venerdì 30 ottobre 2020

PROLEGOMENI DI PESSIMISMO BIOLOGICO

 

La vita, fin dal suo apparire si è configurata sempre come traumatica: il trauma dalla nascita alla morte, è parte integrante di tutti i percorsi vitali, sia vegetali che animali, con una certa accentuazione dovuta al grado di presenza e di interferenza con i fenomeni del mondo naturale, che raggiunge il suo apice quando l’evoluzione porta alla comparsa di un essere dotato di razionalità e che sotto la pressione di tale fenomenologia, configura un linguaggio che consente di costruire reattivamente  un mondo metaforico di quello  concreto, costruito per  analogie, fino a pervenire ad una analogo-io, cioè un qualcosa che mette in situazione l’individuo con il contesto e gli permette di narratizzare sé stesso in relazione alle pressioni dell’ambiente. Del tutto ovvio che questo “analogo-io” che contestualizza la presenza umana nel mondo, abbia delle precise peculiarità  e cioè appaia subito come un qualcosa in stretta correlazione con gli avvenimenti del mondo, ne indichi  una  sorte di reazione, che correla appunto le sue azioni, il suo comportamento, il suo atteggiamento e il suo pensiero a dare una risposta più o meno efficace alle continue sfide e pressioni ambientali ; sia  in altre parole,  sintomatico , ovvero che costituisce un sintomo (dal greco antico  σύμπτωμα: evenienza, circostanza; a sua volta derivato da συμπιπτω: cadere con, cadere assieme) . Quindi è quanto mai sequenziale che la psicoanalisi sostenga che l’io funziona come un sintomo, anzi sia “il sintomo per eccellenza” . Ora l’Io è tradizionalmente identificato con la coscienza, che è proprio quel meccanismo, derivato dal linguaggio (vedi l’eccezionale libro di Julian Jaynes “il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”) che ha “messo in situazione” l’individuo, costringendolo a prendere atto del suo rapporto con il mondo sia naturale che successivamente sociale, sostituendo quel suo “analogo-io” a tutti gli analoghi prima individuati, ovvero suggestioni animistiche, allucinazione di supposti esseri superiori, che potevano indicare schemi di comportamento reattivo attraverso il meno controllabile dei sensi umani : l’udito e quindi voci, le “voci degli dei “ che sostanzialmente erano basate sull’abitudine, su comportamenti ripetuti, diremmo oggi “su di una prassi consolidata” Costruire un argine per un torrente, rispondere ad una situazione di pericolo, uniformarsi a direttive del gruppo, poi tribù, villaggi ed infine anche città, era  un qualcosa che poteva benissimo rientrare nelle possibilità di un linguaggio sempre più articolato, anche se non ancora in possesso di un io, cioè di un analogo che attraverso il sintomo potesse rapportarsi col trauma, proprio mettendo l’individuo “in situazione” senza bisogno di intermediari, senza bisogno di sentire la voce di qualche dio  che gli dicesse cosa fare. Un mondo senza analogo io, ovvero senza coscienza, non è “il mondo spaesato del tacere” di Heidegger, anzi semmai è il netto opposto , è un mondo dove su pressioni sempre più variegate e complesse dell’ambiente e del sociale, c’è il rischio che le voci si sovrappongano, si accavallino ed allora ci si ritrova in un mondo ove  tutti parlano, ma nessuno ascolta , detto in altre parole ciò significa che quel mondo si è fatto troppo complesso, i rapporti tra gli individui troppo articolati, perché una voce possa più indicare il da farsi , perché un totem dagli occhi dilatati per aumentare la suggestione ipnotica  possa fornire soluzioni, perché un dio possa assumersi ogni iniziativa decisionale  attraverso allucinazioni auditive come ad esempio nell’Iliade: ecco allora che su questa incalzante pressione  dell’ambiente , una nuova metafora, derivata dal linguaggio, e strutturata per analogia, appunto  un analogo-io, prende il posto di tutte queste  molteplici analogie . Diceva Nietzsche “tutti gli antichi dei morirono...  a cominciare da Pan come annunciavano i naviganti “il grande dio Pan è morto!” ...morirono dal ridere, quando udirono che c’era un dio che sosteneva di essere  il solo” Non è un caso che Jaynes nel suo citato libro oltre a indicare determinati fatti traumatici, ovviamente di portata epocale (l’invasione dei Dori, in Grecia, l’inabissamento della leggendaria Atlantide , identificata con l’isola di Santorini) ritenga i Fenici (popolo di naviganti)  gli “inventori della coscienza” : difatti sulle navi, in mare,  si presenta una troppa pronunciata ridda di eventi imprevisti e inaspettati (tempeste improvvise, un uragano, onde di trenta metri, la collisione con un capodoglio, acque infestate di squali, etc.)  perché un dio possa avere una voce, costituita sull’abitudine, che possa indicare il da farsi . Ecco allora che il linguaggio umano elabora una nuova metafora, ma questa volta l’analogia non è su cose, fatti e animismi vari, la proiezione non è di carattere ex-sistenziale, reperita cioè all’esterno da sé, ma all’interno di sé (in-sistere) , ovvero se stesso in relazione all’evento: l’analogo-io, cioè la coscienza che nasce strutturalmente come sintomo , e quindi hanno pienamente ragione i vari psicoanalisti (Freud, Jung, Klein, Lacan, Bion, Mattè Blanco e pragmaticamente Bateson, Watzlavitch, Milton Erickson)  a ribadire “l’Io è strutturato come un sintomo!” e ha altresì  una qualche ragione, sia George Groddeck, l’inventore della psicosomatica  che sul sintomo individuava  la sua prassi conoscitiva e anche operativa, sia il controverso medico, anche lui tedesco Ryke Geerd Hamer che ha  ideato  le sue cosidette “leggi biologiche” proprio sul rapporto tra trauma e sintomo  andando a ridefinire la stessa accezione di malattia. Ho chiamato questo articolo “prolegomeni” in relazione  al suo carattere di prefazione, di antecedente, in merito ad una riflessione in soggettiva innescato da un banale trauma  con sequel appunto sintomatologico, e su una mia convinzione del fenomeno “vita”; parlo sempre in rigorosa soggettiva, improntato alla, un po’ provocatoria,  accezione di “pessimismo biologico” Attenzione non pessimismo cosmico alla Leopardi, o esistenziale alla Kirkeegard  o alla Sartre e neppure alla Biswanger, o magari il pessimismo intellettuale di Schopenauer coi vari pendoli e veli di Maya...no! Biologico, in quanto prende in esame proprio il contesto fin dall’origine presentatosi  con particolare enfasi, all’animale uomo, strutturalmente correlato al trauma, la cui risposta segue determinate  reazioni a loro volta correlate all’evoluzione del linguaggio articolato, ma ha sempre e comunque la caratteristica del “sintomo” sia quando nella costruzione ancora originaria l’Io tende a costituirsi attraverso metafore di analogia proiettiva, reperite esternamente gli dei, le voci, i tabù, i totem , sia quando la pressione ambientale, cui si aggiunge anche quella di maggiore complessità sociale (dal clan di pochi individui, alla tribù, alla città, alla Nazione), fattasi più articolata, costringe l’individuo a ripiegarsi su se’ stesso alla ricerca di un analogo sempre a disposizione che possa di volta in volta offrire una pluralità di comportamenti più adeguati alla bisogna (il famoso “Kairos”  ovvero tempo opportuno in quella lingua, il greco antico che costituisce il principio , l’archè, di ogni rappresentazione conoscitiva, direi il tratto distintivo della cultura occidentale. Prendendo il posto delle precedenti metafore/analogie, l’Io umano proietta su di sé  tutte quelle rappresentazioni, la cui valenza era tenuta fuori di sé “piove, c’è una tempesta? E’ un dio irritato da qualche nostra azione che ci punisce!, c’è un terremoto che distrugge le abitazioni? E’ la terra che si prende la sua vendetta! Si diffonde un pestilenza? Anche qui siamo in presenza di un qualcosa che ha fatto irritare un non meglio precisato dio” insomma c’è il trauma ricorrente, ma il “sintomo” è sempre tenuto fuori si sé (ex-siste) . Semmai ecco! si tratta di riparare al supposto mal fatto, placare la collera degli dei, o di non meglio precisate entità naturali : ed ecco che nascono i sacrifici rituali, gli auguri, le sibille, gli sciamani che ti dicono come fare, persone un po’ a cavallo tra divino e umano, degli intermediari, che hanno un correlato in un livello appena più alto,  con il proliferare di demoni, folletti , ninfe, con cui si dà corpo ad una sorta di moltiplicazione del dio  originario, la cui valenza, proprio a causa del complicarsi dei compiti e anche dei traumi indotti dalla natura e sempre più anche dalla Società, viene allentata. “Perché gli dei non ci parlano più!?” È la litania quasi obbligata di tutto il pensiero greco appena post Omerico , una sorta di rimpianto e disperazione che ha una sua magistrale esplicazione proprio in Freud l’inventore della psicoanalisi nel suo saggio “Totem e Tabù”.  E’ anche il proliferare di Miti che prendono a motivo, proprio questo passaggio di proiezione, dall’esterno all’interno: il Mito di Prometeo che ruba il fuoco agli dei, ma ne paga il fio (vedi soprattutto Il Prometeo incatenato di Eschilo) , Adamo ed Eva e il “Voi sarete come dei” del serpente tentatore, con  la cacciata dal paradiso terrestre, il Vaso di Pandora e il taglio operato da Zeus al genere umano, prima “amphiteroi” poi suddivisi in genere maschie e femminile, con l’emergere della figura del Simbolo, in prima battuta personificato in Eros, che dovrebbe rimettere le cose insieme (sum-ballein) , ma sempre in perenne contrasto col “dia-ballein” ciò che separa, disgiunge e ha invece una personificazione nel Dia-volo”. La nostalgia “sempre dal greco “nostòs = ritorno” e “algos =dolore” ritorno ad uno stato  precedente “Il Mito dell’età dell’oro su cui insiste Esiodo e ne fa cenno persino Virgilio  nella quarta egloga delle Bucoliche dando adito alle risibili congetture del Cristianesimo di identificazione del famoso “puer” che a quell’oro avrebbe  fatto tornare, con Gesù Cristo, quando e’ invece palese che quel “puer” era riferito alla persona di Ottaviano Augusto, o tutt’al più al figlio  che sarebbe dovuto nascere dal matrimonio della sorella Ottavia con Marc’Antonio,ed anche in tempi recenti  Il Mito dell’eterno ritorno di Mircea Eliade, il già citato Totem e Tabù di Freud e a consuntivo di nuovo un saggio già citato “il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” di Julian Jaynes, che come i Religiosi hanno la loro Bibbia, il sottoscritto ha appunto tale scritto come principale riferimento, senza farsi mancare i relativi Vangeli (solo come modo di dire)  che tra sinottici, apocrifi e quant’altro, informano metodologicamente il proprio intendimento, sostituendo tutte le assurdità, illazioni, falsi e imprecisioni storiche  contenuti in quelli, con la verifica di contenuti : saggi, romanzi, financo poesie, che di volta in volta sono assunti o ri-assunti nel tentativo di comprensione

 

giovedì 29 ottobre 2020

SENZA GRANDI E UCCISO DOLFUSS (PRODROMI DELL' ALLEANZA CON HITLER)

 

Tutti noi lo avremo sentito dire perlomeno un milione di volte: “Eh! Se Mussolini non si fosse alleato con Hitler? …se non fosse entrato in guerra con la Germania…” Quello che questa “vox populi” non tiene assolutamente conto e’ che non solo non si sia trattato di uno schiribizzo e neppure di una cosa fortuita, ma bensì di una cosa fortemente inscritta nella prassi del Regime, e non solo a livello di comune ideologia, ma di pragmaticissima politica estera che solo a partire da un dato particolare momento prese quella direzione, che portò inevitabilmente a tale alleanza e che si badi bene, prima di tale particolare momento che qui a seguito andremo a dettagliare, la politica, i fattori nazionali e internazionali, lo spirito del Paese e dello stesso Mussolini erano su tutt’altro versante, anzi decisamente opposto. Per capire bene di cosa stiamo parlando, dobbiamo considerare l’assunto che Mussolini fino dalla sua ascesa al Governo nell’ottobre 1922 e vieppiu’ dopo il superamento della Crisi Matteotti e il consolidamento del fascismo come regime autoritario e antidemocratico , osservò sempre una politica strettamente filo francese e inglese. In tale spirito furono effettuate le partecipazioni alle diverse conferenze internazionali e mai e poi mai né Mussolini né alcuno del suo Governo mise minimamente in forse l’autorità e l’influenza della Società delle Nazioni, venuta fuori dalle trattative dei trattati di pace post bellici, di cui l’Italia fu una delle promotrici più solerti (attenzione proprio l’italia di Mussolini il quale sempre più andava assumendo quella operettistica qualifica di Duce, o anzi come si compiaceva lui, con il suo latino di maestro elementare, di “DUX”). Per inquadrare il fatto da un punto di vista storico dobbiamo partire dai primi anni trenta e da due personaggi, il primo straniero Dolfuss che aveva costituito un regime tipo fascista in Austria ed era un fanatico ammiratore del Duce italiano, il secondo invece che era uno dei più stretti collaboratori di Mussolini, fascista della prima ora, il bolognese Dino Grandi, rappresentante dell’area sindacalista del fascismo, di certo non uno dei più docili seguaci, proprio lui difatti anzi ancor prima della Marcia su Roma aveva costituito una pericolosa fronda nei riguardi del “capo”.                                                                                                                       Dolfuss era un personaggio mite, anche fisicamente dimesso, piccolino con due baffetti ridicoli tipo Hitler, nelle poche foto che lo ritraggano accanto al suo modello ispiratore italiano, balza subito in evidenza l’enorme senso di soggezione e complesso di inferiorità che ne contraddistingueva il comportamento.  Grandi al contrario era alto, volitivo, un pizzo simile a Italo Balbo, anche lui era stato un eroico combattente in guerra, ufficiale degli alpini, con la pipa, lo sguardo fierissimo, era tra l’altro un fascista sui generis, per nulla in soggezione al cospetto di Mussolini, considerava inoltre il fascismo una sorta di parentesi eccezionale della prassi parlamentare e pensava che quanto prima vi si fosse fatto ritorno tanto meglio sarebbe stato. Nel 1929 era asceso al ruolo di Ministro degli Esteri e da subito in tale incarico rifulsero le sue doti maggiori che erano l’intelligenza, l’equilibrio, la sagacia, la diplomazia; la sua opera tesa ad accreditare l’Italia nel consesso delle nazioni più avanzate e civili, fu il marchio di fabbrica della sua azione e gli assicuro’ vasti ed entusiasti consensi della comunità internazionale , in special modo quella inglese. Amico personale di Winston Churchill, in Inghilterra per i suoi modi raffinati e signorili, nonché sempre improntati alla massima intelligenza, lo chiamavano “Lord Dino” e comunque, mai l’Italia aveva avuto un Ministro degli Esteri di tal fatta. La fissazione di Grandi poi era il mantenimento della pace in Europa e una seria politica verso il disarmo di tutte le nazioni “una guerra oggi tra le Nazioni d’Europa” diceva a chiare lettere “altro non si risolverebbe se non in una immane catastrofica guerra civile, e rappresenterebbe un vero e proprio tramonto e suicidio del nostro glorioso continente” ed ancora “bisogna impegnarsi seriamente in una politica di pace, volta al disarmo e alla collaborazione internazionale “ Affermazioni che stridevano un po’ troppo con le coeve esortazioni mussoliniane “gli otto milioni di baionette” “se avanzo, seguitemi” o peggio a quelle di qualche anno più avanti “ad atti di guerra, risponderemo atti di guerra…” che segnarono l’abbandono dell’Italia della Società delle Nazioni e addirittura comportarono delle sanzioni economiche di Francia e Inghilterra in occasione della guerra d’Etiopia. Ma siamo andati un po’ troppo avanti nel tempo, Mussolini si era oramai da più di due anni liberato del suo ingombrante Ministro degli Esteri, di fatto invalorandone tutta la lungimirante azione, che a rigore aveva avuto dei contrasti sia interni nell’ambito del Regime ove anche da parte di vecchi amici come Balbo, lo si accusava di pacifismo, sia a livello soprattutto francese che a livello di disarmo non voleva sentire parlare. Così il Duce, che nominava Grandi Ambasciatore a Londra, assumeva su di se l’interim degli Esteri e ben presto anche soprattutto a causa di quel primo personaggio cui avevamo fatto cenno, Engelbert Dolfuss, finirà per imboccare quella strada obbligata dell’alleanza con Hitler. Ma chi era questo Dolfuss e perché una personalità così scialba doveva contribuire in maniera così precisa ad imprimere una strada tanto disastrosa al nostro paese? Dolfuss era il maggior rappresentante del Partito Cristiano Sociale ed era arrivato al potere nel 1932, proprio quando Grandi era stato silurato da Ministro e Mussolini era in cerca di primi riscontri alla sua nuova veste di grande diplomatico. Essendo Dolfuss contrario all’Anchluss tedesco, ovvero all’annessione dell’Austra alla Germania, come Hitler da pochissimo asceso alla cancelleria andava perseguendo tra le sue priorità, il Duce vi aveva visto immediatamente una formidabile occasione per ribadire una sua superiorità in merito all’assetto europeo: contrario anche lui ovviamente ad un eccessivo rafforzamento della Germania, e quindi contrario all’Anchluss, aveva spinto Dolfuss a creare un regime simile al fascismo, ergendosi a paladino della sua integrità nazionale e siglando nel marzo del ‘34 i cosidetti protocolli di Roma , ovvero un accordo Italia-Austria-Ungheria, che avrebbe difeso , anche militarmente, qualsiasi ingerenza tedesca o tentativo di annessione. Appena pochi mesi dopo però nel luglio un tentativo di pronunciamento da parte del partito favorevole all’Anchluss con una decisa partecipazione di elementi nazisti travestiti con uniformi austriache, riuscì ad uccidere Dolfuss, ma non a prendere il potere anche proprio per il tempestivo intervento di Mussolini che ordino’ la mobilitazione al Brennero di quattro divisioni italiane. Hitler che sulle prime aveva esultato sull’andamento del “putsh”, sorpreso dalla reazione italiana e di Mussolini, che anche lui considerava il suo maestro, delcinava ogni responsabilità, dichiarando ufficialmente il proprio rammarico per l’uccisione del Primo ministro austriaco, e provvedendo immediatamente a sostituire l’ambasciatore a Vienna con Franz von Papen ed impedendo ai congiurati, che dopo la sconfitta avevano ripiegato verso il confine, di entrare in Germania, disponendo anche la radiazione dal partito nazista austriaco dei capi del medesimo che si erano compromessi con il tentativo di colpo di stato. Apparentemente quindi un successo senza precedenti per Mussolini e il suo ruolo di arbitro della politica europea, tanto più che sia Francia e inghilterra erano rimasti come paralizzati e non parliamo della Società delle Nazioni, il cui ruolo di grande mediatrice ne era uscito platealmente compromesso. Ecco il punto : forse troppo! Mettiamoci nei panni di un uomo vanaglorioso, presuntuoso e tutto sommato non raffinato come Mussolini: nella sua mente tutta impulso, sempre diretta, assolutamente aliena da giochi diplomatici, da opportunità, da compromessi, il cedimento plateale di Francia e Inghilterra nonché della Società delle Nazioni , andava innanzi tutto preso come elemento di debolezza. L’unico che era stato in grado di contrapporsi ad Hitler era stato lui e lui dall’alto di quel suo nuovo ruolo di grande arbitro, di quasi demiurgo della situazione europea, poteva anche prendere in considerazione la possibilità di valutare questo nuovo esponente dell’assetto europeo, ma certo a modo suo, come era avvenuto a venezia giusto il mese precedente al tentativo di anchluss, dove Hitler era rimasto talmente in sottordine alla prorompente figura del Duce, da non sembrare poi così differente dal povero Dolfuss.   .  Ecco quindi la genesi dell’alleanza con Hitler, un rapporto sbilanciato che col tempo andrà assumendo peculiarità decisamente opposte . Abbandonando sempre più le relazioni con Francia e Inghilterra, Mussolini andrà perseguendo strategie di rapporti internazionali, sempre più assurde, velleitarie e anche fallimentari. Assumendo, anzi riesumando un banale incidente di frontiera con l’etiopia a Ual Ual nel ‘34, per scatenare una compagna coloniale in un’epoca in cui tutte le altre nazioni europee stavano addivenendo alla risoluzione di dismettere i loro cosidetti “imperi” si andrà ad impantanare nelle più che giuste sanzioni economiche che Francia e Inghilterra impartirono al nostro Paese; ed ecco che quel primo originario rapporto di sudditanza con il da lui schernito “caporale austriaco coi baffetti da charlot” , cominciava ad assumere altre connotazioni, l’Italia aveva bisogno della Germania, sia per gli approvvigionamenti alle truppe impegnate nella guerra contro l’Etiopia, sia per avallare la tanto strombazzata “autarchia” che le consentisse con altri accordi economici di non far risentire troppo marcatamente alla popolazione gli effetti delle Sanzioni , e poi…la storia la conosciamo: la visita di Hitler a Roma, quella di lui a Berlino, le adunate, le spettacolari parate naziste, i ridicoli scimmiottamenti del passo dell’oca tedesco con un improbabile “passo romano” la guerra in comune in Spagna, l’appoggio oramai incondizionato ad un serio anchuluss nel 38, le Leggi razziali , la farsa di Monaco sempre nel ‘38, e orami il Patto d’acciaio, l’Asse Roma-Berlino-Tokio , l’avallo a qualsivoglia sopruso tedesco, la conquista nazista di Praga nel marzo del ‘39 e poi i Sudeti, la polonia, la guerra nel settembre 1939.

 

mercoledì 28 ottobre 2020

ENTRARE NELLA PARTE (RIVOLI)

 

Arcole però non era stata una vittoria definitiva e anzi aveva accentuato quel senso di incompiuto,di provvisorio, che sembrava come pascersi del fondo limaccioso della valle del Po; a parte l’episodio della goffaggine del Generale in capo che era stato salvato per un capello dal suo tentativo di spronare con tanto di tricolore alla mano, i soldati per rompere gli indugi di una resistenza nemica sempre solida, la verità è che anche questa battaglia non aveva lasciato né vincitori, né vinti, ma solo una situazione incancrenita dall’agonia della fortezza di Mantova, ma anche da una serie di rivolte, pronunciamenti di questo o quello statarello, costringendo Napoleone a recarsi di presidio a Bergamo, a Brescia, a Tortona ed abbiamo visto come riponesse la speranza di trascinare tali riottosi popoli nella costituzione di repubbliche che avessero una continuità di ideali e di intenti con la grande madre della Rivoluzione: una questione di opportunità per togliersi dall’impasse di una situazione sempre più aleatoria , tant’è che il Direttorio era addivenuto alla risoluzione di inviare un altro di quei numerosi Generali che avevano fatto parte del comitato per il Piano del ’95, il più attempato coi suoi 31 anni, il Generale Clarke, per concordare una pace con l’Austria.Ovviamente Bonaparte non vide di buon occhio tale operazione, che però non ebbe il coraggio di contrastare apertamente. Noi siamo abituati a ritenere che la prima Campagna d’Italia di Napoleone sia stata un susseguirsi di fulgide vittorie, una sorta di progressione verso la gloria, dove il fattore tempo resta ingoiato dall’azione, ma non vi può essere nulla di più errato: come abbiamo visto le battaglie erano state tutte mezze battaglie, scontri con retroguardie, che solo la maggiore velocità delle truppe francesi magistralmente guidate da espertissimi generali come Massena, Augereau e Serurier avevano consento di assegnare alla vittoria. La situazione in quel lunghissimo estenuante periodo di tregua da Arcole a Rivoli, si era quanto mai impantanata senza possibilità di soluzione. In verità furono solo due mesi ma incredibilmente estenuanti, dove ancora una volta nella mente di Napoleone riprese corpo la idea di realizzare l’idea originaria del piano ovvero valicare la Alpi e prendere alle spalle l’Austria, questo anche perché la Cispadana non rappresentava quell’aiuto che avrebbe potuto aspettarsi e le rivolte, piccole rivolte degli stati italiani sempre più diffuse e insidiose; si era diffatti ribellata parte della Gargagnana, la cittadina Di Carrara, ancora una volta Tortona e tutto sembrava tramare tranelli, minacce, insicurezza…. dal Regno di Napoli allo Stato Pontificio, alla Repubblica di Venezia. Inficiando i tentativi di armistizio del Gen.Carke e anche le velleità di attacco di Napoleone attraverso l’esecuzione del grande Piano del ’95, l’Austria all’improvviso rompeva gli indugi e tornava ad attaccare nella prima decade di gennaio del 1797. Lo ripeto, lo studio e la riesamina dei fatti porta a ribaltare completamente l’assunto che era sempre stato Napoleone ad attaccare difatti e’ sempre vero il contrario: fin dalle prime scaramucce dell’aprile e la battaglia un po’ più seria di Cairo Montenotte, l’iniziativa dell’attacco era sempre stata solo dell’Austria e anche questa volta non si doveva assistere ad una eccezione. Il piano sempre affidato al Gen Alvinczi prevedeva un attacco per le gole del Brenta passando poi per le valle dell’Adige, mentre un suo Generale in sottordine Provera aveva il compito di marciare su Mantova passando per Padova e Legnano: Il tranello di Alvinczi era quello che vedendo Mantova minacciata, i Francesi alleggerissero la posizione di Rivoli per bloccare Provera e consentissero a lui di batterli appunto a ridosso del Lago di Garda, ma Bonaparte che proveniva da Bologna si calò subito nell’emergenza e sfruttando la maggiore agilità e mobilità delle sue truppe, concentrò a se tutte le sue forze e tutti i suoi eccezionali Generali tra cui come al solito rifulse Massena, che fu uno degli artefici della Grande Vittoria; in effetti Rivoli fu la prima grande e indiscussa vittoria di tutta la campagna d’Italia, quella che probabilmente consentì a Napoleone non più di recitare una parte, ma di entrarvi in tale parte. La storia sembra finalmente aver trovato il suo eroe indiscusso, poca importanza ha il fatto che probabilmente Massena ha più meriti di lui (succederà lo stesso tre anni dopo a Marengo con Desaix) ma e’ lui il comandante in capo e la leggenda che vuole nel piccolo Generale il nuovo Alessandro sembra confermata a gran voce. Mai l’esercito francese aveva riportato una vittoria così categorica. Pochi giorni dopo difatti la Fortezza di Mantova viene espugnata e Bonaparte è padrone di tutta l’alta Italia. Riaffiora con prepotenza l’idea originaria del piano dei Generali del 1795, che lui Bonaparte a questo punto aveva portatosi sentiva più che mai in animo di realizzare fino alle estreme conseguenze in effetti a questo punto, non si tratta più di recitare una parte, come in un esperimento di ristrutturazione in psicologia alla Milton Erickson, alla Bandler e Grinder della Programmazione Neurolinguistica, dopo aver interpretato la parte che altri hanno fissato per lui, si tratta a questo punto di entrare nel modello, non più come in un film di cui si vedono le varie sequenze, ma sentendo quello che il protagonista sente, le sensazioni, il profumo dell’aria, il terreno su cui si poggiano gli stivaloni. Napoleone Bonaparte  con l’entrata nel 1797 e il suo ventottesimo anno  di età è entrato quindi nella parte che fino ad allora altri avevano costruito per lui, eppure malgrado  avesse cominciato a sentire in prima persona, direttamente, cosa significa il successo, la gloria nell’entrare nel consesso dei grandi Generali di tutti  i tempi, resta sempre ligio alle direttive del Direttorio che subito dopo la battaglia d Rivoli e la conquista di Mantova gli ordina di fare incetta di tesori e fondi nelle Chiese, nei Monti di Pietà dello Stato Pontificio ed anzi risolvere una volta per tutte la questione con papa Pio VI:  poche scarmucce a Bologna ad Imola, l’occupazione di Ancona,  portano il papa  a chiedere la pace e a firmare il trattato di Tolentino il 19 febbraio, nel quale il Papato cede Avignone, il contado di Venasque, Bologna, Ferrara e tutta la Romagna. Ottenuto  quindi quest’altro grande successo che ancora di più fa entrare nella parte del Conquistatore  il giovane Generale, il Direttorio non solo ratifica appieno il Trattato,  ma finalmente si decise  a dare avvio al Grande Piano del ’95, quello di cui l’allora sconosciuto Generale aveva dato la sua modesta collaborazione e che ora in prima persona, anzi da  protagonista assoluto veniva incaricato di mettere in atto. L’istruzione è del 3 febbraio 1797   e oramai si ordinava  finalmente al Generale e alla sua Armata di invadere il Friuli e conquistare Trieste in parallelo all’invasione del Tirolo, e quindi  procedere appieno con l’esecuzione famoso Piano, ovvero  invadere gli Stati d’Austria  e effettuare il congiungimento  con le truppe francesi in Germania: l’ Armata del Reno, comandata da Moreau e quella della Sambra e Mosa, da Hoche, per effettuare quindi  congiuntamente una pressione a distanza su Vienna e costringerla alla pace. Palesemente come per incanto in tutta Italia settentrionale e centrale, il partito che puntava sulla presenza dei Francesi per rovesciare l’Ancien Regime e proclamare libere Repubbliche  somiglianza di quella francese, cresce a dismisura “La Rivoluzione ha conquistato tutti i cervelli d’Italia” scriverà Bonaparte al Direttorio, ma intanto non è che la faccenda lo rassicurasse granchè, anzi…a questo punto era molto più concentrato sulla prospettiva di lasciarla quell’Italia nella quale si sentiva sempre più impantanato e dedicarsi anima e corpo alla realizzazione integrale del Piano per il quale si era tanto adoperato.  Per difendersi dal piano di invasione l’Austria  aveva spostato in Italia il suo più valente stratega l’arciduca Carlo reduce di importanti vittorie su Moreau, che subito si era posto  sulla riva sinistra del Tagliamento  per impedire ai fancesi di dirigersi verso Tarvisio. La battaglia venne ingaggiata il 16 marzo, ma l’arciduca non vi si profuse più di tanto, per effettuare anche lui come d’altronde tutti i generali che l’avevano preceduto, una ineccepibile ritirata strategica, laddove divise il suo esercito una parte a difesa ravvicinata di Tarvisio , mentre quella da lui diretta si ritirò verso Gradisca e  Gorizia, inseguito da Bonaparte in persona, mentre Massena avanzava da Osoppo verso le gole di Pontebba. Il 21 marzo c’è l’occupazione di Gorizia praticamente senza battaglie, il giorno seguente Massena occupa Pontebba;  la situazione sembra esaltante, ma non è così anzi, Bonaparte non è affatto tranquillo e teme più di ogni cosa l’isolamento, trovarsi nel bel mezzo di territori sconosciuti alla mercè di una controffensiva austriaca, condotta da un generale che conosce per la sua valenzia, una volta che abbia esaurito la sua strategia difensiva. Ad accentuare tale paura c’era stata la notizia che  Brescia e Bergamo erano insorte, due città irrilevanti ai fini della guerra, tant’è che lo stesso giorno l’esercito francese era entrato a Trieste, ciò nonostante ci sono missive del 24 e 25 marzo  al Direttorio che manifestano questo suo disappunto in cui si evince la sua speranza più grande:  che le due Armate  in Germania attraversino il Reno e comincino ad operare la congiunzione con la sua Armata    

domenica 25 ottobre 2020

GOETHE E GLI ECONOMISTI

 

Gli economisti ??? a parte Keynes, e pochi altri tutti comunque raccordabili alla sua teoria, fulgido esempio il nostro Federico Caffè, ritengo che spesso uno scrittore e una grande opera surclassino una teoria di azzimati economisti, che poi alla fin fine si riducono a fantozziani ragionieri (sempre noi in Italia ne abbiamo avuti e ne abbiamo fin troppi epigoni all'insegna di un neo-liberismo di maniera e una prassi politico/economica a dir poco sciagurata) Ecco qui vado a riprendere nientemeno che Gethe e il suo Faust per avere una lezione di economia, ma anche espressioni artistiche molto meno qualificate tipo una stornellata romana come quella di le stornellate romane a volte riassumono al meglio tanta stracca teoria e tanta razzaffonata prassi lo possono sottolineare, come dimostra il caso di Rodolfo D’Angelo col suo ”ma cos'è questa crisi,cos'è?" : aumentar l'esportazione, diminuir l'importazione ...." e questo nel pieno della Grande Crisi a seguito del crollo di Wall Street, ripreso  da Il Quartetto Cetra


Ma torniamo al nostro Faust di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832). La sua opera in due tempi è considerata uno dei migliori lavori della letteratura tedesca. Questo testo complicato e a volte inquietante narra la storia di un giovane studioso, Faust, che fa un patto con il diavolo, Mefistofele in cambio del supporto di quest’ultimo alla realizzazione delle sue ambizioni, ….l’inizio della seconda parte, l’opera fa una sorprendente panoramica economica: Faust, accompagnato da Mefistofele, frequenta la corte di un sovrano il cui impero sta affrontando la rovina economica a causa delle spese dissolute del governo. Invece di spingere l’imperatore ad essere più responsabile, da un punto di vista economico, Mefistofele, travestito da buffone di corte - suggerisce un approccio diverso, che ha degli inquietanti punti in comune con il nostro tempo: notando il fatto che la moneta dell’impero è l’oro, Mefistofele afferma che c’è sicuramente una grande quantità d’oro sotto terra nei possedimenti dell’imperatore. Così sostiene che l’imperatore può emettere delle cambiali per il valore dell’oro che ancora non è stato trovato, generando, in questo modo, nuove risorse monetarie per il governo e risolvendo il problema del debito. Non c’è da sorprendersi del fatto che l’imperatore e i suoi tesorieri sono entusiasti della sua idea. Così l’imperatore può evitare scelte economiche drastiche provvedendo, allo stesso tempo, a soddisfare il disperato bisogno di moneta dell’impero. Quindi Mefistofele sommerge la corte di denaro di carta, e Faust viene elogiato sia dall’imperatore, che da tutta la popolazione. I risultati, però, come si vedrà, sono catastrofici: prima di tutto l’emissione di cambiali non risolve i problemi delle spese dell’imperatore, anzi le spese dell’imperatore e dei suoi cortigiani diventano addirittura più stravaganti: sapendo che possono sempre emettere più cambiali per coprire le loro spese che aumentano sempre più, ovviamente tutti fanno larga incetta a tale meccanismo, per di più Mefistofele ha cambiato in modo impercettibile, ma nell’essenza le basi della moneta dell’impero: invece di essere radicate nella solidità offerta da elementi tangibili e di valore, ora, sono radicate su promesse di carta inconsistenti. Così la stabilità monetaria a lungo termine e le forti restrizioni sulle spese esagerate del governo sono sacrificate per i guadagni a breve termine. Goethe finì di scrivere la seconda parte di Faust nel 1832. L’economia moderna, allora, era appena emersa dalla sua infanzia, tuttavia, l’intuito di Goethe si colloca proprio al centro di alcuni dei nostri problemi economici più difficili in genere irrisolvibili al lungo termine. Uno riguarda l’impatto della moneta a corso forzoso. Tecnicamente parlando, la moneta a corso forzoso è una valuta a cui un governo dà corso legale, anche se non ha valore intrinseco. Attraverso la storia, la moneta a corso forzoso è stata l’eccezione piuttosto che la regola. Molte monete si basavano su beni fisici, in modo particolare sull’oro. Invece la moneta a corso forzoso, alla fine, è basata sul fatto che abbastanza persone hanno fiducia nel fatto che una data valuta sarà accettata per le transazioni economiche. Tale fede, tuttavia, vacilla facilmente. Le recenti tribolazioni dell’euro sono un buon esempio di ciò che succede quando la gente comincia a perdere la propria fiducia nella moneta a corso forzoso. L’espressione “valere tanto oro quanto pesa” sottolinea quella che è la fiducia che la gente ha sempre attribuito alla moneta del baratto. Il secondo problema riguarda la tentazione affrontata dai governi quando combattono per risolvere i loro problemi di deficit, di immettere sempre nuova moneta o correlato di moneta. Nel 2009, il governo federale americano ha registrato un deficit di $1,4 trilioni di dollari. Valore che corrisponde al 10% del PIL degli Stati Uniti, un livello mai raggiunto dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Dovendo scegliere tra un taglio alle spese, un prestito o mettere in circolo una maggiore quantità di denaro, la terza opzione ha sempre attratto molti politici. Ma forse, la più grande lezione del Faust di Goethe è che l’inganno è intrinseco a tutte le azioni di speculazione finanziaria messa in atto dai Governi e d politici più che spregiudicati. In qualsiasi momento in cui un Paese sceglie di alimentare le illusioni economiche a danno della difficile verità economica, allora, come Mefistofele, impiegherà mezzi discutibili di ingegneria governativa e finanziaria, come inflazionare la valuta, creare derivati e tutto quello che abbiamo visto negli ultimi vent'anni indebitando il settore pubblico, e creando una fittizia del tutto virtuale e non reale economia. La tragedia più grande però e questa neppure Goethe poteva supporla, è se, quello stesso Paese o forse su pressioni di altri Paesi o lobbies di vari interessi e poteri, sceglie la strada di passare dall'economia alla società stessa, applicando grosso modo le stesse soluzioni (scherzando e tirando un pò il collo al concetto io ho detto : invece che "derivati" passiamo al femminile : "derivate" e andiamo quindi ad incontrare quelle funzioni matematiche che se utilizzate tramite proiezioni, ad esempio radici quadrate di numeri reali ma negativi(quindi numeri immaginari) mi daranno sul sociale e non più solo sul finanziario risultati di assoluta virtualità, in un calcolo infinitesimale che potrà essere verificato punto per punto con parametri di artificiosità cui una pseudo scienza come la statistica me ne darà strumento e la diffusione della "paura" a bella posta gonfiata da Media compiacenti e lacchè istituzionali, provvederà a espandersi capillarmente

DERIVATI DERIVATE  

mercoledì 21 ottobre 2020

LA SQUADRA PRIMAVERA DELLA LANCIA-FERRARI

 

Le vetture non erano di linea ardita e avveniristica  come le Mercedes, le “frecce d’argento” che avevano dominato gli ultimi due campionati del mondo, in verità non erano neppure delle Ferrari, erano della Lancia, la casa torinese,  che aveva imperniato la sua partecipazione alle corse sulla persona di Alberto Ascari, il due volte campione del mondo. Grande pilota Ascari, ma sulla Lancia era riuscito a vincere solo la Mille Miglia nel ’54 e assolutamente niente in F.1, né nella stagione ’54 né nelle prime gare di quella  ’55, dove tuttavia a Montecarlo prima che lui e  la sua vettura finissero a mare alla chicane, si era rivelata molto competitiva e in grado di mordere la coda alle argentee vetture di Fangio e Stirling Moss. In quello spettacolare volo a mare  la vettura era andata distrutta, ma il pilota aveva riportato solo la frattura del setto nasale, per cui  tutti lo sapevano ancora in ospedale o perlomeno sotto cura, quando pochi giorni dopo arrivò la ferale notizia “Ascari muore in un giro di prova colla Ferrari di Castellotti sul circuito di Monza” Notizia ancora più ferale per la casa torinese, che, come detto, su Ascari aveva affidato tutte le sue velleità agonistiche  e che, proprio per quella scomparsa,  aveva deciso il ritiro dalle competizioni e di fare dono alla Ferrari di tutto il suo parco macchine: in particolare la Lancia d-50, di F.1 che come detto non aveva questa linea cosi’ ardita, quei due serbatoi laterali la rendevano panciuta, anche un po’ goffa, e non solo ma Enzo Ferrari decise di non usarla pei restanti grandi Premi del ‘55, ma farla esordire nella stagione 1956 e con una squadra davvero d’eccezione, imperniata sul campione del mondo delle due ultime stagioni, l’argentino Jean Manuel Fangio, anche lui poco appariscente, quarantacinquenne, piuttosto pingue, stempiato, quasi un contrappasso col resto della squadra che gli ruotava attorno: giovani, anche giovanissimi piloti, belli, aitanti, fumavano una sigaretta dietro l’altra, portavano il casco  con il sottogola slacciato, su magliette La coste e ed erano sempre accompagnati da splendide donne, come il più vecchio della combriccola il romano Luigi Musso  classe 1924, sposatosi molto giovane e con una figlia di 10 anni,  ricco, bello e affascinante che separatosi dalla moglie, dopo varie avventure faceva coppia fissa con una fascinosissima donna che si chiamava Fiamma; Ferrari come stile di guida l’aveva paragonato a Achille Varzi, proveniva dalla Maserati dove aveva vinto un infinità di gare su vetture sport, ma nessuna in Formula 1, e siccome sapeva di essere  stilisticamente parlando il migliore, il fatto di non aver vinto neppure un grand Prix gli bruciava non pocoLo stesso il più giovane Eugenio Castellotti cl.1930, lodigiano figlio prima illegittimo ma poi riconosciuto di uno dei più ricchi industriali della zona: neppure lui aveva vinto un gran Premio di F.1, ma fino ad allora era stato di riserva di Ascari alla Lancia e quindi di occasioni di mostrare il suo valore ce ne erano state pochine: era forse meno aitante del romano, ma era fidanzato con Delia Scala,già allora famosissima soubrette che lavorava nelle compagnie di Macario, Totò  e Dapporto. C’erano poi gli inglesi, il biondo e altissimo Mike Hawrton  che portava sempre un giaccone verde ed un casco dello stesso colore con spesso e volentieri dei pantaloni a quadrettini sbuffati un po’ alla zuava e un bel farfallino come cravatta, aveva 27 anni, ma quasi al suo esordio nel 1953 e cioè a 24 anni, si era permesso in lusso di battere in volata il grande Fangio al gran premio di Francia, e non solo, ma aveva anche bissato il successo nel gran Premio di Spagna del ‘54 sul circuito del Phena Rhin; c’è da dire che Hawrton, che aveva il sogno di correre su vetture di costruzione inglesi, non fu un membro fisso della squadra, al contrario  del bellissimo Peter Collins, il più giovane della combriccola, classe 1931,immacolato come vittorie in F.1, ma che col suo stile elegante e irruento nel contempo, aveva favorevolmente impressionato Ferrari che lo aveva incluso nella squadra per il 1956 come titolare, squadra che subito, a parte il decano Fangio, aveva preso subito la denominazione di “primavera” data appunto l’età dei suoi componenti e a cui si aggiungevano, non titolare in tutte le gare di F.1, ma sempre presente in quelle sport –prototipi:  il nobile spagnolo Alfonso De Portago,  emulo del play boy Porfirio Rubirosa L’esordio della Lancia-Ferrari era stato nel gennaio in argentina la patria di Fangio ovviamente idolatrato dai suoi connazionali e fu lui a tagliare  il traguardo da vincitore, sia pure in condominio con Luigi Musso, dato che pur costretto al ritiro, dai box Ferrari era stato ordinato al pilota italiano in quel momento in 5^ posizione, di cedergli la propria vettura e con questa l’argentino aveva vinto la gara, (all’epoca questa era una prassi consentita) guadagnando quattro punti (all’epoca spettavano al vincitore otto punti) che col punto del giro più veloce (anche questa era un’altra regola di quei tempi) si portava in testa al mondiale. A Montecarlo però niente da fare contro la Maserati di Stirling Moss, dove  Fangio andava  a punti con il secondo posto ma sempre in condominio, questa volta con la Ferrari di Peter Collins. L’inglese Peter Collins, subito dopo  la pausa della 500 miglia di Indianapolis che a quel tempo era annoverata nelle gare ufficiali del campionato del mondo, doveva essere  autore di una esaltante doppietta vincendo consecutivamente i gran premi del Belgio e di Francia, il primo sul velocissimo circuito di Spa-Francforchamps, seguito dalla Ferrari del belga Paul Frere, che eccezionalmente era stata verniciata in giallo, il secondo sull’altrettanto veloce circuito di Reims, dove nella piazza d’onore si classificava  Eugenio Castellotti. A quel punto il più giovane della squadra era saldamente al comando nella classifica provvisoria del mondiale, e anche gli altri “giovani leoni” della squadra sembravano avere i numeri per detronizzare il vecchio Re. Le corse e le piste riflettevano la vita dei protagonisti, paciosa e senza scosse quella del vecchio leone, cui la persona pingue e di mezza età non sembrava essere di raccordo con la ruggente atmosfera dei motori , del rischio, del pericolo e della morte dietro ogni curva, tutto il contrario di quella dei giovani, infarcita di belle donne, night club, sigarette, super alcolici.Ma il vecchio leone con la sua metodica guida rispondeva con un’altra doppietta, due gran premi vinti dopo l’altro, in Inghilterra  sul vecchio circuito di Silverstone, un ex aeroporto e il secondo in Germania sul mitico circuito del Neurburgring, che era il più lungo e più difficile , colle sue mille curve, circuito del mondo  dove più che la velocità contava il manico, rifacevano pendere la bilancia dalla parte del “vecio”. A quel punto per il titolo si sarebbe deciso all’ottavo ed ultimo gran premio della stagione quello d’Italia a Monza , dove a rompere le uova della squadra Ferrari era ancora una volta il terribile inglese Stirling Moss, anche lui molto giovane, 26 anni  e che con la Maserati  si avviava a vincere il Gran Premio: per ciò che concerne il mondiale il titolo sembrava però essere  appannaggio del giovane Peter Collins che dopo il ritiro di Fangio  e i sei punti interi del secondo posto, sia anche dietro gli 8 più uno del giro più veloce di Moss, gli consentivano di passare in testa alla classifica, ma a quel punto a pochi giri dal termine colpo di scena :Collins cedeva la sua vettura al campione argentino; tutti Fangio, Moss e Collins avevano due  vittorie ma lui aveva anche quella in condominio con Musso in Argentina  che gli consentiva con i tre punti del secondo posto diviso con Collins  di conquistare il suo quarto titolo mondiale. Pare che Collins cedendo la vettura al più anziano compagno di squadra abbia detto “io ho venticinque anni  e avrò tempo di conquistarne altri di campionati mondiali” eh! Lo vedi la vita!!!???  Fangio avrebbe avuto occasione di vincerne un altro di mondiale e campare fino a tarda età col suo record di 5 mondiali vinti, che solo Schumaker  e dopo la sua morte , riuscirà a superare; al contrario tutta la squadra “primavera” si sarebbe consumata di lì a due anni, in tragici incidenti : il primo Eugenio Castellotti solo pochi mesi dopo all’inizio della stagione 1957 , in prova e con  feroci strascici  polemici della madre,  che non aveva mandato giù che la stessa sera della notizia della morte del figlio, Delia Scala avesse recitato a teatro con Totò  e le aveva rivolto pesanti accuse  di aver contribuito all’incidente costringendo il pilota a fare vita notturna e dissipata;  un mese dopo era la volta  del  nobile Alfonso De Portago che alla partenza delle Mille Miglia ostentava la sua ultima conquista la ex moglie di Tyron Power , Linda Christian, ma che di li a poco sarebbe stato protagonista del terribile incidente a Guidizzolo di Mantova, dove oltre a lui morivano numerose persone del pubblico, che erano rimaste investite dalla sua vettura,  decretando la fine della storica corsa ; quindi nel luglio del 1958  un gasatissimo  Luigi Musso che al gran Premio di Francia e d’Europa,  sul velocissimo circuito di Reims , si era presentato in testa alla classifica provvisoria per il titolo e con la fresca e sempre prestigiosissima vittoria alla Targa Florio, ma dopo pochi giri di gara era finito fuori strada all’insidiosissima curva detta del “Calvaire” , una curva dove vigeva una  sorta di leggenda che si attribuiva a Fangio: questi infatti aveva rivelato a pochi intimi che la curva del Calvaire si poteva prendere a tavoletta, ma solo se le foglie di un albero ad essa prospiciente,  non si muovevano per il vento, in caso contrario bisognava necessariamente staccare, perché il vento avrebbe fatto uscire di strada la vettura . Chissà se Musso che era grande amico di Fangio, aveva sentito quella storiella? Peter Collins il bell’inglese, era tornato a vincere in quello stesso anno in Belgio a Spa, circuito velocissimo e a lui molto congenile, tant’è che lo vinceva per la seconda volta, ma al terribile Neurburgring la morte era in agguato per lui dietro una di quelle mille curve . L’ultimo della squadra  che ora era in pianta stabile alla Ferrari , Mike Hawrton , sarebbe stato il primo inglese a conquistare il campionato del mondo , una vittoria soffertissima e raggiunta solo grazie al sistema particolarmente infelice del punteggio  che gli aveva consentito lui autore di una sola vittoria, quella al G.P.di Francia dove era morto Musso, di sopravanzare, grazie a secondi posti e giri più veloci il connazionale Stirling Moss che correva con la Wanvall e la Cooper (prima macchina a motore posteriore)  che di gran premi ne aveva vinti 5.Proprio l’enormità di tale risultato aveva portato la Federazione a cambiare l’iniquo punteggio attribuendo 9 punti al primo classificato e abolendo il punto del giro più veloce, ma  tali regole non interessavano più il neo campione del mondo, che probabilmente impressionato dalla morte di tanti suoi amici, appena conquistato il titolo aveva annunciato il suo ritiro dalle competizioni ad appena 29 anni. La morte a volte fa scherzi curiosi, così niente più casco verde e cravattino a papillon per il biondo allampanato inglese  e soprattutto, niente più vetture di F.1 e piste con curve da brivido, ma per lei la nera signora era stata sufficiente una vettura di serie e una normale strada di città!  tanto era bastato perché il giovane campione, l’uomo che era stato protagonista ed era sopravvissuto al più grave incidente della storia dell’automobilismo, quello di Le Mans del 1955, fosse ritrovato privo di vita nel gennaio 1959, a seguito di una banale  sbandata su terreno bagnato di pioggia.Si concludeva così con questo epilogo fin troppo “normale” la breve stagione della mitica squadra “primavera” della Ferrari.




 

lunedì 19 ottobre 2020

UN RICORDO MOLTO ANTICO

 

Lo straordinario del racconto  è, si certo!... Il contenuto, ma anche la modalità di come si è pervenuti a tale contenuto. Un  racconto  ha sempre motivi di affezione e interesse soggettivi, magari ecco le storie si confondono, si incastrano l’una con l’altra, proprio come faceva a bella posta  Milton Erickson per ingenerare confusione e indurre  una diversa disponibilità alla ricezione di induzioni terapeutiche “mi raccontava mio nonno una storia che aveva sentito da suo padre che aveva fatto la guerra assieme ad uno che aveva uno zio che era stato coi Mille di Garibaldi….” il soggetto narrante e lo  stesso racconto  sfumano, diventano  occasioni, occasioni per confrontarci noi con tutta la nostra fantasia, con tutta la nostra capacità di ri-assumere dei fatti  e farne un qualcosa di unico, una storia ad uso e consumo del nostro personalissimo immaginario non collettivo, ma ecco semmai comunicabile ad altri, raccontando a nostra volta e farne quindi un qualcosa di partecipazione.   Uno dei “Mille” no! Salvo  ad adottare il meccanismo di Erickson  “mi raccontava mio nonno…..”è fuori bordata di racconto diretto anche per uno che oggi abbia 100 anni, ma la guerra d’Africa, la prima guerra d’Africa, quella con Menelik, Baratieri, la Regina Taitù, Ras Alula, i pittoreschi costumi etiopici e l’uniforme del  corpo di spedizione, bianca, ingiallita a bella posta con un infuso in foglie di tè, il casco rialzato e i baffi a manubrio degli ufficiali, quella poteva prendere corpo nell’atmosfera sanguigna del treno Peloritano, in corsa tra Palermo e Roma , con le poltrone dello scompartimento in velluto rosso, il manico d’argento  forma di levriero del bastone di un vecchio che non aveva ancora compiuto 90 anni e un ragazzetto di 15,  che aveva ben presto dismesso  il suo impegno verso il Bartezzaghi, ordinario rimedio alla noia del lungo percorso, per ascoltare il racconto del vecchio che era cominciato con queste parole “ noi della Brigata di Riserva seguivamo da retro la Brigata principale, che però ancora col buio della notte si era improvvisamente fermata  “che è successo? Perché siamo fermi? “ “pare che la Brigata Indigeni, quella di Albertone  si sia scontrata con quella di Arimondi  e poco dopo anche quella di Dabormida è confluita nell’ingorgo di uomini e mezzi””ecco perché Ellena ha ordinato di fermarci!” Lo capisci...” si era interrotto il vecchio “una avanzata che doveva essere improntata alla massima segretezza per  avere un minimo di possibilità di successo, si era quasi subito impantanata in quello scenario surreale dove i grandi valloni avevano il minaccioso profilo di ande e acrocori, che davano la distinta sensazione dell’agguato, come d’altronde era successo fin dalla prima azione  del nostro esercito coloniale, 9 anni prima ai famosi 500 del tenente colonnello De Cristoforis,  per opera del famigerato Ras Alula” Sfumata quindi la prima parte del piano, buttato giù dal Maggiore Tomaso Salsa, che comportava un effetto sorpresa confluendo le tre Brigate  unite, Arimondi, Dabormida e Albertone  in un unico punto prestabilito,  con la Brigata Ellena  di riserva e presidio alle chiostre montane, c’è da dire che, dopo aver perso buone un paio d’ora a riprendere i ranghi se nella prima fase dell’avanzata queste  si erano scontrate l’una con l’altra, nella seconda avevano effettuato un movimento radicalmente opposto, ovvero a  ventaglio allontanandosi una dall’altra. In effetti il piano era stato stilato senza troppa convinzione dall’ex capo di S.M. del Corpo di spedizione, Magg. Salsa che aveva avuto modo di recarsi, qualche giorno prima, in missione  presso il campo imperiale di Menelik e si era reso conto di trovarsi al cospetto si di una massa scoordinata e confusa di guerrieri,   ma di  numero,  molto, troppo elevato, nell’ordine dei centomila uomini ovvero quasi dieci volte di più delle truppe italiane e indigeni: Salsa era un ufficiale molto esperto, era in Colonia da 7 anni, si era distinto guadagnandosi in combattimento la croce di Savoia e anche la promozione al grado che  ancora lo contraddistingueva,  godeva della stima incondizionata di Baratieri che appunto lo aveva fatto suo Capo di Stato Maggiore, ma era odiatissimo dai comandanti di Brigata, in special modo da Arimondi, che col sopravvenire di nuovi complementi e ufficiali, era riuscito a farlo dismettere da quell’incarico con la scusa che  non era legittimo per un’entità di oltre 15.000 uomini  avere per capo di S.M. un semplice maggiore. Difatti era stato fatto nuovo Capo di S.M.  il Colonnello Valenzano, che era nuovo e inesperto della Colonia, però ecco, il piano di far convergere tutte e tre le brigate in unico punto indicato nell’altura del Chidame Meret  per sferrare un attacco concentrato contro l’Armata di Menelik  lo aveva redatto Salsa ed era una  sorta di ultima ratio per non dover continuare a subire l’accerchiamento che gli abissini stavano effettuando con anche una certa abilità, dato che  non solo Menelik, ma anche molti Ras come Makonnen, Mangascià  o il già citato Alula, erano dei comandanti espertissimi e raffinati che avrebbero ben figurato in un consesso  strategico tipo esercito tedesco:  difatti  avevano colto  la scusa di fare da scorta e protezione al Maggiore Galliano dopo la difesa del Forte di Makallè, nel lungo percorso  fino allo schieramento italiano,  per avvicinarsi senza colpo ferire alle posizioni  di difesa più  avanzate, andando a costituire quella incombente minaccia che aveva spinto Baratieri, specie dopo il famoso telegramma di Crispi che lo accusava di “tisi militare” a precedere all’azzardatissima esecuzione di un piano che si avrebbe anche potuto riuscire, ma abbisognava che ci fossero non solo ben altri comandanti, ma anche un diverso tipo di cartografia che con la sua macroscopica imprecisione fu anch’essa  principale causa della disfatta. Il racconto proseguiva anche sul ponte del traghetto tra Messina e Villa san Giovanni, dove erano andati a fare quattro passi e il vecchio signore faceva un mucchio di nomi, il mitico Galliano eroe di Makalle che persino il kaiser Guglielmo aveva voluto insignire di una decorazione al valore  e che sarebbe morto di lì a poco, proprio nel corso della battaglia di Adua , sembra per aver apostrofato di “kansir “ porco,  Menelik,  facendo saltare i nervi ad un guerriero  che gli aveva tagliato la testa di netto, i tre, anzi quattro comandanti di Brigata, dato che c’era anche Ellena il cte dell’Armata di Riserva di cui faceva parte lui inquadrato nel battaglione alpini comandato dal Ten.Col. Menini; si capiva che aveva una sorta di venerazione per il più volte citato Maggiore Salsa  e poi c’erano Enrico caviglia che era capitano di Stato maggiore ed un altro capitano che invece lui non aveva mai sentito nominare ed era una specie di cattiva, o meglio buona coscienza di tutto il corpo di spedizione, si chiamava Mario Bassi ed era il principale aiutante di Salsa, un ufficiale coltissimo e intelligentissimo, uscito primo di corso dai corsi di Scuola di Guerra, che era sempre stato fuori dal coro della retorica imperante, rilevando con assoluta l’imparzialità il valor del nemico e di converso la pochezza dei generali italiani colle loro rivalità e  gelosie che furono un’altra componente della ragioni della disfatta; contrariamente a quasi tutto l’entourage di ufficiali che erano convinti  di una innata superiorità  sugli indigeni, sempre in posa coi loro baffoni, la fascia azzurra sull’uniforme coloniale, la sciabola, il capitano Mario Bassi analizzava lucidamente i fatti e aveva lasciato un diario, che se fosse stato minimamente preso in considerazione, non ci sarebbe mai stato una disfatta di Adua:  il vecchio del “Peloritano” lo ricordava nitidamente e forse ne aveva una stima addirittura superiore a quella di Salsa, immettendo nel ragazzino una curiosità di documentarsi, che aveva avuto col suo ritorno a Roma  un episodio quasi causale:  percorrendo difatti la grande corte porticata del cimitero del Verano si era trovato davanti la lapide del capitano che il vecchio ricordava con tanta passione e anche questo aveva contribuito perche al racconto del vecchio signore cominciasse ad aggiungere una analisi dei fatti meno personalistica e meno  fantasiosa. Il racconto dei fatti era ripreso colle Brigate che dopo lo scontro tra di loro, che aveva imposto una lunga sosta e Arimondi che aveva dovuto far sfilare tutta la Brigata Indigeni di Albertone, si aprivano a ventaglio nella grande piana circondata da monti, del teatro  di operazioni.
In forza di tale fatto il  generale Albertone  era  arrivato in perfetto orario su quello che secondo la sua mappa era l’obiettivo del punto di incontro colle altre Brigate  ovvero il Chidane Meret, ma le espertissime guide indigene gli fecero subito presente   che quello è il colle Erarà,  non il Chidane Meret  che  era all’incirca 8 km. più avanti. Il generale sapeva  benissimo che errore della carta o no quello era il luogo dell’appuntamento, ma decise di andare ancora avanti per raggiungere il vero Chidane Meret. A seguito di questa decisione, si perse ogni probabilità, qualora ve ne fossero mai state, di vincere la battaglia, perché la distanza tra le Brigate si andava facendo sempre più pronunciata  e la possibilità di colpire unite, anche se certamente non più di sorpresa, l’Armata di Menelik sempre più remota. Va qui notata una ulteriore nota dolente, caratteristica dell’atmosfera aleggiante nel consesso degli ufficiali  di più alto grado, ma che era avvertita anche dall’ultimo soldato : la disistima verso il comandante in capo, ovvero Baratieri, considerato un parvenu della gerarchia militare e anche un inetto e un codardo : in Arimondi tale sentimento era assoluto, tant’è che aveva tacciato il suo superiore di onanismo militare, ma anche Albertone che era senza dubbio un ufficiale capace e competente, conosceva bene la prudenza del comandante in capo e  temendo che potesse bloccarlo, pensò bene di sfruttare l’errore di cartografia per raggiungere il vero Chidame Meret  che era a ridosso del campo di Menelik, quindi oltrepassò deliberatamente la posizione assegnatagli spinto da una volontà offensiva, sicuramente estranea al piano preparato da Salsa; a questo punto i racconti e anche i resoconti  storici ci dicono poco, in quel diradarsi della luce che faceva sempre meno minacciosi i profili  delle ande, degli acrocori, dei colli e monti,  ed anzi suggeriva una sorta di invito a andare avanti, a tentare, ad osare, la psicologia del neo generale (era stato promosso da pochi giorni)  dovette pensare di poter conseguire  da solo quel grande successo, che Salsa aveva prospettato ma solo a Brigate congiunte : cogliere di sorpresa il campo abissino  e annientarlo col suo potentissimo parco di artiglierie, reparti scelti e ufficiali di prim’ordine, ecco tipo il maggiore Turritto, comandante del battaglione d’avanguardia, un vecchio della Colonia, espertissimo e famoso per il suo coraggio,  e gli aveva ordinato di spingersi in avanguardia, precedendo di parecchio la Brigata . Ma Turritto era troppo esperto  per non considerare la stranezza di quella avanzata senza incontrare resistenza  e si fermò quando la sua guida lo avvisò che si erano lasciati alle spalle da un pezzo il monte Raio, che secondo la mappa sarebbe dovuto essere  alla destra del  Chidane Meret;  Albertone lo investì con durezza  chiedendogli ragione della sosta. “Vada avanti, non voglio esitazioni. Ha forse paura?”. Capirai dire una frase simile ad un ufficiale superiore di quel periodo, con la fama di indomito comandante, significava spingerlo all’attacco anche più sconsiderato, e così il battaglione di  Turitto  andò in avanguardia  con mezz’ora di anticipo sul resto della Brigata. Un’enormità!  Mezz’ora significa difatti un minimo di  3 chilometri, ovvero una distanza che avrebbe impedito qualsiasi soccorso nel caso di impatto col nemico. Un errore che nemmeno un sottotenente avrebbe compiuto, e che può giustificarsi solo con la particolare psicologia  che informava i due ufficiali : quella di Albertone che temeva un’ordine di Baratieri di ritirarsi e quindi potesse defraudarlo di un clamoroso risultato che oramai considerava a portata di mano, anzi di cannone, e quella di un subalterno che si era sentito tacciare di codardia :  Il battaglione di Turitto serviva proprio da esca :  cercare il contatto col nemico e  una volta iniziato il combattimento scongiurare l’ordine di ritirata di Baratieri; le due Brigate di Arimondi e di Dabormida, contava Albertone, sarebbero arrivate dopo, di rincalzo, diciamo a cose quasi fatte,  a suffragare quello che lui, solo lui, aveva condotto con ardimento e maestria. Albertone era stato a lungo ufficiale addetto allo Stato maggiore del gen. Baldissera un ufficiale di ben altra pasta di Baratieri, che aveva una particolarità di grande importanza, non proveniva né dai ranghi degli ufficiali savoiardi cui difettavano competenza e anche una tradizione di “vittorie sul campo”, né dagli impreparatissimi garibaldini, quale appunto era stato Baratieri:  proveniva dal severo e glorioso esercito asburgico di Sua Maestà Imperiale Francesco Giuseppe, e prima di passare con l’annessione del veneto in quello italiano, vi si era anche distinto guadagnandosi nella campagna contro i Prussiani del ‘66, la croce di Cavaliere dell’Ordine di Maria Teresa, una decorazione la cui motivazione di concessione  suonava alquanto  paradossale:  veniva difatti concessa a quegli ufficiali che contravvenendo alle disposizioni superiori, si assumevano la responsabilità di cambiare i piani di battaglia e prendevano l’iniziativa di attaccare il nemico (una motivazione quanto mai appropriata, diremmo oggi “sputata”,  alla contingenza  di quel momento nella luce oramai diffusa  del 1 marzo 1896 tra i colli Erarà, Chidame Meret e l’obiettivo del Campo di Menelik). La caratteristica  della decorazione però  era anche quella di applicarsi solo al successo, se difatti l’iniziativa falliva, per l’ufficiale in questione c’era la Corte Marziale. Solo intorno alle sette del mattino, con la situazione oramai  irreversibile e tale quindi da non poter essere annullata, Albertone finalmente si decise di inviare un dispaccio a Baratieri : “Ore 6:50. Colle di Chidane Meret è stato occupato all’insaputa del nemico alle ore 5:00. Il nemico è tutto attorno ad Adua e dentro Marian Sciauitò. Il primo battaglione spintosi avanti al colle si è impegnato vivamente, è però sostenuto dalle bande dell’Hamasen. Il sesto battaglione occupa una forte altura di destra. Gli altri due battaglioni stanno ammassandosi con l’artiglieria. Prevedo certo un serio impegno. Avanzi la brigata Arimondi a rincalzo. Sarebbe molto opportuna avanzata brigata Dabormida che chiamerebbe a sé parte del nemico.” Una situazione prospettata con indubbio ottimismo e tale da non lasciare adito a repliche, ma in verità il maggiore Turritto che era arrivato a contatto col nemico, poco aveva potuto contro decine di migliaia di guerrieri e già stava ritirandosi, senza poter usufruire dei rinforzi della Brigata  per l’enorme distanza che vi aveva frapposta. Un quarto d’ora dopo aver inviato il biglietto, con il battaglione di avanguardia annientato,  però anche la Brigata arrivò in vista del nemico e Albertone ordinò il fuoco del suo potentissimo parco di artiglierie, quelle indigene e soprattutto quelle “Siciliane” il cui portamento rimase leggendario: il precisissimo tiro difatti, scompaginò le file degli abissini e la crisi dell’esercito di Menelik, che stava subendo  perdite ingentissime, era lampante: ovvia e naturale la domanda “ se un terzo della forza italiana stava quasi per sconfiggere tutta l’Armata Imperiale, cosa sarebbe successo, se conformemente al piano redatto da Salsa, tutte e tre le Brigate, più quella di Riserva di rincalzo, avessero attaccate congiunte?   A quel punto del racconto, il vecchio signore, che a rigore, facendo parte della Brigata Ellena e quindi assai lontano  dai fatti in questione, non era stato certo testimone oculare, adottò quella storia/leggenda dell’intervento della imperatrice Taitù moglie di Menelik, che vedendo che il marito e tutti i Ras cominciavano a tentennare, prese ad urlargli contro improperi e accuse di viltà e paura  L’incitamento di una donna, la necessità di non mostrarsi vili, fece sì che nessuno potesse arretrare senza perdere definitivamente la faccia, il che in Etiopia equivaleva a perdere la vita. A completare la scena giunse il Ras Mangascià del Tigré, negus mancato (era il figlio illegittimo del Negus Giovanni IV),  che si unì alle invettive  della donna e impose ad un tentennante Menelik di gettare nella mischia tutte le forze, inclusa la Guardia Imperiale. “Da otto anni faccio la guerra agli italiani e voi per un giorno non osate” gli urlò , e con questo la sorte della Brigara Albertone e poi delle altre tre era  segnata. Praticamente dopo questo momento la battaglia di Adua si doveva risolvere in una serie di massacri distinti e separati di un esercito che si era andato disperdendo a casaccio tra i monti e le valli del territorio etiopico:  distrutta la Brigata di Albertone , le forze abissine si riversarono contro quelle di Dabormida che tra l’altro si era erroneamente andato a cacciare nel vallone di Mariam Sciauità e quindi fu facilmente accerchiato e massacrato e poi frontalmente contro quella di Arimondi che aveva il fulcro di resistenza sul Monte Rajo e sul quale confluirono anche parecchie riserve della Brigata Ellena ivi compreso quel famoso battaglione alpini di cui la voce narrante faceva parte  e che quindi si dilungò non poco sulla morte del comandante Ten.Col. Davide Menini . Morirono anche sul campo il Gen.Arimondi e il Gen. Dabormida, mentre il Gen.Albertone venne catturato prigioniero. 
Oramai le prime case dei sobborghi di Roma si stagliavano nella sera oramai avanzata: difficile paragonarle agli acrocori, di cui il lungo racconto del vecchio signore avevano infiammato l’immaginario del ragazzetto; la notte però può fare di questi scherzi e le linee diritte spigolose dei palazzi, potevano anche  attondarsi e conformarsi ai profili descritti nella lunghissima esposizione. Aveva avuto un racconto di un testimone oculare di un fatto storico di oltre sessantacinque anni prima, ora non restava che trovare  i relativi resoconti più o meno ufficiali di quanto udito:  il Maggiore Salsa, il Capitano Bassi, Ras Makonnen, Alula, Baratieri e poi Baldissera, che  in quello stesso giorno in cui si consumava la tragedia di Adua, veleggiava verso Massaua per riprendere in mano la situazione e con la sua competenza di antico ufficiale asburgico avrebbe rimesso ogni cosa al suo posto….  Ovviamente il ragazzetto si sarebbe fatto una propria opinione di fatti e personaggi, ma col tempo quel lunghissimo racconto, contrassegnato dal rumore del treno sulle rotaie, da quell’atmosfera sanguigna dello scompartimento, dallo scorrere del panorama per buona parte marino che riempiva il finestrino, magari con una precisazione in più e con una osservazione in meno, sarebbe andato a costituire uno dei punti più fermi del suo interesse verso la storia.

 

IL RISVEGLIO DELLA RAGIONE NEL FUTURO ANTERIORE

  Io un buon libro di di saggistica lo leggo mediamente dieci quindici volte, con punte di oltre cento e magari duecento, per saggi davvero ...