in Hedy Lamarr. Ovviamente, con quel po’ po’ di curriculum (il primo nudo della storia del cinema) era  la professione di attrice lo specifico ove orientarsi e Hollywood le riservò un’accoglienza piuttosto lusinghiera, offrendole da subito parti in parecchi film e con attori di grosso calibro (Clark Gable, Spencer Tracy, James Stewart, etc.) Però una volta assicuratasi successo e fama, le tornarono alla mente tutti quei discorsi carpiti in casa Mandl: in particolare aveva attratto la sua attenzione un metodo che alcuni scienziati perseguivano, di teleguidare ordigni e contrastare i segnali trasmessi da un nemico  per bloccare  i segnali radio per il telecontrollo ad esempio di un siluro. Complicatissimo, ma lei  aveva il potenziale non solo per capire  a cosa si alludeva, ma anche di studiarci sopra ; tra un film e l’altro, tra una ripresa a Hollywood  e anche  con la mobilitazione  della comunità austriaca e tedesca di Los Angeles contro il Nazismo e a favore di un’entrata in guerra  contro la Germania, che il regista Ernst Lubitsch andava  organizzando e che comprendeva parecchia gente dello spettacolo, di origine europea come Marlene Dietrich, ma anche statunitense  come  Clark Gable e Carole Lombard (quest’ultima morirà proprio nel corso di un suo giro propagandistico per tale scopo). Hedy era si intelligentissima e un ex portento negli studi di ingegneria, però pur sempre una dilettante per evoluta che fosse, le mancava quel tocco in più, che anche a questo tipo di ricerche, necessita per passare dalla formulazione a qualcosa di realizzabile:  un qualcosa di artistico, di quasi magico, di estremamente fantasioso, ecco tipo un’armonia musicale, Mozart, Beethoven, Stockausen, Varese, magari un semplice Gershwin, e difatti è proprio in ambito musicale che trovò il suo compendio: il compositore d’avanguardia George Antheil, che era anche stato molto vicino al movimento surrealista. Insieme i due idearono  un sistema che si rifaceva a quel progetto di un modo di criptaggio  delle comunicazioni via radio, che in mare poteva indirizzare, ma anche intercettare, i siluri dei sommergibili. Hedy e Antheil svilupparono un prototipo di criptaggio  dei messaggi radio tra centro di controllo e siluri, per far si che non potessero essere intercettati, basato sulla tastiera del pianoforte ove ogni tasto  produceva un segnale ad una data frequenza e solo seguendo un codice che era una sorta di armonia  era possibile controllare la traiettoria del siluro. I due iniziarono una serie di contatti  con il National Inventor's Council fondato nell'agosto 1940 su impulso del Presidente Roosevelt nell'ambito della mobilitazione industriale in vista di una guerra e elaborarono via via delle modifiche  sempre basandosi su osservazioni di tipo musicale, quale ad esempio  una versione tecnologica della banda perforata che si usa nella pianola meccanica, che permetteva una rapida variazione di frequenza, di nuovo il modello del pianoforte con i suoi 88 tasti, e quindi 88 frequenze, che in seguito verrà denominata"Frequency-Hopping-Spread Spectrum".  L'11 agosto 1942 ai due veniva  concesso il brevetto n. 2.292.387, ma l'Inventor's Council non era propenso ad accettare un dispositivo bellico inventato da una diva del cinema, per di più austriaca, e un compositore di musica. Era ancora il tempo delle valvole termoioniche (i transistor sarebbero arrivati solo anni dopo), così il progetto fu bocciato dalla Marina USA, che ritenne  impraticabile l'installazione a bordo di un siluro di un simile meccanismo. I due presentarono un secondo progetto questa volta in ambito aeronautico di  un missile antiaereo che esplodeva automaticamente in prossimità del l'obiettivo, non solo quando lo colpiva, ma soprattutto quando lo mancava  per produrre lo stesso danni al nemico, ma ancora una volta l'Inventor's Council bocciò il progetto. Edy Lamarr avrà una sua personale rivincita nel 1962, quando la tecnica da lei ideata con Antheil sarà adottata dagli Stati Uniti (con il nome di CDMA, Code Division Multiple Access) come sistema di comunicazione a bordo di tutte le navi impegnate nel Blocco di Cuba, e ancor di più quando sia lei che Antheil erano morti da tempo, in quanto i loro nomi sono stati inseriti postumi nella National Inventors Hall of fame  degli Stati Uniti (2014) e a tutt’oggi le loro ricerche e invenzioni sono alla base  di molti  sistemi di trasmissioni radio in ambito informatico e di telefonia mobile.

 

mercoledì 23 settembre 2020

LA SIMMETRIA COME VARIANTE

 


C’è sempre un po’ di personale quando si parla di qualcosa o anche se ne scrive: ecco prendiamo le mie impressioni  sul mio professore di Storia dell’architettura Bruno Zevi classe 1918, un personaggio che doveva influenzare in maniera indelebile la mia formazione architettonica, anzitutto con la passione verso Frank Lloyd Wright che lui aveva conosciuto di persona, anzi più che conosciuto, dato che si era battuto perchè lo Stato Ita
liano e il Comune di Venezia, in quei primi anni cinquanta dessero avvio alla costruzione di un progetto che il grande Maestro aveva elaborato per una palazzina sul Canal Grande e conservava tra le sue reliquie più care alcune foto che lo ritraevano appunto con Wright a spasso per Venezia.“ah!così hai deciso di iscriverti ad architettura!?” mi aveva fatto, appena fatto ritorno da Parigi  Enzo Molajoni,un caro amico di mio padre e di Franco Dodi “bene! vai a trovare un mio vecchio amico, dei tempi del liceo, che un altro comune amico Ruggero Zangrandi, purtroppo scomparso, cita nel suo libro “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” : Bruno Zevi che nel movimento che all’epoca noi studenti avevamo fondato “il Novismo”si occupava già da allora di arte e soprattutto di architettura “sai “ aveva aggiunto “c’era anche Vittorio il figlio di Mussolini, e debbo essere sincero, era anche uno in gamba; più di una volta ci capitò di incontrarlo il “puzzone” di suo padre, che faceva finta di interessarsi delle iniziative del nostro movimento.” Quanto Molajoni era discreto, riservato, tanto l’amico, che ero andato come da suo consiglio a trovare, era esuberante, estroso, roboante, con il cravattone a farfalla, la pipa sempre in bocca; era uno dei più famosi architetti d’italia non tanto come progettista, che la sua unica opera accreditata era una palazzina in via degli Scialoja, non particolarmente apprezzata dalla critica, quanto per la sua infaticabile opera di divulgatore dell’architettura, che aveva giustappunto in Wright una sorta di nume tutelare. Nel 1946 aveva scritto un saggio “verso un’architettura organica “ che era stata una bandiera per la nuova generazione di architetti che veniva da dopo la guerra , aveva fondato e dirigeva una rivista “l’architettura” che si rifaceva a “Casabella” la gloriosa testata del gruppo del M.I.AR (Movimento architetti razionalisìti) e “Gruppo sette” , e oltre a professore titolare della cattedra di Storia dell’Architettura II alla facoltà di Valle Giulia aveva svolto e svolgeva un infaticabile e entusiastica opera di storico e di divulgatore dell’architettura con la pubblicazione di una miriadi di libri, ivi compreso una cronaca in numerosi volumi, editi dalla Laterza di tutte le opere del dopoguerra , di cui una delle prime che si titolava “da Wright sul Canal Grande alla Cappella di Ronchamp” e che teneva sempre sulla sua scrivania "AH !" mi fece quando andai a trovarlo su presentazione di Enzo Molajoni " cominci architettura, quando gli altri si laureano !?” mi aveva fatto a bruciapelo col suo solito linguaggio colorito e quanto mai diretto “bhe sa professore….mi ero iscritto all’Ecolè des Beaux Arts di Parigi, ero appunto a Parigi dove lavoravo in una importante impresa di costruzioni, la C.G.E. conscrutions et entreprise generales” ….” ”ma non mi hai detto che hai fatto quattro anni di scienze politiche ? E come diamine ti avevano assunto in una impresa di costruzioni? ”Bhe! sa… mio zio era il Direttore Generale, veniva dalla Tunisia dove suo padre era stato il più grande costruttore del Paese e in Francia, dove era venuto fuggendo da Burghiba, aveva fatto carriera “.... ”lui!!!! non te”! schifoso raccomandato! Sei venuto su presentazione di quel rammollito di Enzo, perché speri che ti riservi un occhio di riguardo, ma stanne pur certo, io ti boccio!” Così l’atto di inizio con Bruno Zevi, però bisogna anche considerare che uno che a 23 anni decide di cambiare facoltà, non è che lo fa per schiribizzo, io a Parigi mi ero letteralmente ubriacato di architettura: lo status di nipote del potentissimo direttore generale mi poneva nella situazione di essere, eh si diciamolo, piuttosto privilegiato, i severissimi direttori tecnici erano con me degli agnellini e la segretaria Madame Labat mi si avvicinava compuntamente “monsieur Nardulli, si vous voulez, si vous pouvez…”così alle poche incombenze del lavoro si accompagnavano visite al Louvre, al Salon des Refuses, alle strutture di Soufflot nel Pantheon al quartiere di Sainte Genevieve, fino a salire su all’ultimo piano dell’edificio di Auguste Perret in rue de Franklin, primo edificio in struttura integrale in cemento armato , quindi al pavillon Suisse de la citè universitare de Paris, di Le Corbusier, dove mi ero anche assicurato un soggiorno, una escursione con mio zio e famiglia fino alla Cappella di Ronchamp, sempre di Le Corbusier, il tutto corredato di un numero spropositato di libri che oramai leggevo perfettamente in francese: il sistema di Hennebique, le ipotesi sul cemento armato di Saint Venant e Rondelet, i disegni di Viollet Le Duc, senza tralasciare le altre manifestazioni artistiche dell’Art Noveau e della pittura impressionista, Fauve, Pointillisme,
Cezanne fino a comprendere opere e movimenti anche non francesi come il “Die Brucke” e il “Der Blaue Reiter” di Kandisky. In altre parole ero si “vecchio” ma insomma piuttosto “informato” e non perdevo occasione per farlo piuttosto “presente” in ispecie con persone sul provocatorio e arrogantello, come Zevi, sicchè nel giro di poco, la sua opinione su di me, si era alquanto modificata, fino al punto di considerarmi un specie di suo assistente . Bruno Zevi non
era solo dirompente verso di me, lo era verso tutti, in particolare verso il cosidetto “comitato politico” che in quegli anni imperversava a Valle Giulia, per i quali rappresentava la canonica “bestia nera” : non c’era giorno che non li andava di proposito a prendere di petto “voi contestate tutto, ma dovreste mettervi a segare le colonne di questo edificio” e quelli di rimando cogliendo occasione di un suo intervento nella trasmissione di architettura “Habitat” che aveva l’eccezionale sigla della canzone “Partisan” di Leonard Cohen, dove parlando della sistemazione ideale di Roma, si era messo a spostare monumenti, chiese, in un grande plastico dove camminava con sicumera “Ah Zevi te sentivi ner tuo ieri eh!? … a spostà pezzi de città, questo qui non va, quest’altro dè là, me parevi all’Ambra Jovinelli!” La particolare fissa di Zevi, però rimaneva Wright; d’accordo era di una conoscenza mostruosa su tutto, Terragni, il Gruppo Sette, la scuola di Glaskov, Le Corbusier, il neo plasticismo di Oud e Theo van Doesburg, le ultime tendenze, ma Wright era, diciamo così, il suo mito imperituro. Le sue lezioni infarcite di insulti, parolacce , improperi erano di un fascino e di una suggestione incomparabili, ho seguito una volta un suo escorso di tutta la storia dell’architettura dal settecento ad oggi, fatta esclusivamente attraverso le gambe delle sedie. Grandioso!!! e oramai io gli tenevo quasi testa, e a volte lo pizzicavo proprio su Wright per farlo incazzare “mha!? Il grattacielo lungo un miglio,!!!!” facevo con nonchalance ” mi pare proprio una cazzata!… e Brodoacre city un quadretto idilliaco senza costrutto” Lo spazio interno, devi partire da quello se vuoi capire qualcosa di Wrigt!” diceva sempre “prendi la Casa sulla cascata…” uh!!! che palle co’ sta casa sulla cascata! nessuno nega che sia un capolavoro, ma insomma anche Mies Van der Rohe ci acchiappava con lo spazio e Alvar Aalto, ne vogliamo parlare? La biblioteca di Vyipuri, gli edifici dell’M.I.T, e certe sue ville? Anche lì lo spazio interno gioca una parte di assoluta rilevanza”. Battibecchi sempre battibecchi con Zevi, con me, col Comitato politico, con gli altri professori, assistenti, studenti, ma la cosa doveva assumere proporzioni davvero sopra le righe, quando nel 1973 uscì il suo libro “il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico, un libro che per Zevi costitui’ un’altra piece della sua tendenza al mitologema, quasi come quello di Wright. Vi erano difatti contenute in esso alcune tesi che determinavano non solo idee ma anche posizioni di prammatica che condizionavano qualsiasi discorso sul fare architettonico. Zevi affrontava il problema del linguaggio moderno dell’architettura, osservando che un solo linguaggio era fino a quel momento stato codificato: quello classico, mentre le varie accezioni del moderno fare architettonico, ecco tipico esempio quello di Wright, andavano considerate delle eccezioni, un qualcosa che lui definiva “anticlassico”, appunto un “codice anticlassico” e di questo codice anticlassico aveva individuato sette punti che aveva definito “invarianti” invarianti che con il solito suo carattere alquanto magniloquente e roboante aveva denominato “le sette invarianti dell’architettura “lui diceva che tramite esse si arrivava ad una risemantizzazione del linguaggio dell’architettura, così ad esempio porte, finestre, qualsivoglia aperture nelle facciate delle murature non deve necessariamente essere della forma precostituita dall’ordine classico, ma può e deve prestarsi a qualsivoglia graficizzazione, che deve essere però sempre e necessariamente “a-simmetrica” Con la simmetria Zevi sembrava avere una ruggine personale difatti la trovava  la regola più comune e banale, una sorta di assicurazione quando si vogliono cose stabili, immutabili, quando si ha paura della novità, della relatività della crescita. Si evoca il passato greco- romano mitizzandolo, per nascondere l’instabilità del presente. E’ stato sempre cosi: la simmetria è la facciata di un potere fittizio che vuol apparire incrollabile. Gli edifici rappresentativi del fascismo, del nazismo e dell’Urss stalinista sono tutti simmetrici. La divisione in due in base ad un asse, generalmente verticale, di un edificio lo rende infatti assolutamente semplice da comprendere, esso immobilizza il movimento, non ha più altro da dire. Questa della simmetria era quasi una ossessione per Zevi : una mattina si era presentata al suo cospetto una bellissima studentessa, che aveva fatto sobbalzare il cuore e qualcos’altro, a noi assistenti: portava i capelli raccolti e un loden che poi quando si era sciolti i primi sulle spalle e sfilato l’informe cappotto, era stata una specie di “conticuere omnes, intentique ora tenebant…” = tutti tacquero e intenti tenevano lo sguardo : non c’erano né alti scranni, né regine Didone o meglio la regina era lei e di certo, se dolore stava rinnovando, era quello della presentazione e relativo effetto su maschi iper arrapati di un suo corpo d’eccezione dove un golfino a collo alto e aderentissimo faceva risaltare un seno che dire perfetto era quasi fargli torto. Con fare disinvolto e percependo quell’atmosfera di sospesa tensione di desiderio, muoveva sui banchi i disegni, piante prospetti e sezioni di un suo progetto dato che chiedeva a Zevi di farle da relatore per la tesi di laurea “ Signorina!!!” fece ad un certo il professore soppesando come al solito il suo atteggiamento con ampie boccate di pipa e il sistemarsi il cravattone a farfalla “lei vuole che io faccia da relatore alla sua tesi!?””si professore ! sarebbe un onore “ fece quella di rimando , laddove quel golfino con relative forme che racchiudeva, sembrava come animarsi con la sua voce ...“lei sa " ribatte ' con quella certa aria compiaciuta, quasi pregustando quello che stava per dire " che io ho pubblicato un libro dove ho codificato sette invarianti assolutamente necessarie per fare architettura moderna?” si certo professore “ rispose prontamente “il linguaggio moderno dell’architettura!” “appunto signorina e quindi deve necessariamente sapere che una delle più importanti invarianti di questo codice anticlassico è l’asimmetria , avendo io equiparato la simmetria all’omosessualità!’” la ragazza annui’ senza profferire parola, lasciando il tempo al professore per volgersi gigionamente verso tutta l’aula universitaria gremita di persone e da buon istrione, come spesso lo apostrofavano quelli del comitato politico “a Zè, ma che te senti all’Ambra Jovinelli!?” lanciare la sua folgorante boutade “quindi signorina, siccome lei mi ha detto che ha letto il mio libro e d’altronde vuole che io le faccia da relatore alle tesi, vedendo il suo progetto rigidamente simmetrico, devo dedurre che lei è….lesbica!” 
A parte quindi le vicende un po’ boccaccesche delle interrelazioni tra professore e studenti, quali abbiamo visto quella della stupenda ragazza, supposta lesbica, gli incidenti si moltiplicavano perche’ Zevi aveva avuto l’idea di istituire un programma del suo corso di architettura contemporanea, invitando i più famosi architetti dell’epoca (Carlo Aymonino, Renzo Piano, Aldo Rossi, Paolo Portoghesi, etc.) ad analizzare le loro opere proprio in relazione all’adesione al suo cosiddetto codice anticlassico, ovvero alle sette invarianti. Ho assistito a litigi epocali, quasi ad arrivare alle mani, e comunque a me personalmente questa storia del codice anticlassico e delle sue invarianti non mi aveva mai troppo convinto e non mi peritavo certo di non farlo presente al Maestro. Per una somma di circostanze in quello stesso periodo , mi era capitato di avere discussioni con un altro grande critico di architettura Manfredo Tafuri che era il cognato di un mio intimo amico Sandro Rapisarda e questi a proposito di ordine classico e non classico aveva scritto un libro di ben altro spessore “Teorie e storia dell’architettura” e il discutere con lui, anche se era decisamente il contrario di quello con Zevi: 
asciutto, essenziale senza la minima esternazione, lo trovavo di grandissima profondità.

Ammetto che non mi sono mai piaciuti gli schemi, le etichette e poi erano troppe le eccezioni che potevano sollevarsi per ognuna di quelle famose sette invarianti, “lei ardirebbe di chiamare accademico Il Bramante del Tempietto in San Pietro in Montorio? E il fatto che Michelangelo era omosessuale giustificherebbe l’impianto simmetrico della Cappella Sistina o anche della Cupola di San Pietro?…. e come la mette con Bernini e Borromini e anche con Pietro da Cortona, Santa Maria della Pace è perfettamente simmetrica, però realizza quell’interrelazione con lo spazio urbano circostante in maniera mirabile!? Anni dopo quando io era oramai laureato da più di una ventina d’anni, e lui non insegnava da un pezzo ad architettura dalla quale si era ritirato come al solito con grande polemica sostenendo che era oramai impossibile insegnare architettura e però feceva sempre scalpore colorendo alla sua solita maniera la partecipazione a vari talk show televisivi, tipo il Maurizio Costanzo al teatro Parioli in Roma, dove una volta aveva messo un bicchiere davanti a lui e non aveva profferito parola, asserendo che il silenzio deve avere l’acqua in bocca (o qualcosa di simile) mi capitò di rincontrarlo, proprio nella Hall del Teatro Parioli e non potei fare a meno di fargli osservare “professore lei ha sempre asserito che la simmetria va
identificata con l’omosessualità, si ricorda quella povera ragazza come ci rimase quando lei affermò davanti a tutti “signorina , lei è una lesbica!”…” ebbene professore, come ci rimarrebbe lei se le dicessi oggi, che un grande studioso di psicoanalisi, uno che ha addirittura dispiegato nuove e inusitate prospettive alla scienza e anche alla metodologia terapeutica, stabilendo correlazione con la fisica subatomica e la più avanzata teoria
degli insiemi, ha affermato che la simmetria è la modalità dell’inconscio?…. L’inconscio professore, quello di Freud, ma anche quello di Lacan, quello del lapsus, dell’atto mancato, del sogno e del “luogo dell’altro” tutti concetti che hanno grande, grandissima affinità con le tesi di una architettura diversa, non accademica, quale lei ha sempre propugnato”

 

 

LA CASCATA MERAVIGLIOSA

 

Sembra paradossale che da una concezione  così comunitaria dell’architettura, come il grattacielo, possa provenire l’esempio più classico dell’individualismo americano , il campione della casa unifamiliare, del focolare domestico, dello spazio sviluppato, dilatato sulla  orizzontale e non certo sul verticale :  il giovane Frank Lloyd Wright che aveva lavorato  per 6 anni nello studio di Sullivan,  ovvero il più fanatico propugnatore del nuovo tipo costruttivo: il grattacielo, sviluppo in altezza, verticalità,  Sullivan che era anche  quello che non aveva mai abdicato a quelle idea di forma che deve seguire la funzione  e non aveva accettato nessun compromesso di mimesi  o di decoratività posticcia. Eppure sembra il giovane Frank Lloyd visitando l’Esposizione pre-colombiana di Chicago del 1893, quella che segnò il famoso tradimento di Burnham e l’abbandono della  purezza espressiva funzionale  da parte di tutti i protagonisti della Scuola di Chicago, ad esclusione di Sullivan, il  ventiquattrenne allievo  si sia fatto fortemente influenzare  da un piccolo tempio giapponese ricostruito su di un isolotto. Cosa poteva esserci di così attraente per un giovane allievo del più battagliero propugnatore della verticalità, dello sfruttamento intensivo dello spazio, nella architettura giapponese, fatta di spazi aperti, di ampie terrazze, di una armonia con il paesaggio naturale? Proprio quello che costituirà la filosofia delle “Prairies Houses” e che rappresentò l’essenza stessa della sua poetica, un qualcosa che lui  stesso definirà “architettura organica”:
l’alternarsi di ampi spazi aperti, gli aggetti delle terrazzate, una concezione spaziale che promana dall’interno, dal nucleo della casa per accogliere come in un abbraccio tutto l’ambiente circostante . Lasciato lo studio di Sullivan, Wright ne aprì verso il finire dell’ottocento, uno proprio e vi radunò un certo numero di architetti, (ben diciotto) dei quali molti erano come lui provenienti  dallo studio di Sullivan e Adler  Da questo gruppo di collaboratori
, che lo aiutarono nelle sue tantissime commesse, nacque la cosiddetta “Prairie School”  che stilò un vero e proprio manuale di progettazione che prevedeva tra l’altro : (1 una disposizione orizzontale di linee e masse (2 una interrelazione continua dell’edificio con l’ambiente (3 sincerità costruttiva  e funzionalità (4  uso di materiali naturali  sì da enfatizzare il naturale eliminando ogni decorazione superflua (5 la cosidetta “scatola rotta” ovvero tutti i locali interni compenetrati uno con l’altro (6 un uso diffuso delle più avanzate tecnologie sia a livello strutturale che di supporto per i servizi tecnici. Il movimento della Prairie House fu insieme moderno, per l’estetica e l’uso della tecnologia, e tradizionale, per la fede nella sicurezza, nella privacy e nella famiglia. Alle disposizioni di carattere tecnico corrispondevano  istanze più psicologiche : Le  semplificazioni della pianta, si sosteneva, debbono avere  riscontro in una diversa  concezione della famiglia, più semplice, più raccolta, più intima. la Prairie House si configurava come luogo di rifugio dalle incertezze del mondo: così l’ingresso era  spesso nascosto, labirintico, la facciata arretrata, i giardini schermati da alberi e piantumazioni, il camino diveniva il fulcro attorno al quale dovevano come avvolgersi gli ambienti del piano principale  e rivestiva  per lo più un significato simbolico:: attaccare  la casa al terreno, il simbolo dello “stare insieme. Al piano terreno nessuna partizione ma un grande spazio unico; la parete non era  più il lato di una scatola ma la delimitazione di uno spazio contro le avversità che diveniva il mezzo  di “aprire lo spazio”, stimolando un collegamento esterno-interno. Le gronde in forte aggetto, le decorazioni e spesso anche la disposizione dei mattoni davano infine alla casa una forte orizzontalità, mentre i soffitti erano ribassati  per dare un maggiore senso di raccolta e di intimità, e come detto, fondamentale era  il diverso tipo di rapporto che si doveva stabilire con la natura, si da suggerire anche una continuità tra spazi interni e spazi esterni. Nel 1909 Wright, spirito profondamente inquieto, mai realmente soddisfatto di sé stesso e delle sue pur già eccezionali razionalizzazioni che a 40 anni lo ponevano tra i più rilevanti architetti statunitensi e indubbiamente già portatore di un nuovo linguaggio, quale abbiamo evidenziato col movimento della “Praire House” fece un viaggio in Europa di un anno lavorando a Firenze, a Fiesole alla stesura di un libro che uscirà in tedesco a Berlino,
“Ausgeführte Bautendove”
ove aveva fatto  il punto di quella che considerava l’architettura organica. Un libro indubbiamente interessante anche perché corredato di eccezionali disegni esplicativi dello stesso Wright, ma alquanto fuori le righe, e provocatorio:  in esso difatti vi si apprezzavano  determinati movimenti della tradizione europea come il Gotico, ma l’autore si scagliava contro tutto il Classicismo, accusandolo di assolutismo espressivo ed anche origine di  tutte le prevaricazioni accademiche dell’arte con un correlato nella stessa socialità e politica, contrapponendovi il canonico spirito americano, pionieristico e democratico. Fatto ritorno in america Wright si trasferì nel Wisconsin e qui cominciò ad avanzare le prime idee del  complesso di Taliesin West, in Arizona che  un quarto di secolo dopo diverrà la sua residenza ed anche una vera e propria scuola. 
Abbiamo visto quanto rilevante fu nella sua formazione artistica, il contatto con l’architettura giapponese, egli aveva già visitato il Giappone nel 1905 e ne aveva tratto elementi che avevano precisato la sua poetica, gli spazi aperti, gli aggetti delle terrazze, l’uso dei materiali naturali, il costante colloquio della costruzione con la natura  ed un preciso riscontro di tale influenza si avrà nel 1914 nella realizzazione dei Midways gardens di Chicago nel
1914, ma nel 1916 mentre in Europa era in corso la terribile guerra e l’anno seguente coinvolgerà gli stessi Stati Uniti, si era trasferito stabilmente a Tokio aprendovi uno studio che ebbe uno straordinario successo: convocato dall’Imperatore in persona, costrui’ edifici straordinari con avanzati principi antisismici tant'è che l’Imperial Hotel  da lui costruito rimase perfettamente in piedi nel terremoto che rase al suolo Tokio nel
 1923. Diciamo che oramai alle soglie della vecchiaia, passati i sessanta anni, ma per nulla diminuita la sua straordinaria verve artistica, Wright era  uno degli architetti più famosi del mondo, conosciuto  da tutti anche
dai più celebrati maestri europei, che volevano vedere e studiare   le sue opere e che volevano  conoscerlo, come ad esempio Gropius : ma Wright era  si un genio, ma era  pur sempre uno spocchioso americano, ubriaco di americanismo, anche nelle sue accezioni più fastidiose e non ne volle  neppure sapere di stringere la mano ad uno dei protagonisti del razionalismo, l’antitesi stessa di tutte le sue concezioni artistiche che oramai si erano  andate sempre più precisando come “architettura organica” e che troveranno  costantemente  nuove esternazioni, sia in pratica con opere eccezionali, sia in vere e proprie impostazioni  teoriche e ideologiche sulla supposta superiorità dello spirito americano . Uno spirito che in quegli stessi anni doveva avere un forte contraccolpo con la crisi economica del 1929, ma sul quale Wright sarebbe comunque riuscito a dir sempre la sua, facendo  leva sul suo, diciamo così “patriottismo” e tutto sommato ingenuo orientamento del mondo. Prendiamo ad esempio il termine Usonia, che Wright utilizzerà per contraddistinguere le sue costruzioni degli anni trenta, sul proseguo ed evoluzione del concetto di architettura organica (le Housonian Houses).
Il termine è un  acronimo di “United States of North America” coniato ai primi del secolo da uno
scrittore americano, certo James Duff Law, che intendeva  trovare un aggettivo che informasse compiutamente lo spirito americano, (usonian );  Wright si appropriò di tale termine per poter descrivere quella che nei suoi progetti doveva definirsi come un’architettura specificatamente statunitense, basata sul modello di vita nord-americano e inserita nel paesaggio naturale degli Stati Uniti, attività nella quale fu impegnato appunto nel periodo della Grande Depressione, preferenziando materiali ancora più semplici, soluzioni fortemente economiche e commissioni e parcelle molto contenute. Wright aveva scritto in quell’anno il saggio The Desappearing City nel quale esprimeva le sue idee in fatto di urbanistica. Egli riteneva utile decentrare le funzioni delle città sovraffollate in nuovi centri di campagna e stilò un grande progetto urbanistico  “Broadacre City”, che in qualche modo rappresentava  la controfaccia americana del famoso“Plan Voisin”  e del concetto dell’”immeuble ville” di Le Corbusier, ovviamente immettendovi tutt’altri parametri, decisamente opposti, tipo quello della bassissima densità abitativa e un fortissimo contatto con la natura. Non è però per Brodoacre che Wright è passato alla storia, laddove l’ingenuità di fondo e un velo di utopia è sempre presente, ma per la più celebre delle sue Ville, la incomparabile Villa Kauffman o come si è imposta nell’immaginario collettivo di tutto il mondo la “Falling Water” o “Casa sulla cascata” commissionatagli nel 1935 da un commerciante di Pittsburg  Edgard.J.Kauffmannn, i lavori iniziarono nel ‘36 e vennero ultimati  nel ‘39. 
Conformemente alle concezioni delle “Housonian houses”  Wright aveva  integrato la costruzione all’ambiente circostante in particolare una piccola cascata su di un ruscello chiamato Bear Run che correva  tra i monti boscosi dell’ovest della Pennsylvania  realizzando una serie di terrazze a sbalzo e sovrapposte, che si richiamavano alla stratificazione delle rocce del sito e che aggettavano audacemente
sopra la cascata creando un eccezionale effetto scenico. La pietra nativa veniva fusa con le strutture in c.a.  che si amalgamavano  come in un unico impasto, così che la costruzione non poteva  essere immaginata in nessun altro luogo se non in quello. Internamente, nel grande soggiorno  a lato del camino  poggiante su un macigno e fulcro della composizione, si dipartiva tutto lo straordinario ambiente, mentre tutti i tre piani della casa  arretravano sul corpo roccioso  creando una sovrapposizione di volumi si da dar luogo ad una studiata ’asimmetricità di tutto il complesso, creando un “organico disordine” che esaltava  la natura del luogo. E’ ben noto il fatto che lo stesso Wright per convincere l’impresario dei lavori a smontare i casseri, dato che era opinione generale che i forti aggetti delle terrazze non tenessero, si posizionò proprio sotto la più grande  delle terrazze. Sul momento ebbe ragione il Maestro, le terrazze tennero perfettamente, ma di li a poco cominciarono a manifestarsi i primi problemi, la struttura si fessurò con inevitabili infiltrazioni d’acqua all’interno dell’edificio, tanto che Mr. Kaufmann chiamava Fallingwater “l’edificio dai sette secchi”. Gli ulteriori rinforzi nella struttura richiesti dagli ingegneri dell’impresario erano ben motivati, ed erano anche alimentati  dal fatto che la tecnica del c.a. non godeva all’epoca ancora di certe accortezze metodologiche. Mancava, infatti, alle terrazze una leggera contropendenza, com’è in uso nel costruire corrente di oggi, che servisse a compensare la loro deformazione e non si erano accertati ancora gli effetti del “fluage”: una modificazione nel tempo del calcestruzzo che, genera deformazioni di tipo viscoso che vanno incrementandosi nel corso degli anni. Wright sarebbe ancora stato in primissimo piano nel dopoguerra con l’eccezionale spirale del museo Guggenheym di New Jork, struttura e forma inusitate nel panorama a scacchiera di Manhattan, che in una qualche maniera  riassumeva sublimandolo il famoso detto del suo maestro Lous Sullivan “la forma segue la funzione”
Mondialmente riconosciuto come uno dei capolavori dell’architettura contemporanea, con quella su forma che seguiva  appunto  la struttura ridefinendo non solo lo spazio esterno ma anche quello interno, piegandolo alle esigenza della rappresentazione museale, forma e funzione si piegavano ad accogliere anche profondi riferimenti simbolici: la  sua forma a spirale somiglia molto ad uno Ziggurat rovesciato che nei soliti riferimenti di integrazione  di Wright poteva essere vista
come una Torre
di Babele all’incontrario, ovvero come quella era stata il simbolo della divisione dei popoli secondo la ben nota vicenda biblica, così il Guggenheim in virtù della sua funzione di cultura, li univa. Forse sempre a Sullivan resta ispirato quel progetto di grattacielo lungo un miglio, un estremo omaggio all’antico maestro che aveva fatto del concetto di grattacielo l’essenza stessa della sua ricerca poetica , così come sempre sulla carta è rimasta quella sua ideazione di palazzina sul Canal Grande a Venezia la cui possibile realizzazione doveva far sognare ad occhi aperti il più entusiasta dei suoi ammiratori
da noi qui in Italia, Bruno Zevi un personaggio  che l’autore del presente articolo ha conosciuto molto bene (e’ stato il suo professore alla facoltà di architettura e relatore alla sua tesi di laurea)  e di cui forse può valere la pena,  in un successivo articolo di raccontare la storia, proprio in virtù della
relazione e dell’incrollabile ammirazione verso il più grande degli architetti del nostro tempo, un architetto, che  non si sono avute  remore ad equiparare a  Michelangelo.

 

IL RISVEGLIO DELLA RAGIONE NEL FUTURO ANTERIORE

  Io un buon libro di di saggistica lo leggo mediamente dieci quindici volte, con punte di oltre cento e magari duecento, per saggi davvero ...