Originalissimo questo saggio di Guglielmo Ferrero e perfettamente in linea con lo sconvolgente del precedente saggio da me casualmente e fortunosamente ritrovato che perviene alla tesi che le rivoluzioni francesi furono due. La prima, quella del 1789 cercò di coniugare il principio di legittimità monarchico con le nuove aspirazioni di cambiamento sociale, la seconda, che culminò con la rivoluzione giacobina del 2 giugno 1793, si propose di abbattere violentemente la monarchia e di sostituire il principio monarchico con quello repubblicano. Due rivoluzioni di natura diversa, l'una creatrice, l'altra distruttrice si realizzarono contemporaneamente. Quella distruttrice offuscò e deviò le forze creative paralizzandole e annientandole: "Sta qui il segreto della Rivoluzione francese, la chiave di tutte le sue contraddizioni: la prima rivoluzione scrive Ferrero è nata dal movimento intellettuale del secolo XVIII; la seconda è figlia della Grande Paura" La paura, “anima dell’universo vivente”, è un pilastro portante della concezione di Guglielmo Ferrero della natura umana e della dimensione sociale e politica degli uomini e che oggi più che mai a proposito dell'attuale distopia ingenerata dalla farsa di una immotivata pandemia (un vero e proprio terrorismo sanitario) Muovendo da una paura ancestrale l’uomo pre-logico perviene alla civiltà, una “scuola di coraggio” capace di dominare i terrori esistenziali e collettivi. Ma la vittoria della civiltà è precaria perché la paura storica, corposa e tangibile accompagna sottotraccia le vicende degli uomini e in certi momenti, come il 1789, si impadronisce delle folle, delle Corti e dei capipopolo e in quanto passione cieca dirige gli eventi in direzioni imprevedibili e contraddittorie. La paura, “il pazzo terrore”, assurge in Ferrero a funzione di vero motore della Rivoluzione francese: una interpretazione originale dell’Ottantanove, refrattaria a schemi precostituiti e di sorprendente attualità.
L’analisi di Ferrero è del tutto estranea a una lunga tradizione politica
e accademica di studi soprattutto francesi del primo
Novecento, che ha codificato un’idea della rivoluzione in
quanto «rivoluzione borghese», che ancora oggi rappresenta l’immagine più o meno consapevolmente condivisa nel
sapere comune. Rispetto a tale immagine, il saggio appare
come un’incursione indiscreta e dissacrante nel cuore di una chiesa richiusa su se stessa, che evita accuratamente ogni
contatto con il mondo esterno, e custodisce gelosamente gli
inutili segreti di un magistero isterilito. Non a caso Furet, nella sua violenta polemica revisionista contro la «storiografia classica», allora impersonata dallo
storico Albert Soboul, ha denunciato l’egemonia di
un autentico «catechismo rivoluzionario». Secondo tale
catechismo la rivoluzione è per definizione un evento di rottura
radicale rispetto al passato, ma al tempo stesso di forte
spinta e propulsione verso il futuro, nell’ambito di un cammino
progressivo della storia. E la Rivoluzione francese, madre
di tutte le altre rivoluzioni dell’Ottocento e del Novecento,è
la «rivoluzione borghese»: negli stadi successivi di
una società che progredisce costantemente verso forme più
evolute di civiltà, la rivoluzione rappresenta il salto decisivo dall’antico
regime delle monarchie assolute alle moderne democrazie
parlamentari fondate sulla sovranità dei popoli.
Questa
idea sostanzialmente positiva della rivoluzione si inscrive nell’ambito
di una teologia economicista della storia che
vede come ineluttabile un certo sviluppo delle forze economiche
e sociali, ad esempio dal più arretrato modo feudale di
produzione al più evoluto modo capitalistico, a cui viene
subordinata tutta la dinamica politica. In questa prospettiva la
rivoluzione adempie la funzione di riassestare i rapporti
di forza tra le classi, soprattutto della nobiltà in decadenza rispetto
alla emergente borghesia, in armonia con le nuove
realtà economiche. Si ristabilisce così quel giusto equilibrio
tra società e politica che è nell’ordine delle cose e nella
logica determinista dello sviluppo progressivo della «ricchezza
delle nazioni». Questa concezione della storia, che
si inserisce in una linea di pensiero che da Turgot e Condorcet,
attraverso Sieyès e Barnave, porta direttamente a
Guizot e a Marx, viene ripresa da Jean Jaurès nella sua Histoire
socialiste de la Révolution francaise del primo Novecento,
che fa della Rivoluzione francese il modello esemplare della
«rivoluzione borghese». Da allora, la cosiddetta « storiografia classica»
di Albert Mathiez, di Georges Lefebvre, di
Ernest Laborusse e di Albert Soboul, diretti eredi della lezione
metodologica e ideologica di Jaurès, ha perpetuato e imposto
accademicamente questa immagine dogmatica della rivoluzione,
che è stata solo in parte scalfita dalla «revisione
» di Alfred Cobban, di R. R. Palmer e di F r a n c is Furet degli
anni Cinquanta e Sessanta. In realtà, la revisione, al di là
di efficaci demolizioni di singoli aspetti della tesi classica,non
ha saputo proporre alcun discorso generale sulla rivoluzione e,
in mancanza di una nuova valida alternativa, si è continuato
a utilizzare i vecchi quadri concettuali. Tuttavia, dietro
i concetti tradizionali non vi era più la sostanza di un discorso
politicamente pregnante. Non c ’era più quell’idea«
forte » di rivoluzione che alimentava e giustificava il « sistema»
di Jaurès nell’ambito di una filosofia della storia. Si è creata,
così una situazione di impotenza e
di sterilità della storiografia, che è il riflesso diretto di
una confusione politica e ideologica sul concetto di rivoluzione.
Alla Rivoluzione francese si è fin troppo guardatocome
all’origine e al modello esemplare di un’esperienzastorica
e politica, che il socialista Jaurès aveva vissuto coniugando insieme
materialismo e idealismo, rivoluzione e riforme,socialismo
e democrazia, e che, nell’Italia del dopoguerra, la
sinistra costituzionalista e repubblicana formatasi nella Resistenza, viveva come impegno alla costruzione di unanuova
democrazia. Perciò, comunque si interpretasse la Rivoluzione francese,
alla Mathiez, esaltando e glorificando il giacobinismo
del 1793 in quanto primo archetipo del bolscevismo, o
alla Aulard, ponendo l’accento sul 1789 e ritrovando la
lezione di democrazia borghese parlamentare, vi era
un accordo generale sull’evoluzione storica di cui tale rivoluzione era
stata l ’inizio e il propulsore: con la distruzionedell’antico
regime si erano poste le basi della società contemporanea, laica
e progressista, caratterizzata dalla democrazia politica
e dall’inarrestabile sviluppo del capitalismo. In questa temperie
culturale gli europei antifascisti e democratici erano
tutti figli della Rivoluzione francese. Ma da quell’epoca tutto
è cambiato. Gli anni della guerra fredda e la lacerazione dell’Occidente
nei due blocchi contrapposti del comunismo e
dell’anticomunismo, insieme alla crisi dello stalinismo e
alla denuncia delle sue gravi responsabilità storiche, per
citare soltanto due dei tanti avvenimenti che hanno completamente
mutato e sconvolto i quadri concettuali della opinione
corrente, hanno bruscamente spezzato e definitivamente precluso
l’unanimità di una valutazione comunque positiva
della rivoluzione. La reazione degli storici della «storiografia
classica» è stata di pura conservazione accademica e
di repressione indiscriminata: chiunque deviasse dal credo
del materialismo storico e della centralità nella storia della
lotta di classe non era degno della qualifica di storico e di
studioso. Così facendo, non solo hanno isterilito e sclerotizzato il
loro stesso mestiere di storici, ma hanno monopolizzato il
campo della ricerca, togliendo ad altri lo spazio e la possibilità,
anche psicologica, di un ripensamento del problema della
rivoluzione, che fosse più significativo e adeguato al
mutare dei tempi. Era facile essere bollati di reazionarismo, se
solo si cercava di suggerire che, non sempre e necessariamente, l’immagine
della rivoluzione dovesse essere così positiva.
Non era ancora consentito di chiedersi come
mai la grande
madre di tutte le rivoluzioni avesse partorito il cesarismo bonapartista
e le dittature del proletariato del ventesimo secolo apparentemente così lontane dai valori della democrazia del 1789.
Abbiamo avuto così, nel 1952,
il saggio Le origini della democrazia totalitaria di JacobTalmon,
che a torto è stato considerato soltanto come un pamphlet
di propaganda anticomunista e il saggio sulla
rivoluzione di Hannah Arendt del 1963, che alla riuscita della
rivoluzione americana contrappone il fallimento delle altre
rivoluzioni moderne, quella francese e quella russa, involutesi
entrambe in forme di dispotismo.
Non
casualmente, questi studi hanno in comune il fatto di essere
estranei alla cultura e accademia francese degli storici della
Sorbona e di rivendicare la centralità della politica come
necessario
punto di partenza nell’interpretazione della rivoluzione.
Ci
voleva, in effetti, per innovare veramente e rompere
le resistenze di una tradizione consolidata, un intervento esterno.
Esterno alla retorica patriottica e nazionalista francese
che alimenta il mito della sua rivoluzione, ed esterno alla
comunità scientifica che di tale tradizione è il custode intransigente.
A tutto ciò è del tutto estraneo, mentre si
inserisce
bene nel contesto di un discorso neoliberale, il libro Le
due rivoluzioni di Guglielmo Ferrero, che, tra l’altro, nella
sua demolizione del mito napoleonico richiama direttamente
la
lezione di Lo spirito di conquista e d ’usurpazione di Benjamin
Constant. Il suo approccio alla storia è quello di un
sociologo della politica che nella storia cerca la verifica di un
sistema di categorie. E' un sistema molto
semplice basato sul concetto di legittimità del potere che
Ferrero aveva già collaudato nell’ambito della storia romana,
dove, esaminando « la rovina della civiltà antica», ne
aveva individuato la causa nell’incapacità di conciliare due
principi d’autorità tra loro antagonisti: « Il principio monarchico che
aveva avuto un grande sviluppo in Oriente... e il
principio repubblicano che si era sviluppato in Europa, soprattutto in
Grecia e in Italia, nelle istituzioni della città antica Questo antagonismo aveva trovato una temporanea conciliazione
nella figura dell’imperator, ma era sempre stata difettosa perché non era riuscita a definire
il principio costituzionale donde doveva uscire l’autorità suprema
di quella monarchia repubblicana, questo principio
non essendo né l’eredità, come nelle monarchie, né una
regolare elezione... come nelle repubbliche... Da questo nacque
il gran tumulto di rivoluzioni e di guerre che... ha tutto
distrutto». E , conclude Ferrero « in fondo a questa
immensa
crisi storica, troviamo dunque la lotta di due princìpi opposti,
che invece di conciliarsi, come si vorrebbe, finiscono per
distruggersi...».
Sono
già delineate la sociologia politica e la concezione della
storia che ne deriva in quest’opera del 1926 dove Ferrero, con
la sua tipica audacia comparativista, stabilisce un
diretto
parallelo tra la decadenza dell’impero romano nel III secolo
e la crisi dell’Europa del ventesimo secolo. In ambedue i
casi l’idea della «decadenza» non è legata a un regresso,
ma
anzi a una crisi di sviluppo, particolarmente sentita nella
società contemporanea: qui, di fronte al crollo dei vecchi princìpi
monarchici di autorità, la civiltà europea rivela la
sua incapacità di costituire un nuovo ordine politico basatosul
principio democratico, subendo le conseguenze negative dell’essere
diventata una «civiltà quantitativa». In effetti, una
«civiltà quantitativa» non può, per definizione, essere «una
vera forma di civiltà», ma solo «una transizione tumultuosa, una
parentesi più o meno lunga», nell’ambito della storia
di una «civiltà che non può essere che qualitativa» .
A questa «formula politica», manca
soltanto un’altra
componente, quella della paura umana nei confronti
della morte, che, come viene spiegato è la
sua passione fondamentale, il «contraltare della passione di
vivere», che impegna la maggior parte della sua energia in
una
«lotta contro il tempo e contro la morte ». Dalla dolorosa consapevolezza
di questa paura, non come paura della natura,
ma come paura che l’uomo fa a se stesso in quanto da sé, nasce l’esigenza delle prime forme di civiltà e disistemi
di potere ad esse corrispondenti: sono tentativi di creare
una situazione di stabilità che neutralizzi la paura.
Così,
osserva Ferrerò, « il Potere», fin dal suo nascere, « è la manifestazione
suprema della paura che l’uomo fa a se stesso, malgrado
gli sforzi per liberarsene. E questo forse il segreto
più
profondo e più oscuro della storia.
In
questo segreto è riassumibile tutta la storia della civiltà, che
è la storia di un potere collettivo, creato per esorcizzare la
paura, e organizzato nella forma di uno Stato che « è
uno
solo e sempre e dappertutto lo stesso: dei capi che comandano e
che giudicano, dei soldati e dei poliziotti che impongono con
la forza la volontà e le sentenze dei capi, la massa
che spontaneamente e forzatamente obbedisce »Ma
perché questo sistema funzioni, e non accada che la paura
si riproduca e si moltiplichi, nella forma della «paura del
Potere... a cui i soggetti sono sottoposti», e della paurache
« il Potere ha... dei soggetti a cui comanda», occorre che
tale Potere abbia il requisito della «legittimità». Infatti, il
potere di un governo non è riducibile al fatto di «una piccola minoranza
ben organizzata che riesce a imporsi a una
maggioranza
non organizzata», è anche questo in relazione a
quella che è stata definita la sua «effettività » . Ma è qualche cosa
di più, e consiste nel «principio di legittimità», cioè
nel principio che costituisce la giustificazione del potere, e
stabilisce « a chi spetta il diritto di comandare e a chi il dovere
di obbedire». Esso, puntualizza Ferrero, «non è necessariamente
razionale, anzi è spesso e volentieri assurdo e irrazionale. Tale è, ad esempio,
il principio dell’ereditarietà. Quale garanzia abbiamo, infatti,
che colui che ne è il beneficiario avrà le qualità che
si richiedono per l’esercizio del potere? Ma una volta che
sia stato accettato, il principio di legittimità diventa una cosa
seria, addirittura sacra. Bisogna applicarlo lealmente e
accettarne
gli inconvenienti, se non si vuole gettare la società nel
caos più spaventoso». È questa la ragione per cui Ferrero chiama «geni invisibili della città » i princìpi di legittimità
e
li definisce come passioni « di origine mistica, di cui l’intelletto
non può rendere ragione» Si tratta di «reggitori invisibili
del nostro destino», che «non sono come gli esseri viventi
visibili e tangibili», ma ricordano piuttosto «quelle
essenze intermedie fra le divinità e gli uomini che i
romani
chiamavano “ geni” » Ed è solo in virtù
della vigilanza di
tali geni che il Potere riesce a imporsi come legittimo, liberando
se stesso « e i suoi soggetti dalle reciproche paure»,
e «sostituendo sempre più nei loro rapporti il consenso alla
coercizione» E la fine di un potere legittimo è sempre
una catastrofe che fa di colpo ricadere gli uomini nella
barbarie e nella paura. E questo il dramma dell’antico regime,
il cui «genio » tradizionale, vale a dire il «principio di
legittimità aristocratico monarchico», non corrisponde più allo
spirito dei tempi, cioè ai nuovi costumi, abitudini e interessi, mentre
comincia invece a farsi luce « l ’idea che il Potere abbia
bisogno della sanzione del popolo per essere legittimo». Inizia
così quel «contrasto tra il principio della legittimità aristo-monarchica
che invecchiava e il principio democratico che
lentamente si irrobustiva», il cui esito è la Rivoluzione
francese, o meglio le due rivoluzioni in contraddizione tra
di loro: la prima, quella del 1789, che nasce dal movimento
dei lumi e tenta, senza riuscirci, di fondarsi come nuovo
potere legittimo della sovranità del popolo; la seconda, definita
da Ferrero come « la rivoluzione del 1799 e del
Diciotto Brumaio», ma in realtà iniziata fin dal «colpo di
forza del 2 giugno» del 1793, che, «figlia della Grande Paura»,
ha generato « il primo governo totalitario dell’Europa"
Nell’opera Le due rivoluzioni si cerca di dimostrare lavocazione
irrimediabilmente totalitaria della rivoluzione in quanto
tale, che, proprio in quanto nasce dalla distruzione
della
legittimità esistente, è destinata a produrre «un risultato esattamente
opposto a quello che ci si attendeva», cioè
la dittatura di una minoranza sempre più esigua il cui potere
si fa progressivamente più illegittimo, diventando ogni
giorno più violento e meno fondato sul consenso popolare.
La legge non
esiste più e la sua latitanza scatena quel movimento di
panico e terrore collettivo che ha coinvolto tutti i francesi indistintamente,
dai contadini alla nobiltà, e che è stata chiamata
la «Grande Paura». Con la scomparsa della legalità monarchica
e con la grande paura il destino della rivoluzione è
irrimediabilmente segnato: il suo governo cercherà di costituirsi come
una autentica democrazia, che vuole creare un potere
legale basato sulla indiscutibile volontà sovrana del popolo,
il cui ampio consenso è garantito dal leale e solidale
confronto
di una maggioranza al potere e di una minoranza all’opposizione.
E questo, per Ferrero, il corretto funzionamento di
una «democrazia legittima», dove «Potere e opposizione
sono...
gli organi solidali dell’unica volontà collettiva, ma
si scontra invece con la resistenza e riluttanza del popolo
stesso all’esercizio effettivo della sua sovranità, e con l’impossibilità
politica di una sua attuazione, dato che, come sostiene
Ferrero, «se si fosse applicato lealmente il meccanismo della
maggioranza e della minoranza, il principio aristocratico
e
monarchico avrebbe trionfato». E' così che i rivoluzionari, travolti
e dominati dalla paura e dall’insicurezza, si avviano fin
d’ora a creare invece un «governo rivoluzionario», illegittimo
per
definizione, il cui «potere viene attribuito ed esercitato
secondo regole nuove, poco precise, imposte da una
minoranza, il più delle volte con la forza, a una maggioranza che
non vuole affatto saperne». E un governo che, osserva
Ferrero, diventa «rivoluzionario per la forza delle cose», in
una situazione storica in cui la «rottura della legalità precedente»
e la costituzione di un «potere illegittimo»,
insieme allo «stato di paura generale» che ne consegue e
che coinvolge sia chi deve obbedire che chi deve comandare, rendono
inevitabili l’impiego e l’abuso della forza. Allora «il
potere non riconosce più alcun limite alla sua forza e diventa assoluto».
È questa la realtà di tutte le rivoluzioni, che
finiscono sempre coll’essere coinvolte in quello che Ferrero chiama
un «cerchio infernale», della «paura che provoca
gli
abusi della forza», e degli «abusi della forza che esasperano la
paura». E evidente il richiamo a «cerchi infernali»
del nostro presente che pone una sorta di assioma sulla rivoluzione che sempre e comunque comporta
lo stesso esito fallimentare.